mercoledì 5 settembre 2007

Fitzcarraldo

Fitzcarraldo, di Werner Herzog (1982) Con Klaus Kinski, José Lewgoy, Miguel Angel Fuentes, Paul Hittscher, Huerequeque Enrique Bohorquez, Grande Otelo, Peter Berling, David Pérez Espinosa, Milton Nascimento, Ruy Polanah, Claudia Cardinale (158 minuti) Musica: Popol Vuh, Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Vincenzo Bellini, Richard Strauss Fotografia: Thomas Mauch Rating IMDb: 8.0
Giuliano
«Cayahuari-Yaru. Così gli indios della foresta chiamano questo paese, il paese dove Dio non riuscì a portare a termine la Creazione. Essi credono che Dio tornerà soltanto dopo la scomparsa degli uomini, per completare la sua opera.»
Così si apre il film, con una citazione che Herzog ci mette davanti, e che è decisamente impegnativa. Più avanti nel film, il protagonista si troverà a parlare con un missionario, un frate francescano che gli racconterà qualcosa delle credenze degli indios che sta per incontrare: gli indios credono che noi siamo un’illusione, e che i sogni sono la realtà. Questa risposta a Fitzcarraldo piace moltissimo, e il suo volto si illumina.
Siamo agli inizi del Novecento, e Brian Sweeney Fitzgerald, “re delle imprese inutili”, come viene sbeffeggiato ad un ricevimento, (la Ferrovia TransAndina ferma nella foresta vergine, la macchina per produrre il ghiaccio: a chi può servire il ghiaccio in Amazzonia?) ha un sogno: costruire un teatro d’opera a Iquitos, il piccolo paese dove vive. Non è una cosa così assurda: a Manaus, in piena Amazzonia, non molto distante, ne è stato costruito uno splendido, identico a quelli europei. Per realizzare il suo sogno, Fitzcarraldo (così lo chiamano gli indios, che non riescono a pronunciare il suo nome) decide di entrare nella produzione del caucciù.
Gli viene spiegato che le foreste dove ci sono le piante di caucciù sono state già tutte assegnate; il governo del Perù, nei pressi di Iquitos, ha ancora una zona libera, ma solo perché in quel tratto ci sono delle rapide spaventose e degli indios sanguinari. Fitzcarraldo non si fa fermare da queste cose, e con l’aiuto di Molly, tenutaria di un bordello di lusso (Claudia Cardinale) compera l’area libera e una nave, assolda un equipaggio e parte per l’impresa. La nave, battezzata Molly-Aida, è bella, bianca, grande, una nave da passeggio più che da trasporto; e l’equipaggio è un po’ troppo raccogliticcio, ma si parte lo stesso.
“Fitzcarraldo” di Werner Herzog è un film giustamente leggendario. La sua lavorazione impiegò un tempo interminabile, e di recente è stato pubblicato il diario che Herzog tenne durante la sua lavorazione (“La conquista dell’inutile”, diario 1979-81, Mondadori.) Il film è davvero sbalorditivo, e non so ancora oggi cosa pensarne, perché di finto non c’è niente, in quello che si vede. E’ tutto vero: la nave ha davvero salito la collina nel corso delle riprese, la collina è stata davvero sbancata, il fango è vero. E’ un’impresa impossibile anche il solo vederlo: due ore e mezzo, molto dense e piene.

In questo film Klaus Kinski appare molto più umano del solito, i ghigni spaccaobiettivo sono ridotti al minimo, a tratti (all’inizio soprattutto) assume perfino una posizione sottomessa, da cane bastonato, forse un retaggio del Woyzeck appena finito di girare sempre con Herzog. A Fitzcarraldo la gente vuole bene: quando in un accesso di follia sale sul campanile della chiesa e vi si barrica dentro, sono i bambini che lo “salvano”: si mettono fuori dalla prigione e non se ne vanno più, e anche i carabineros si arrendono e lo lasciano andare, tanto più che non ha fatto del male a nessuno. E, quando ci sarà da compiere l’impresa, Fitzcarraldo riuscirà a conquistare gli animi di tutti, anche degli indios. E’ un film che ricorda molto Apocalypse now, ma viene da pensare anche a “Incontri ravvicinati”: Fitzcarraldo comunica con la musica, con i dischi di Enrico Caruso affascina gli indios. Anche gli indios sono alieni, forse: ma più che la musica ad affascinarli è la meravigliosa nave bianca. Fitzcarraldo riuscirà solo in parte nella sua impresa: non costruirà il teatro, ma riuscirà a portare una vera compagnia d’opera, orchestra compresa, ad Iquitos.
Non ho mai approfondito l’argomento, ma so che a Manaus esiste per davvero un teatro d’opera, tuttora funzionante; e che in questi ultimi vent’anni in Venezuela è stata avviata una scuola di musica, nata per togliere i bambini dalla strada, che sta dando i suoi primi frutti, nel senso di grandi strumentisti e direttori d’orchestra qui in Europa, nelle grandi orchestre e nei teatri maggiori. Forse Herzog ne ha avuto sentore, perché (30 anni fa) già metteva in mano un violino ad uno dei bambini che seguono Fitzcarraldo: ne escono suoni discutibili, ma è così che si comincia.
E’ un pensiero che mi sorge spontaneo guardando la nave di Fitzcarraldo arrancare nelle acque dell’Amazzonia, col fonografo che manda la voce di Caruso: la nostra grande tradizione, oggi, è quasi tutta in mano a stranieri. E che stranieri: mica svizzeri o francesi, o magari jugoslavi, ma coreani, cinesi, giapponesi, e adesso indios dell’Amazzonia o loro discendenti più o meno diretti (come il tenore Juan Diego Florez, il direttore d’orchestra Gustavo Dudamel o il primo violoncello dei Berliner Philharmoniker, e tanti altri). La stessa cosa succede, per chi non lo sapesse, in altri campi: per esempio, il Parmigiano Reggiano è prodotto quasi esclusivamente da Sikh dell’India. Sono loro che mungono le vacche, che le curano, che raccolgono il latte. Senza i sikh non avremmo il Parmigiano, il futuro della nostra tradizione è nelle loro mani, e i Sikh col turbante sono numerosi, a Reggio Emilia. Viene da chiedersi che cosa si intende per tradizione, una parola che viene tirata spesso in ballo e che è ormai di moda. Poi a sporcarsi le mani, e non solo le mani, sono gli stranieri venuti da terre e tradizioni lontanissime; noi mangiamo i pizzoccheri e la polenta vuncia, ecco il nostro contributo. Chiedo scusa per il volo pindarico e il collegamento - un po’ azzardato - tra il film di Herzog e tutto il resto, ma anche di queste cose vive il cinema.
E rivolgo un inchino ai due pazzi che hanno compiuto l’impresa, Klaus Kinski e Werner Herzog: non so chi dei due fosse più sano di mente, in quel 1979-1981, ma questo è un film indimenticabile.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Un film, un mito. Faticoso da vedere, ma denso, come dici tu. Anch'io il paragone più prossimo lo faccio pensando ad Apocalypse Now, e tra il Brando e Kinski non saprei davvero chi scegliere.

Ottimo memento cinematografico, Giuliano!

Brian

mazapegul ha detto...

Caro Giuliano,
questo film costituisce un unicum, che giustamente affianchi a Apocalypse Now. Per me Fitzcarraldo e' ancora superiore, perche' meno colto e letterario, forse destinato a mantenere la sua freschezza piu' a lungo: un film del "fare", in un certo senso.
E' un film doppiamente d'avventura: per quella che narra e per quella che -si vede bene- costitui' la sua lavorazione. E mi viene in mente Hugo Pratt, che d'avventura se ne intendeva. Cito a memoria e infedelmente da una vecchia trasmissione TV. "L'avventura non si cerca, capita. Anzi, l'avventura sta nel suo racconto. C'e' piu' avventura in un cortile di Venezia che in una guerra africana." A confrontarsi con lui c'era un robusto ragazzo che aveva scelto come mestiere il mercenario. Pratt disse sbrigativo: "E' un lavoro ripugnante, che con l'avventura non c'entra nulla. I mercenari vanno in Africa per vivere esperienze forti e guadagnare dei soldi, ma alla fine quello che rimane sono i loro massacri della gente di laggiu'. Molto meglio sarebbe se se ne stessero a casa."
Di Fitzcarraldo e' notevole proprio questo fatto: che non cerca l'avventura in se', ma la realizzazione di un progetto, e l'avventura consegue ai mezzi impiegati per (non) raggiungere il fine. L'avventura nella foresta, il viaggio nella natura, e' conseguenza del sogno piu' cittadino che si potesse concepire all'epoca dei fatti: un teatro dell'opera che rendesse il suo borgo nella foresta degno di competere con le grandi metropoli del mondo (e con Manaus).

Grazie per la bella recensione (la seconda) di questo film affascinante.

Nicola

Giuliano ha detto...

Nelle intenzioni di Herzog, Fitzcarraldo doveva essere Jason Robards, con un aiutante di nome Wilbur affidato a Mick Jagger.
Il risultato (la scena del campanile, all'inizio) lo si vede in "Il mio nemico più caro", film ricordo di Herzog per Klaus Kinski.
Robards si ammalò e dovette ritirarsi, Jagger scappò via spaventato dalle difficoltà e il personaggio di Wilbur venne tagliato.
A questo punto, Herzog rischiò di non fare il film; si rivolse a Kinski e ripresero da capo.

Solimano ha detto...

La realizzazione di un progetto, grande o piccolo che sia, è la vera avventura. Il progetto può realizzarsi o meno, ma, per felice contraddizione, se l'intenzione originaria era genuina, alla fine inevitabilmente il risultato c'è, anche se spesso diverso da quello che ci si aspettava.
Il che, azzardo, non è poi così lontano da ciò di cui Krsna persuade Arjuna nel Mahabarata, di cui prima o poi Giuliano ci racconterà.
Riaffermo: non è la grandezza cosale del progetto che conta, è la genuinità dello stato d'animo con cui lo si affronta.
Qui vedo una grande differenza fra Fitzcarraldo e Apocalipse now, film a suo modo più perfetto, ma proprio per questo più freddo.
Un amico che viveva in campagna, parlandomi de L'albero degli zoccoli, mi disse che aveva un difetto: la mancanza delle mosche.
In Fitzcarraldo le mosche - di ogni tipo - ci sono.

saludos
Solimano

Giuliano ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Solimano ha detto...

Fatto.

Solimano