
Stasera, alla Scala di Milano, c'è l'attesissima prima della Carmen, quindi immaginatevi il movimento. Ieri, pomeriggio e sera, in ottima compagnia sono stato presente ad una iniziativa intelligente: la proiezione al cinema Gnomo, che è vicinissimo a Sant'Ambrogio, di tre film sulla Carmen. Il film di di Rosi, quello di Saura e quello di Godard (in ordine di proiezione). Qui aggiungo la Carmen Jones di Otto Preminger e scrivo questo post, anche riprendendo e modificando alcuni brani che avevo scritto a suo tempo per i film di Saura e di Preminger. Il film di Preminger (1954) precede di trent'anni gli altri tre film, che hanno date di prima proiezione molto vicine: 6 maggio 1983 per Saura, 11 gennaio 1984 per Godard, 20 settembre 1984 per Rosi.
Carmen Jones di Otto Preminger (1954) Dall'opera "Carmen" di Georges Bizet e dal racconto di Prosper Mérimée, Sceneggiatura di Oscar Hammerstein II, Harry Kleiner Con Dorothy Dandridge, Harry Belafonte, Joe Adams, Pearl Bailey, Olga James, Brock Peters, Roy Glenn, Nick Stewart, Diahann Carroll Voci: Marilyn Horne, Le Vern Hutcherson, Marvin Hayes Arrangiamenti musicali: Herschel Burke Gilbert, Dimitri Tiomkin Fotografia: Sam Leavitt (105 minuti) Rating IMDb: 7.0
Inesorabilmente, il film Carmen Jones di Otto Preminger appare molto datato, anche se ha alcuni grandi pregi. Sono cambiate cose importanti, dal 1954 del film ed ancor più dal 1943 del musical di Broadway da cui è tratto.
Anzitutto, il rispetto per la musica di Bizet. E' vero che la Carmen di Bizet resiste, malgrado tutto, ma per fortuna la situazione è molto cambiata in questi decenni. Quasi nessuno si sogna più di tradurre il francese del libretto di Meilhac e di Halévy, ma qui non si tratta di traduzione, si tratta di frasi e di parole completamente diverse come significato. Ad esempio, le amiche di Carmen Jones (Dorothy Dandridge) la sollecitano a lasciare il militare Joe (Harry Belafonte) perché il pugile Husky Miller (Joe Adams) le comprerà pellicce e gioielli.
Non ho niente da dire su una Carmen con tutti gli interpeti afro-americani, neppure sullo spostamento temporale e spaziale, mi sta bene che un torero diventi pugile (due mestieri a rischio...), ma che all'incontro di boxe siano presenti solo spettatori neri aveva un motivo, quello di evitare ogni commistione: il 1954 era presto ed il 1943 lo era ancora di più. E il paese di Carmen così sembra un presepe da zio Tom. C'è un involgarimento del mito , che diventa una piccola storia particolare a fine cruenta, un dramma di gelosia come ancor oggi se ne leggono nei giornali. Mentre Carmen è un archetipo costruito non da Mérimée ma dalla musica prodigiosa di Bizet, che regge persino al pugile che arriva sul macchinone e a tutti i paesani che lo festeggiano (si potrebbe fare anche con Dulcamara, anzi, certamente qualcuno l'ha fatto). In definitiva, di strada ne abbiamo percorsa, sia nell'approfondimento musicale, sia (perché non dirlo?) dal punto di vista della integrazione razziale.
Ma in questo contesto inevitabile ci sono due aspetti che fanno uscire il film dalle strettoie dei tempi in cui fu realizzato (ci misero meno di due mesi, oltre tutto!).
Il primo aspetto riguarda il regista: Otto Preminger ha un senso visivo e costruttivo esemplare, le singole scene sono molto più lunghe di quello che costumava allora. Sentimenti, risentimenti, amori, disamori si manifestano con efficacia. Felice l'idea iniziale del self service con i vassoi dove in mezzo ai tavoli cammina Carmen Jones ambita da tutti, che punta subito Joe anche se lo vede seduto con Micaela, pardon con Cindy Lou (Olga James).
L'altro motivo è Dorothy Dandridge. Non particolarmente bella, deludente nei film degli anni a venire, qui non si poteva immaginare una meglio di lei. Forse il momento migliore è quando vede i paesani attorno al macchinone del pugile. E' da sola col bicchiere in mano sotto la veranda. E si vede il momento (che c'è anche in Bizet) in cui lei guarda il pugile proprio come una Carmen vera deve guardare Escamillo : un amore nuovo che sorge proprio quando l'amore precedente è ancora in pieno fulgore.

Carmen di Carlos Saura (1983) Dal racconto di Prosper Mérimée, Sceneggiatura di Carlos Saura e Antonio Gades Con Antonio Gades, Laura Del Sol, Cristina Hoyos, Paco de Lucia, Marisol, Juan Antonio Jiménez, José Yepes, Sebastian Moreno Musica: Paco de Lucia, Georges Bizet Fotografia: Teodoro Escamilla (102 minuti) Rating IMDb: 7.4
Ben prima di appassionarmi alla musica, mio nonno, suonatore di piatti nella banda di Sasso Marconi, mi aveva costruito in testa il mito della Carmen. Poi, fui confortato dall’ascolto radiofonico dei concerti Martini & Rossi, mi sembra al lunedì sera. Però certi brani della Carmen ti piacciono da subito e non li abbandoni più. Anni dopo, durante il viaggio di nozze in Andalusia, andai a spettacoli di flamenco a Granada, in seguito imparai ad ascoltare la Carmen in francese (cantata e recitata) e provai a leggere il racconto di Mérimée, che mi piacque poco.
Il film mi spiazzò per due motivi.
Il primo è che mi aspettavo che la protagonista Laura Del Sol (Carmen)- molto bella - fosse al centro di tutto, e l’inizio del film lo confermava, con Antonio Gades che cerca un nuovo talento per un suo balletto e trova Carmen in cui crede e di cui si innamora. Ma quando cominciavano a ballare, sbucava una che nella storia del film c’entrava poco, meno bella di Carmen, ed era lei la protagonista, finché ballavano.
Il secondo motivo fu che il film stabiliva una differenza nella vita dei ballerini: quando ballano e quando non ballano sembrano persone del tutto diverse. In pochi attimi, le stesse persone che ti hanno conquistato diventano uomini e donne più ottusi che normali, non sembrano neppure le controfigure di quelli che erano tre minuti prima.
Questo mi disse Carmen Story, spiazzando le mie aspettative, e cose diverse ma in fondo analoghe mi diedero le esperienze con la grande danza moderna, alcuni degli spettacoli di Maurice Bejart e Pina Bausch: una finezza sbalorditiva che non cancella ma esalta l’animalità primigenia.
Prénom Carmen di Jean-Luc Godard (1983) Sceneggiatura di Anne-Marie Miéville Con Maruschka Detmers, Jacques Bonnaffé, Myriem Roussel, Christophe Odent, Bertrand Liebert, Alain Bastien-Thiry, Hippolyte Girardot, Valérie Dréville, Jacques Villeret, Jacques Prat, Laurent Dangalec, Bruno Pasquier, Michel Strauss, Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Mocky Fotografia: Raoul Coutard, Jean-Bernard Menoud Musica: Tom Waits "Ruby's Arms", Ludwig van Beethoven Quartetti (eseguiti dal quartetto Prat) n. 9 op. 59, n. 10 op. 74, n. 14 op. 131, n. 15 op. 132, n. 16 op. 135 (85 minuti) Rating IMDb: 6.5
Nel 1983 Gian Luigi Rondi diviene direttore della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Decide che la giuria internazionale sia composta da soli autori, secondo l'idea di creare una "mostra degli autori, per gli autori". I membri sono scelti tra i registi emersi negli anni sessanta: il primo di essi è Bernardo Bertolucci, presidente della giuria nel 1983. Il Leone d'Oro lo vince Jean-Luc Godard con Prénom Carmen. Sonori fischi del pubblico durante la premiazione.
Ho ascoltato una intervista a Bernardo Bertolucci, che ricostruisce con disinvoltura e con schiettezza (almeno credo...) quello che successe fra i membri della giuria e con Godard. In sostanza, la decisione di premiare comunque Godard fu presa da quasi tutti i giurati prima di vedere il suo film: appartenevano al milieu del Sessantotto e volevano dare un messaggio forte e chiaro contro il riflusso dei primi anni Ottanta. Solo che esagerarono... quasi tutti i premi sembrava che dovessero andare a Godard, non solo il Leone d'Oro. Da cui discussioni a non finire, in cui Bertolucci cercò di fare in modo che i premi a Godard si riducessero, e ci riuscì, salvo che qualche giurato sessantottesco di tipo komeinista gli tolse il saluto. La giuria era così composta: Bernardo Bertolucci (presidente, Italia), Jack Clayton (Gran Bretagna), Peter Handke (Germania Ovest), Leon Hirszman (Brasile), Marta Meszaros (Ungheria), Nagisa Oshima (Giappone), Cleb Panfilov (URSS), Bob Rafelson (USA), Ousmane Sembène (Senegal), Mrinal Sen (India), Alain Tanner (Svizzera), Agnès Varda (Francia).
Qui faccio osservare alcune delle geniali assurdità di Godard. Come si vede dalle note tecniche IMDb, nelle musiche non figura Georges Bizet. Fare un film sulla Carmen senza metterci Bizet... se non sei o sette note fischiettate dell'Habanera. In compenso, a parte un brano di Tom Waits, c'è una forte presenza dei quartetti di Beethoven, in particolare gli ultimi. Non è musica in sottofondo, viene eseguita dal Quartetto Prat durante il film: i quattro membri del Quartetto Prat sono fra gli interpreti.
La scelta della ventunenne olandese Maruschka Detmers è felicissima. Non si capisce se sappia recitare oppure no, ma una Carmen moderna lo è davvero, inconsapevole eppure tranchant. Mentre ho dei dubbi sul Don José di Jacques Bonnaffé, scelto così da Godard proprio perché voleva un'imbranato che trasmettesse sfiga esistenziale. Non è mai una parte gradevole, quella di Don José.
Eppure Godard è fedelissimo al Mito di Carmen, chiamiamolo così una buona volta, uscendo dagli schemi angusti del racconto di Mérimée. A suo modo, la musica di Beethoven, musica del destino - di amore e morte - che non si può cambiare, è appropriatissima. Infine, l'aspetto visivo raccordato con l'aspetto musicale, con la musica dei quartetti di Beethoven. Cieli ed onde del mare in perenne mutamento. Su questo aspetto, forse il più ammirevole del film, tornerò in futuro.
Carmen di Francesco Rosi (1984) Racconto di Prosper Mérimée, Libretto di Henri Meilhac & Ludovic Halévy, Adattamento di Francesco Rosi e Tonino Guerra Con Julia Migenes (Carmen), Placido Domingo (Don José), Ruggero Raimondi (Escamillo), Faith Esham (Micaëla), François Le Roux (Moralès), John-Paul Bogart (Zuñiga), Susan Daniel (Mercédès), Lillian Watson (Frasquita), Jean-Philippe Lafont (Dancaïre), Gérard Garino (Remendado), Julien Guiomar (Lillas Pastia), Cristina Hoyos (Danzatrice), Antonio Jiménez (Danzatore) Fotografia: Pasqualino De Santis, Costumi: Enrico Job (152 minuti) Rating IMDb: 7.6
Il film di Francesco Rosi l'ho visto ieri sera allo Gnomo per la prima volta. Avevo delle prevenzioni che sono state completamente smentite. Questo film è una meraviglia.
Non ha nessun sapore di accademia, come quasi sempre succede salvo eccezioni (Bergman, Losey) con le opere filmate.
Con una Micaëla (Faith Esham) finalmente credibile. Non la solita gnesa o sciochetta intrega (come dicono a Parma) ma coraggiosa seppur timida e fedele al suo amato Don José.
Con gli animali sempre in primo piano, i tanti cavalli e il toro elevato a protagonista, come segno nero e rosso di destino furibondo. Insanguinato dal banderillero e dal picador, come d'uso (niente da fare per il torero, se il toro non lo conciano male prima), ma con gli occhi affocati d'odio e vivissimi in primo piano.
Francesco Rosi è riuscito a trovare un libro con le incisioni che il giovane Gustave Doré aveva fatto per il libro "Viaggio in Ispagna" del barone Charles Devillier, e l'ha inserite nei titoli di testa. In rete quasi non ci sono, ne ho trovata qualcuna che ancora non mi soddisfa, se ne trovo di migliori le metterò in un post ad hoc. Scelta felice, il racconto di Mérimée si svolge in quegli anni, Goya come richiamo andava bene per il lusso protervo dei potenti di palazzo e di corte, non per strade e taverne.
4 commenti:
grazie :)
Grazie a te fatacarabina - remedios (che nome complicato... però stuzzicoso!). Torna a trovarmi, verrò anch'io da te, ma non in ottica di do ut dash, come dicono i venditori di detersivi.
saluti
Solimano
ciao e grazie per la preziosa quantità di notizie raccolte. Volevo specificare un particolare che fa pensare, a proposito di Marilyn Horne, che doppiò la Dandridge (allora si fece menzionare come Marilynn Horne, con due n) nel 1954: pochissimi anni dopo, e in un certo contrasto con la cultura USA di allora, la Horne si sposò con Henry Lewis, un direttore d'orchestra negro (ma oggi pare che suoni offensivo, allora diciamo "di colore"). Chissà se già erano fidanzati, al tempo del film, forse ancora no.
Grazie filmatu. Non sapevo di Marilyn Horne. Ho avuto la grande fortuna di ascoltarla dal vivo (dieci metri di distanza) in un concerto estivo nella Piazza di Pesaro. Imponente, come tutto. Sul negro, di colore, afro-americano etc, io preferisco dire nero. Ma quello che conta non è la parola, ma come si è messi e si pensa dentro.
saluti e torna!
Solimano
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