mercoledì 6 giugno 2007

Bernardo Bertolucci al cinema (2)

“Tutto è partito dal rito del maiale” (2)
Bernardo Bertolucci intervistato da Beppe Sebaste su la Repubblica, 18 giugno 2006

«E’ un film che comincia con un gobbo che grida "è morto Verdi", un contadino ubriaco vestito da Rigoletto. Miracoli del cinema: l'attore, Giacomo Rizzo, è ora tornato fuori in un film di Sorrentino. Comincia quindi come un risveglio dopo i funerali dell'Ottocento. Un altro contrasto del film è proprio la storia, il ricco e il povero, il figlio del padrone, Alfredo, e quello bastardo dei contadini, Olmo. Scrissero il film con me mio fratello Giuseppe e Franco Kim Arcalli. Vorrei ricordare e commemorare Kim Arcalli: cresciuto a Venezia, padre ucciso dai fascisti, partigiano a quindici anni, venne a Roma negli anni Cinquanta, scriveva e montava film. Lo incontrai al tempo del Conformista, fu lui a farmi scoprire le meraviglie del montaggio, che allora tendevo a rifiutare: mi insegnò che il buio della moviola è come il buio della miniera, da cui scopri ed estrai materiali preziosi, come un inconscio del film. Kim era spesso sul set di Novecento, uno di quelli senza cui il film non sarebbe esistito, come Vittorio Storaro (che conosceva bene la Bassa padana), la costumista Gitt Magrini, lo scenografo Ezio Frigerio, cui si deve tra l'altro l'idea dell'enorme bandiera fatta di tante bandiere rosse cucite l'una all'altra, che diventa come un tendone sotto cui i contadini ballano Bandiera rossa».
«Oggi rivendico ancora quell'orgia di bandiere rosse che fu Novecento. Il Pci era qualcosa di unico in Europa e nel mondo: un partito che si era distaccato dall'Urss nel 1968 con la Primavera di Praga. Era un momento speciale. Mi sentivo ancora più forte, in questa specie di materializzazione di un sogno ideologico, dal momento particolare che l'Italia stava vivendo. Era il momento in cui Berlinguer era più ispirato, la politica era di casa in ogni famiglia e gli italiani ne erano appassionati. Quando fui invitato nel 1977 a un festival a Mosca, in un enorme cinema, dissi: "So che forse per voi in questo film ci sono troppe bandiere rosse, e non ne potete più. Anche per gli Stati Uniti ci sono troppe bandiere rosse". Novecento, che ebbe un grande successo in tutto il mondo, fu punito proprio in Usa e in Urss, dove uscì malamente, da nascondere più che da mostrare».
- Anche in Italia ebbe reazioni inattese. A sinistra fu mal visto proprio uno dei suoi momenti più emozionanti, il processo, il 25 aprile, fatto nell'aia dai contadini seduti in cerchio al padrone Robert De Niro.Il padrone viene accusato perfino da chi ha perso i denti o quattro dita. Bellissima scena di poesia in cui dai la parola a chi era privato di una lingua, e fai del processo un evento in sé, catarsi e testimonianza.
«Quando Paese Sera organizzò una tavola rotonda con, tra gli altri, Paolo Spriano e Giancarlo Pajetta del Pci, alla fine del primo atto (dopo l'episodio della morte dei vecchi nell'incendio dei fascisti alla casa del popolo) Pajetta era quasi con le lacrime agli occhi. Alla fine, invece, era furioso, perché il secondo atto si basava, disse, su un falso storico: "Nel '45 non abbiamo mai fatto il processo ai padroni". Era l'epoca del "compromesso storico”, ma in quel momento ebbi una specie di brusco risveglio dal mio sogno. Risposi: "Capisco il momento storico, e che non avete fatto nel 1945 il processo al padrone, coi contadini seduti in cerchio, ma è possibile che avete paura di un film che fa il processo ai padroni nel 1976?". Avevo dedicato questo film alla mia chiesa, il Pci, e provai molta amarezza. Amendola disse in tv che era un film bruttissimo. Mi furono vicini solo i giovani comunisti amati da Pasolini, la Fgci di Roma (Veltroni, Bettini, Borgna e, segno dei tempi, Adornato), che difesero il film. Tutto questo fa parte di un movimento storico e tellurico. In fondo, sono passati solo trent'anni».
«La lavorazione del film doveva durare quattro-cinque mesi, finì per durarne il doppio. La struttura, essendo un film sulla campagna, non poteva che seguire la cadenza delle stagioni: l'estate, cioè l'infanzia, girata nel luglio-agosto del '74: un mondo pieno di nonni, Burt Lancaster e Sterling Hayden, quest'ultimo una grande, contraddittoria figura, che conosceva i partigiani jugoslavi dal tempo della guerra, ed ebbe un crollo durante il periodo maccartista. Burt Lancaster, quando lesse la sceneggiatura, accettò e disse che non voleva coinvolgere il suo agente, perché avrebbe chiesto troppi soldi, e lui il film voleva farlo comunque perché gli ricordava il Gattopardo. Poi l'autunno e l'inverno, che corrispondono al fascismo e alla nascita della coscienza di classe. Infine la primavera, il 25 aprile. Mi vengono in mente quelle piccole oleografie popolari che si trovavano nelle case dei nostri contadini, che mostrano le età dell'uomo, dall'infanzia che sale le scale fino alla maturità e la vecchiaia, in discesa. All'inizio degli anni Novanta, quando pensai di fare un terzo atto, dal '45 alla fine del secolo, mi resi conto che Novecento era basato su un grande idealismo politico, e dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell'universo sovietico, dopo la delusione politica in generale e il conseguente distacco, mi era impossibile continuarlo».
- Parliamo della durata, il tempo dell'epica. Prima della rivoluzione, dopo la rivoluzione: il prima e il dopo nella tua filmografia, e nel montaggio stesso di Novecento, si rincorrono in una continua oscillazione...
«Prima e dopo sono termini utilitaristici. Quando faccio i miei film, la vera sceneggiatura, invisibile, è il rapporto inconscio tra me e il film e l'inconscio non conosce il prima e il dopo, è come un bambino molto piccolo. C'è solo il tempo, che è forse un circolo, forse un fiume, chissà. Poiché non so lavorare altrimenti che lasciando libero il mio inconscio, per me è come una danza, avventurarmi in un prima così come in un dopo, dove tutto si tiene e si compenetra, come nei sogni. Credo di essere stato abbastanza fortunato da poter abbandonarmi senza sforzo a questo modo di fare film. Quanto alle storie lunghe, alla storia infinita, occorre tornare a quella figura che nonostante le uccisioni sempre rinasce, cioè Freud. In realtà i miei film, forse tutti i film, sono fatti di sequenze di un unico flusso che è la storia del cinema. Novecento, e anche L'ultimo imperatore (i miei film più epici e spettacolari) sono quelli che avrei voluto continuare, che potevano essere infiniti. Perché? E perché Freud? Uno dei miei grandi problemi è la separazione. Molto difficilmente riesco a separarmi. Ho una grave sindrome da separazione. Qualche malizioso potrebbe dire che i finali dei miei film non sono soddisfacenti. Se è vero chiedo scusa, ma non riesco a separarmi dai miei film, e separarmi da Novecento è stato difficilissimo. Quando dissi alla troupe - dolce esercito di occupazione (di pace) nella zona tra Parma, Mantova e Cremona - che il film finiva, fu uno shock collettivo: si erano radicati in quella terra. Separarsi da Novecento è stato molto complicato, ci sono voluti anni per elaborare quella separazione».
P.S. Nella immagine ci sono Bernardo Bertolucci e Vittorio Storaro quando giravano Novecento.

1 commento:

Giuliano ha detto...

Un'intervista che spiega tante cose, e non solo sul cinema: ma quelli che dovrebbero leggerla non la leggeranno mai...