venerdì 17 agosto 2007

Il lavoro nel cinema: Ken Loach

Giuliano
L’amore per i suoi personaggi è la prima caratteristica, quella fondamentale, di Ken Loach. E’ un fatto raro, sia al cinema che nei libri. Ken Loach ama i suoi personaggi di un amore smisurato, li mette in scena con tutti i loro pregi e i loro difetti, ne parla come farebbe una madre con i suoi figli.
Da questo punto di vista, Loach è il vero ed unico erede di Charlie Chaplin. Non nasconde niente: la meschinità, la sporcizia, la violenza. Ma, sempre, su tutto prevale l’amore. Anche nei momenti più scabrosi, Loach pare non voler giudicare; sembra quasi che soffra nel raccontare, proprio come farebbero un padre o una madre davanti al dolore arrecato da un figlio; e c’è anche il pudore, o la gioia estrema, nel raccontare i momenti felici, l’amore per l’appunto.
L’ambito principale dei film di Loach è il lavoro. Non il lavoro d’ufficio, i manager o i pubblicitari rampanti che vanno tanto di moda, ma il mondo del lavoro vero, quello oscuro di cui si parla poco e che si dà quasi sempre per scontato. E che invece è fatto di gente vera, viva, spesso anche bella.
Chi ha lavorato, e chi lavora davvero, sa quanti sono i luoghi comuni sul mondo del lavoro. Magari sono cose dette a fin di bene, per educare i figli: “fai il tuo lavoro, e fallo bene; vedrai che ne sarai ricompensato”. Purtroppo, non è vero: ed è una delle scoperte più amare della vita. Non sempre: a volte capita, certo, che il lavoro fatto bene sia ricompensato. Ma, per fare solo un piccolo esempio, l’impiegato di banca che – solo pochi anni fa - sconsigliava al cliente i bond argentini, o le azioni Cirio e Parmalat, con ogni probabilità stava rischiando il suo posto di lavoro.
Ken Loach si è occupato spesso della disoccupazione e del lavoro precario, e di quale è stato il vero effetto delle riforme di Margaret Thatcher sul mondo del lavoro. Anche volendo sorvolare sugli incidenti sul lavoro (un sorvolare davvero difficile), sono in pochi a rendersi conto che avere lavoratori precari, che saltano da un lavoro all’altro da un giorno con l’altro, significa avere lavori malfatti e mancanza di sicurezza. C’è una forma di massimalismo veramente pericolosa, intorno alle recenti leggi sul mondo del lavoro: chi le critica, magari anche solo in aspetti marginali, diventa immediatamente un terrorista. Il lato divertente è che queste invettive massimaliste vengono quasi sempre da persone “che non hanno mai lavorato”: ex banchieri settantenni con pensioni d’oro, distinte signore che campano magnificamente da decenni tra i vari rami dei vari Parlamenti (anch’esse in età da pensione, e pensione doratissima), stimatissimi commercialisti con quattro dita di pelo sullo stomaco, palazzinari d’antica data... E intanto se si chiede assistenza da una ditta qualsiasi è sempre più difficile trovarsi con un lavoro ben fatto, “come si faceva una volta”, che sia il selciato della strada qui sotto o l’allacciamento dell’ADSL non fa differenza.
Ma mi fermo subito con l’invettiva, qui si parla di cinema e a me preme sottolineare la grande bravura e la grande umanità di Ken Loach. Magari ci vuole un po’ di pazienza, ma le sue storie d’amore sono tra le più belle che mi sia capitato di vedere al cinema; e pazienza se sono capitate ad operai e ferrovieri, mica si può sempre stare su Beautiful.
PS: Una volta avevo un’amica, giovane e di sinistra. Mi chiese che film avevo visto di recente, e io – sciagurato – glielo dissi.
- Un film di Ken Loach, l’ultimo che è uscito.
- Di che cosa parla?
- Dei ferrovieri inglesi. Del momento in cui la Thatcher ha privatizzato le Ferrovie, dell’esternalizzazione dei servizi. E’ la storia di un gruppo di questi ferrovieri, e nel film c’è la descrizione di un incidente sul lavoro, un incidente mortale che viene camuffato da incidente stradale.
- Ah, chissà che noia.
(Anno 2002: il film era “The navigators”, che in Italia è diventato “Paul, Mick e gli altri”. Non uno dei migliori di Ken Loach, ma io avevo visto quello e con una ragazza “di sinistra” pensavo che si potesse parlarne...)
PPS: Io non ho mai lavorato in un ufficio. Quando vedo tutti questi film e telefilm dove c’è “papà che lavora in un ufficio”, “mamma che è ancora in ufficio”, mi chiedo in che mondo vivano. Io conosco solo i turni in fabbrica, la sveglia puntata alle cinque meno un quarto, quindici anni di notti insonni passate in reparto, eccetera eccetera eccetera.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Auguri di buon post-ferragosto a todos!

Brian

Solimano ha detto...

Brian, bentornato e ci risentiremo!
Giuliano, riguardo quella tua amica che tu chiami "di sinistra" non la vedo del tutto come te.
Anzitutto perché la noia non è una scelta, ma un dato di fatto. Se una cosa la troviamo noiosa non possiamo obbligarci a non trovarla noiosa. Possiamo farci delle domande, questo sì, ma non decidere sul nostro gradimento unicamente in base al tema scelto: ci sono delle nature morte sublimi, ci sono degli affreschi di decine di metri quadri insignificanti.
Poi, la difficoltà riguardo il tema del lavoro è obiettiva, perché il lavoro è l'opposto del tempo libero, quindi è tempo schiavo. Non mi sento di mal giudicare i tanti che, oppressi da una settimana di lavoro non gratificante scelgono un film di intrattenimento.
Poi, sul merito del lavoro oggi, come ben sai ce ne sarebbero molte da dire. Per me un aspetto che reputo assolutamente scandaloso è che, soprattutto nel pubblico impiego, si è creata una sperequazione fra lavoro a tempo indeterminato e lavoro precario molto peggiore di quella che c'è nell'industria privata, perché ci sono delle sacche molto vaste di inefficienza e di parassitismo in conseguenza delle quali non solo c'è il privilegio del contratto di lavoro più favorevole, ma anche quello di un minore impegno e minore presenza sul posto di lavoro. E qui una forte responsabilità ce l'hanno proprio i sindacati, che nel pubblico impiego si appiattiscono sulle posizioni dei garantiti, mentre ci sarebbe tanto da fare per i non garantiti. Ma è purtroppo un circolo vizioso: i sindacati danno retta ai loro iscritti, quello che non riguarda gli iscritti non lo curano. Poi ci si meraviglia se sorgono certi estremismi...

saludos
Solimano

Giuliano ha detto...

Caro Solimano, il problema è che si trattava di “noia preventiva”. Non le ho nemmeno chiesto di andare al cinema insieme, stavo solo raccontando il film... E poi il film di Ken Loach era un bel film, pieno di storie belle. Quando dico che non era uno dei suoi migliori, è solo perché Loach ne ha girati di bellissimi (così come Mike Leigh).
Uscendo dal discorso strettamente cinematografico, quello che volevo dire è che mi colpisce come si voglia sempre chiudere gli occhi davanti alle morti sul lavoro, agli infortuni, ai disastri causati da lavori mal fatti (dove la colpa è il più delle volte dei capi, ma ricade sempre sull’ultimo della fila: vedi il caso recente delle bambole della Mattel, dove si dà tutta la colpa ai maledetti cinesi, e invece bisognerebbe ragionarci un po’ sopra e vedere perché la Mattel fa costruire le bambole proprio in Cina...).
Capisco bene che al cinema ci si voglia divertire, ma ormai siamo da tempo nell’eccesso opposto, e qui davvero non ci siamo.