giovedì 11 giugno 2009

E la vita continua

Un film di Abbas Kiarostami. Con Farhad Kheradmand, Puya Paevar Titolo originale: Zendeg edamé dârad. durata 91 min. - Iran. 1992 - IMDb 6.4/10

Giulia

E' il terremoto che suggerisce l'idea ad Abbas Kiarostami di girare il film "E la vita continua". Un terremoto nel 1990 ha devastato e ha fatto decina di migliaia di vittime nella regione del Gilan in Iran, proprio dove era stato girato "Dov'è la casa del mio amico?".
"Nei miei film la morte e' spesso presente. - dice Kiarostami - Mi e' rimasta negli occhi dopo il terremoto del ' 90. I sopravvissuti stendevano teli sui cadaveri, quasi a coprire la morte, a cancellarla. Ma la vita, prepotente, spunta ovunque e, come dice un' altra poesia, di Omar Khayyam, va colta e gustata come una coppa di vino".
Morte e vita sono il filo conduttore del film e si mescolano: si pensa a ciò che è stato distrutto, a chi è si è perso, ma nello stesso tempo si guarda la vita che continuamente rinasce.
Il regista (impersonato dall'attore Farhad Kheradmand) decide di recarsi a Koker assieme al figlio Puya: cerca i due bambini protagonisti del film "Dov'è la casa del mio amico". Parte con una vecchia Renault gialla e il suo sarà un lungo viaggio nelle terre dove il sisma ha maggiormente colpito.

"E la vita continua" può essere considerato un road movie: lo spettatore assiste, seduto al fianco del conducente, al cinema del mondo esterno: il finestrino non è altro che lo schermo cinematografico attraverso il quale scorre il mondo. La Renault con cui il protagonista attraversa la regione è quindi metafora dello strumento cinematografico, con esso il regista indaga la realtà, ma allo stesso tempo ne mantiene le distanze.

Il racconto non ha una trama definita, si lascia condurre dagli incontri: esseri umani che si affacciano al finestrino o paesaggi che scorrono lungo il tragitto.

Il regista viaggia attraverso macerie, cumuli di detriti, tendopoli dove chi non è morto cerca il modo per soppravvivere a tanto disastro. Le immagini scorrono una dopo l'altra e ci testimoniano la desolazione, ma nello stesso tempo anche la voglia di ricominciare, nonostane tutto, a vivere.

Il viaggio si dipana fra colline spoglie, alture rocciose, strade polverose, piantagioni di ulivi, greggi di pecore. La natura è sempre molto presente nei film del regista che a questo proposito dice:"La natura ha un ruolo determinante nella mia vita, nel mio occhio, nel mio cinema. Per questo mi piace la fotografia, per questo le mie fotografie ritraggono solo scenari, squarci di paesaggi, cieli, viottoli, ruderi. I rapporti metropolitani mi sembrano sempre più faticosi. "
La natura sembra non essere toccata dagli eventi, segue il suo corso indifferente a quello che capita agli uomini.

La nostra vita è fatta di tanti piccoli episodi che si inanellano l'uno con l'altro e di cui a volte non scorgiamo il significato perchè non ci soffermiamo a guardare e a riflettere. Ogni evento può diventare insignificante se lo guardiamo con indifferenza o tutto può acquistare significato se ci soffermiamo, se lo guardiamo con occhio attento. E' quello che sa fare Puya, un bambino curioso, capace di meravigliarsi, un bambino che vuole scoprire la vita e che la vita interroga continuamente. In tutto il film la sua voglia di sapere sarà al centro dell'attenzione e il papà risponderà pazientemente alle sue domande come può, ma a volte dovrà semplicemente dire: "non so" soprattuttto trovandosi di fronte ad eventi che lasciano sempre sgomenti e che suggeriscono domande e non risposte. "Qule strada prendiamo, papà" "Non lo so, ma una la troveremo". Il bambino non ha bisogno di risposte certe, ma deve aver fiducia in chi lo sta guidando.

Vuole fare pipì Puya e chiede al padre di fermarsi. Preso dal pudore, si nasconde dietro l'unico albero appena nato in quella collina desolata. Un gesto innocente che fa sorridere il padre e noi con lui. L'occhio ironico e attento ad ogni dettaglio di Kiarostami è presente in ogni film. I bambini sono spesso i soggetti che privilegia.

Puya non ha fretta di tornare in macchina, guarda la vita, quella che la natura offre sempre al nostro sguardo. Insegue una cavalletta che cattura e porta in macchina. Ho ricordato quanto anche io fossi affascinata da questo piccolo insetto capace di saltare così in alto in mezzo all'erba. Mi fermavo a guardarlo e cercavo invano di afferrarne uno.
Quindi Puya riesce a catturare la cavalletta e, contento, la porta in macchina. Vorrebbe tenerla con sé, ma il padre non lo lascia. Le cavallette appartengono come ogni animale alla natura e là devono stare. Il bambino, un po' a malincuore, le restituisce la libertà. Imparerà, però, che ogni essere vivente ha il suo ambiente da cui non bisogna separarlo.

Poi è il regista a scendere dalla macchina ed entrare in un bosco. Lì trova un bambino solo che piange. L'uomo si impietosce e si ferma a cullarlo. Il bambino si calma. Più in là compare la mamma che è andata a raccogliere legna. Il regista sente il proprio figlio che lo chiama e corre da lui. La mamma si affretta dal suo piccolo e lo culla amorevolmente. E' di nuovo il richiamo della vita che sollecita l'attenzione e la presenza vigile dell'adulto.

Ogni sequenza ha un legame con l'altra, ma ognuna potrebbe anche avere una sua unità narrativa.
Il viaggio prosegue, ma si rivela ben più difficile del previsto: l'unica strada è impraticabile e l'automobile con i due protagonisti a bordo è costretta a innumerevoli deviazioni fra colline e macerie.
La tortuosità del tragitto è a suo modo iniziatica, prova dopo prova, deviazione dopo deviazione, ripetizione dopo ripetizione, blocco dopo blocco: così è anche la vita che non scorre quasi mai lungo una linea retta.
Kiarostami ci porta pian piano ad osservare, ad ascoltare, a guardare con spirito di partecipazione tutto ciò che incontra. La morale di "E la vita continua" è ben spiegata dal suo titolo, ma ogni immagine, ogni dialogo è vissuto con quella partecipazione discreta che aiuta coloro che incontrano ad aprirsi.
Incontrano gente che cammina alla ricerca di un luogo dove fermarsi perché le loro case, i loro villaggi sono rimasti distrutti. Ognuno di loro ha perso qualcosa e qualcuno. A una donna il regista chiede la strada, ma lei ha un groppo in gola e racconta la propria desolazione e samrrimento.
"Ho perso 16 persone, - gli dice - sono rimaste intrappolate sotto le macerie. Mi rimane solo una casa distrutta". Il dolore entra prepotente dentro la macchina e ci lascia senza parole: solo il silenzio può accogliere una sofferenza a cui non c'è risposta né rimedio. Ma la donna non chiede consolazione, solo ascolto.

"Dio sia con voi", la saluta il regista visibilmente commosso e prosegue la sua strada.
Le strade. Nella poesia classica iraniana, hanno a che vedere con l'andare, il migrare, il distacco, sono il simbolo della vita stessa, con il suo trascorrere tra gioia e dolore, tra serenità e smarrimento: le strade attraversano montagne impervie e dolci colline.
"Il mio cinema è pieno di strade. Hanno un significato profondo nella poesia iraniana perché alludono alla nascita e alla morte. Nella nostra vita, quando affrontiamo i momenti difficili, è come se superassimo delle colline, delle strade irte e difficili". Ogni strada, sostiene Kiarostami, “è colma di storie e di esseri umani che le hanno attraversate”.

Della vita e della morte parla Ruhi, il vecchio falegname del film precedente che adesso è impegnato a trasportare un gabinetto: “chi è morto è morto, ma chi è sopravvissuto avrà bisogno di questo prezioso strumento” egli dice al regista e al bambino che gli hanno offerto un passaggio. "La verità è che questo disastro ci ha colpito come un lupo affamato che attacca un gregge di pecore, alcune le lacera con gli artigli, altre le risparmia".

Il bambino ascolta in silenzio, poi ricorda a Ruhi che nel film "Dov'è la casa del mio amico?" era più vecchio e aveva la gobba e gli chiede il perchè. "La colpa è di questi gentiluomini, - gli risponde - ma a dire il vero non mi piaceva. Che arte è mostrare le persone più vecchie e più brutte di quello che sono? Se riesci a trasformare un vecchio in un giovane, quella è arte!".
"Grazie al cielo siete vivo e più giovane" ribatte il regista.
"Nessuno apprezza la vita prima di essere morto. - continua il vecchio - Se uno potesse tornare in vita dalla tomba, certamente vivrebbe meglio".
Della morte parla a Puya una mamma che ha perso la più grande di quattro figli perchè era andata a far visita alla nonna: "Dio ha voluto così". Ma il bambino rifiuta questa idea e risponde che Dio non può volere questo. Se Dio ha fermato la mano di Abramo che stava uccidendo suo figlio, come poteva voler la morte di una bambina? Puya parla a lungo alla donna e per convincerla usa argomentazioni che ha imparato dai libri e dagli adulti, in particolare da Ruhi. Alcune cose però "le ho pensate da solo" dice con orgoglio.
"Se non è stato Dio, chi allora?" chiede la donna. E il bambino con molta semplicità risponde : "Il terremoto".
Nessuno teme di parlare della morte come un bambino. E il bambino man mano impara ad accettarla e a viverla come una realtà necessaria, ben presente.

C’è anche chi, a causa del terremoto, ha deciso di affrettare i tempi delle proprie nozze, è il caso di una giovane coppia incontrata a Poshteh: “quelli che sono morti non sapevano che stavano per morire, godiamo di una nuova vita finché possiamo, potremmo morire nel prossimo terremoto” dice il marito.

E la moglie dal balcone annaffia le piante, anche loro chiaro simbolo della vita che si riproduce e di cui bisogna prendersi cura.

La sete è simbolo del desiderio di conoscenza che guida i protagonisti e che è uno dei temi che attraversa l’intero film: sin dall’inizio Puya, durante il percorso in macchina, chiede al padre di fermarsi a comprare una bibita e quando finalmente prende una coca-cola da un chiosco abbandonato si accorge che è troppo calda e non lo disseta abbastanza.

Il bambino darà un po' della sua coca cola ad una donna che gliela chiede per suo figlio. Piccoli gesti di condivisione in un momento in cui tutto scarseggia.

Nemmeno il signor Ruhi riesce a dissetare il ragazzo. Quando, infatti, il vecchio avrà finalmente trovato l'acqua e la tazza in cui contenerla, Puya ha già deciso di cercare altrove l’acqua da bere.

Si aggirerà in silenzio e solitudine tra le macerie delle case e raccoglierà tutto ciò che è rimasto intatto.
Puya si disseterà ad una fontana da cui sgorga l’acqua della sorgente e poco dopo farà la stessa cosa anche suo padre ed entrambi si chiederanno come mai l’acqua della sorgente esca da una fontana. La risposta è nell’uomo che con il suo lavoro riesce a stabilire un legame tra la fonte della vita e la sete di conoscenza.

Il regista parlerà col vecchio e con una donna che è sola. Ha perso tutti nel terremoto e non ha chi la possa aiutare. Tutti hanno i loro problemi e non possono stare dietro a lei. Il regista la aiuterà a recuperare tra le macerie il suo bricco per farsi il the.

E' solo adesso il regista: il suo sguardo è perso nei suoi pensieri. C'è bisogno di silenzio, per sedimentare le parole, le immagini, i gesti, per ritrovare la forza di continuare il suo viaggio. Saranno ancora vivi i bambini? o il terremoto se li è portati via?
Poi quasi a cercare pace e consolazione i suoi occhi cadono sulla finestra di una casa diroccata: si apre su un prato verde illuminato dal sole. Il regista salirà su quel resto di casa a contemplare quella natura che sola può donare un po' di serenità necessaria per ritrovare il senso della vita.

Guarda poi un manifesto appeso alla parete. E’ un’ immagine emblematica del contadino felice molto diffusa in tutte le case iraniane. Con la sua tazza di tè, un pezzo di pane, un po’ di carne, la sua pipa o più precisamente la sua chopoq. Nell’immaginario della gente è l’immagine ideale del contadino nel momento più felice della sua vita.
Anche se nel terremoto ha perso tutto, il regista dice: “il suo stato d’animo è rimasto lo stesso. E’ per questo che in Iran questa immagine è stata il manifesto del film sulla quale avevo aggiunto: ‘la terra ha tremato, ma noi non abbiamo tremato'”

"Io non penso mai che sto rappresentando la mia cultura o il mio paese. Ma sarebbe strano che il risultato non sia questo. Ogni artista ha il dovere di rappresentare la sua realtà e il suo tempo, ma senza proporselo come fine. I sentimenti umani vanno oltre i decenni e non appartengono a una sola terra. I problemi immediati non hanno molta importanza; materia per l' artista è l' uomo con i suoi problemi profondi, non quelli della superficie del vivere".
"Raccontando i piccoli episodi e i piccoli dolori della vita quotidiana, io parlo dei problemi più profondi dell' uomo".
Se la prima sosta del regista e di suo figlio è stata a Poshteh, la seconda è nell’accampamento in cui hanno trovato rifugio gli abitanti di Koker completamente distrutta dal sisma. A portare sul posto i due protagonisti è ancora una volta un personaggio del film precedente, si tratta di Mohammad Rezâ Parvâne il bambino che soffriva il mal di schiena.
Anche lui non sa niente degli altri due bambini. Ma racconta la sua tragedia personale:
"Eravamo andati dallo zio per vedere la partita di calcio alla televisione. C'è stato il terremoto. Siamo corsi fuori, i muri del cortile hanno cominciato a crollare. Una polvere spessa ci ha sommerso, era così spessa che non potevamo vedere niente. Sapevamo che lo zio stava dormendo e siamo andati a cercarlo. Abbiamo rimosso mattoni e le travi di ferro sopra di lui. Ma sapevamo che era morto".
"Hai potuto vedere la partita dopo il terremoto?" Chiede curioso Puya.
"No, ogni cosa era distrutta". I due bambini cominciano a parlare di calcio e a scommettere su chi vincerà il campionato: Brasile o Germania? Appunto, la vita continua.

Nell’accampamento Puya chiede di poter fermarsi all'accampamento dove stavano allestendo tutto per poter assistere ad una partita del mondiale di calcio e lascia suo padre continuare da solo.
Non sappiamo se il regista arriverà a raggiungere la meta del suo viaggio: è tipico di Kiarostami lasciare la conclusione del film aperta. Nella scena finale assistiamo agli sforzi dell’automobile e la fatica a salire su una strada molto ripida si fonde perfettamente con la musica (Concerto per due corni di Vivaldi) e con la calma ristabilita della natura. Kiarostami forse vuol dirci che natura, ricerca, lavoro e arte formano un insieme meraviglioso: “la ricerca è inesauribile, conosce soste, ripensamenti, nuovi tentativi, slanci, e il mancato raggiungimento dell’obiettivo preposto produce un disorientamento fecondo di possibilità. Per noi non è importante la meta che si vuole raggiungere, ma il percorso che si deve compiere”.

I ragazzi non vengono ritrovati, anche se forse appaiono in lontananza, un po’ controluce,
Inquadrata dall'alto, mentre sta per intraprendere una salita ripidissima, l'automobile del protagonista arranca, si arresta, va avanti, accelera, retrocede, scivola giù, risale. Intorno a lei, un luogo desolato. Un uomo aiuta il regista a spingere la macchina, poi riprende il suo cammino.

4 commenti:

annarita ha detto...

Post fluviale,nitido e composito. Inutile dire che mi hai fatto venire voglia di approfondire la conoscenza con questo regista :-).
Salutissimi, Annarita.

francesco ha detto...

il film l'ho visto quando è uscito, leggendo il post sembra che sia un capolavoro, lo confermo e dico brava a Giulia che mi ha fatto ritornare a quella magia.

Solimano ha detto...

Giulia, lo dico anche qui dopo averlo detto in Stanze all'aria. Scrivo dal PC di un amico perché ho problemi di connessione in rete e non posso ricevere o spedire email. Sembra che dipenda da un server della Telecom, che al 187 mi ha risposto che la cosa andrà a posto martedì...

grazie e saludos
Solimano

Solimano ha detto...

Di fronte alle sciagure naturali, come i terremoti e gli tsunami, i credenti in un dio personale sono in difficoltà, non sanno che atteggiamento assumere. Non è una osservazione mia, lo notarono secoli fa Voltaire e Giacomo Leopardi. Perché la provvedenzialità, dove va a finire? Né valgono discorsi come il peccato originale, si tratta di eventi del tutto naturali: succedono, senza che nessuno abbia deciso che succedessero. Ed ha ragione Domenico De Masi ad ironizzare con eleganza parlando di dio fannullone e dicendo ai lavoristi che un dio fannullone è un ottimo esempio per loro, assatanati in continuazione dal dover fare sempre qualcosa, specie se sgradevole.
Kiarostami ha osservato con attenzione soprattutto i film di Vittorio De Sica. Trovo molto in comune fra i due: uno sguardo sui bambini affettuoso e profondo, niente carinerie.
Sul resto, Kiarostami ha quel modo in fondo buonista che mi dà un po' fastidio. Non è quello che dice che mi dispiace, ma quello che omette di dire, sui pretacci e sulla condizione femminile. Tecnicamente non può fare diversamente, se vuole continuare a fare film in un paese come l'Iran, ma omettere di dire è come mentire. Però ho fiducia che attraverso il conflitto in corso in Iran possano cambiare le cose, perché l'Iran è un grande paese con una grande storia, non solo quella di un monoteismo tribalista.
La situazione di Kiarostami è simile a quella in cui si trovarono degli ottimi registi dell'Europa dell'est (Forman, Polanski). Alla fine emigrarono, e fecero bene.

grazie Giulia e saludos
Solimano