mercoledì 20 giugno 2007

Akira Kurosawa al cinema (1)

Giuliano
da “L’ultimo samurai”, autobiografia di Akira Kurosawa, ed. Baldini & Castoldi

pag.67
(...) Ho ricevuto anch'io la mia parte di sgridate, a proposito dell'etichetta a tavola. Se tenevo i bastoncini nel modo sbagliato, mio padre prendeva i suoi per la punta e mi bacchettava sulle nocche con l'estremità pesante. Mio padre era molto severo per queste cose, eppure, come ho già detto, ci portava spesso al cinema.
Erano soprattutto film europei e americani. Sulla collina Kagurazaka c'era un cinema che si chiamava Ushigomekan, e proiettava solo film stranieri. Là vidi molti serials d'azione, e i film di William S. Hart. Tra i serials ricordo soprattutto L'impronta della tigre, L'antro dell'uragano, La serra d'acciaio, e L'uomo di mezzanotte.
I film di William S. Hart avevano un tocco virile simile a quello che trovai più tardi nei film di John Ford, e per la maggior parte sembravano ambientati in Alaska, più che nel selvaggio West. Di William S. Hart mi rimane impressa nella mente un'immagine: in sella al suo cavallo, un cappello a larghe tese sul capo, impugna un pistola per mano; le sue maniche di cuoio sono decorate d'oro. O cavalca nei boschi innevati dell'Alaska con abiti e cappello di pelliccia. Quel che mi resta in cuore di quei film è l'autentico spirito virile e l'odore di sudore maschile.
È possibile che avessi già visto dei film di Chaplin, ma dato che non rammento di aver avuto l'abitudine di fare imitazioni di Charlot, forse li ho visti solo più tardi.
C'è un altro ricordo cinematografico indelebile che m'è rimasto e che posso datare a quell'epoca. Mia sorella più grande mi portò in un cinema di Asakusa a vedere un film su una spedizione al Polo sud. Il capobranco dei cani da slitta si ammala, e gli esploratori devono lasciarlo indietro e proseguire col resto della muta. Ma il capobranco li segue, vacillando, più morto che vivo, e riprende il suo posto in testa alla muta. Vedendo le zampe che gli cedevano mi parve che mi si spezzasse il cuore. Aveva le palpebre incollate dal pus; la lingua gli penzolava tra i denti, mentre ansimava a corto di fiato. Era un muso patetico, triste e nobile. Mi si riempirono gli occhi di lacrime, tanto che stentavo a vedere lo schermo.
Sullo schermo velato di lacrime, un membro della spedizione conduce il cane oltre un declivio. Alla fine deve aver ammazzato la bestia, perché lo sparo di un fucile echeggia abbastanza a lungo da spaventare gli altri cani e da farli uscire dalla fila. Io scoppiai a piangere. Mia sorella cercò di consolarmi, ma non c'era niente da fare. Rinunciando a calmarmi, mi portò fuori dal cinema. Ma io continuavo a piangere. Piansi in tram, per tutto il percorso fino a casa; continuai a piangere anche una volta a casa. Non smisi di piangere nemmeno quando mia sorella mi disse che non mi avrebbe più portato al cinema. Ancora oggi non posso scordare il muso di quel cane, e ogni volta che ci ripenso sono pieno di ammirazione.
In quel periodo della mia vita non ero tanto entusiasta dei film giapponesi, se li paragonavo a quelli stranieri. Ma avevo ancora gli interessi di un bambino. (...)
P.S. L'immagine è dal film Ran di Akira Kurosawa

2 commenti:

Giuliano ha detto...

Il libro è di quelli da non perdere, anche per chi non conosce Kurosawa. E' un'autobiografia scritta quasi controvoglia, piena di pagine notevoli (e anche impressionanti).
Un libro da grande scrittore, anch'io ne sono rimasto sorpreso.

Solimano ha detto...

Giuliano, ho letto con interesse il brano iniziale e leggerò anche i successivi.
A me torna con insistenza il pensiero che Kurosawa e John Ford avevano una cosa importante in comune: l'amore per le opere di Shakespeare. Il personaggio, così frequente in Shakespeare,che vede le cose un po' dal di dentro un po' dal di fuori, il non inquadrato di cui l'esempio principale è il Mercutio del Romeo and Juliet, torna frequentemente sia in Kurosawa che in Ford, ricordiamoci uno per uno i passeggeri della diligenza di Ombre Rosse, e ricordiamo il Toshiro Mifune non solo nel Settimo Sigillo, o i personaggi de "L'uomo tranquillo". Non lo fanno per alleggerire la tensione, men che meno per far ridere, ma per dare un senso più ampio di vita e per uscire dai canoni: tragedia, commedia, farsa etc.
Nel primo brano di Kurosawa, nella storia del cane, c'è l'enorme pietà di cui era capace. La pietà è importante, è ben altra cosa dal sentimentalismo, la pietà è un sentimento forte, a volte fatto anche di sorrisi che comprendono.

saludos
Solimano