mercoledì 5 dicembre 2007

Le coppie nel cinema: Viaggio in Inghilterra

Shadowlands, di Richard Attenborough (1993) Sceneggiatura di William Nicholson Con Anthony Hopkins, Debra Winger, James Frain, Daniel Goode, Scott Handy, Roger Ashton-Griffiths, Joseph Mazzello Musica: George Fenton Fotografia: Roger Pratt (131 minuti) Rating IMDb: 7.4
Solimano
Il motivo per cui inserisco questo film è abbastanza curioso. Poco più di un mese fa, ho letto nel bel blog di Annarita un suo post intitolato Boscodirovo, in cui veniva citato C.S.Lewis, un nome a me noto, ma che non frequentavo da lungo tempo, ed ho scritto un commento che qui riporto in parte:
"Molti anni fa lessi ed apprezzai Le lettere di Berlicche di C.S.Lewis, uno strano libro scritto da un credente spiritoso, che è quasi un ossimoro. Poi, molto più di recente, vidi un film notevole sulla sua vita personale e relativi travagli sentimentali (i credenti sono spesso più intorcinati dei laici). Ma facendo click qui sul suo nome, sono riuscito a rintracciarne il titolo: Viaggio in Inghilterra e mi metterò sulle sue tracce, aiutato dai nuovi amici di Boscodirovo."
Per un colpo di fortuna ho rintracciato nella Biblioteca di Lissone il DVD del film, che mi sono rivisto ed ora ne scrivo.
Credo veramente che i credenti possano essere più intorcinati dei laici. So che molti laici la pensano differentemente, e parlano del dono della fede. Ma il rapporto amoroso ha delle sue regole, che non è che le cambi se hai la fede oppure no. Sono regole conscie ed inconscie, con cui comunque bisogna misurarsi. La mia critica -in generale, sia chiaro- è che i credenti rischiano al tempo stesso di essere troppo pretenziosi e troppo accomodanti.
Troppo pretenziosi perché parlano molto di Amore con la maiuscola, un signore che non si sa bene dove sia, mentre certamente non si sbaglia se si vive con pienezza ogni singolo gesto d'amore (con la minuscola). Poi ci sarà qualcos'altro, ma il singolo gesto d'amore non se la tira, si esprime, si fa. Anche il loro rapporto con la monogamia è problematico. Un laico sa che la monogamia non è naturale, ma culturale, e magari sceglie, momento per momento, una monogamia da nozze di diamante, un credente impone (a se stesso ed al partner) la monogamia, ed è la trappola dell'amore comandato, che magari fosse un ossimoro, ma è una assurdità prima logica che emozionale. Cose ben note che si finge di non sapere.
Troppo accomodanti perché non colgono che amore è anche lotta fra due pulsioni di dominanza: non credo che serva fingere (ancora...) che non siano in gioco o cercare di azzerarle, divenendo gentili e noiosissimi, serve invece -arte che non si finisce mai di imparare- indossare lietamente le pulsioni di dominanza e metterle vicendevolmente in risonanza, termine che preferisco a sinergia. Magari si rompe una caterva di piatti, ma si evitano quei sorrisetti di sole labbra che fanno così male alle guance.

Così, Clive Staples Lewis (Anthony Hopkins), inglese, scapolo di più di cinquant'anni, professore ad Oxford e scrittore notissimo, incontra un giorno Joy Gresham (Debra Winger), americana, sposata con un figlio, vicina ai quarant'anni.
Joy ammira moltissimo Clive, ne ha letto e riletto tutti i libri e scrive poesie che ancora nessuno conosce. Dapprima Clive è guardingo, quando riceve dall'America le lettere che gli scrive Joy: le sue ammiratrici epistolari sono tante e tutte dicono più o meno le stesse cose. Ma il caso di Joy è diverso. Anzitutto si dichiara -però senza iattanza- ebrea, comunista ed atea, poi nelle sue lettere l'ammirazione è fondata su argomenti consistenti ed affinata dall'arguzia.
Così, quando Joy arriva in Inghilterra le concede, solo lievemente perplesso, di prendere un te insieme, e ci va col fratello con cui vive -pure lui scapolo. I colleghi accademici, nel sentire di questo appuntamento si meravigliano: conoscono di Clive l'empatia pubblica delle conferenze e delle lezioni, ma sanno il suo riserbo privato. Joy non ha finito di sorprendere: arriva alla sala da te, e siccome non ha mai visto Clive chiede al capocameriere se c'è e a che tavolo sia, il cameriere risponde che c'è e non dice altro, anche ad un successivo sollecito (siamo nell'Inghilterra nel 1952). Joy non insiste, fa tre passi avanti nella sala ed a voce alta, dice che cerca C.S.Lewis. Tutti fanno finta di non avere sentito, salvo che, là in fondo, si alza un po' malvolentieri una mano: è quella di Clive.

E' facile parlare di differenza fra America ed Inghilterra, ma l'incontro di quei due è l'incontro di due nature assai diverse, lui riservato, felpato, dice sempre la cosa più intelligente, lei diretta, una che guarda negli occhi, che non si tira indietro e che se c'è da lottare combatte. Quando, ad una riunione, Clive la presenta ai colleghi, cortesi e supponenti, ce n'è uno, inglese ma un po' ganassa che dice: "L'anima ce l'hanno le donne, gli uomini hanno l'intelletto". Joy ribatte -non accalorata, tranquilla- "Lo dice per offendermi o semplicemente perché è stupido?".
Poi c'è un'altra differenza. Clive è sistemato, Joy no. Suo marito è un alcoolista che la tradisce e che se ne andrà lasciandola quasi povera, con un figlio bambino che ogni tanto rimpiange il padre. Però Joy accetta, non pietisce. Ammira (ama, anche) Clive, ma a testa alta, essendo in accordo ed in disaccordo, sempre amorosamente.
Clive ne è sorpreso e turbato, abituato come è ad essere ammirato ed ossequiato, mentre qui è amato e contraddetto, proprio quello di cui ha bisogno per uscire dalla nicchia confortevole in cui tutto è a posto, ma in cui l'amore per una donna-persona non esiste. Cerca anche di esorcizzare questo sentimento aderendo ad una richiesta singolare che gli fa in un viaggio successivo Joy, che ha divorziato da suo marito e vuole stare in Inghilterra: un matrimonio burocratico, tecnico, in modo che lei non sia costretta a tornare negli Stati Uniti. Dopo la stesura contrattuale ognuno se ne va per i fatti suoi, e Joy è protetta dalla pioggia dall'ombrello del fratello di Clive.

Poi, la tragedia: Joy si ammala di cancro, e Clive è costretto a scoperchiare la pentola dei sentimenti perché Joy non è più la sua migliore amica, è la donna che lui uomo ama, e non gli era mai successo. Lotteranno insieme perché lei viva, si sposeranno di matrimonio vero, lei nel letto dell'ospedale, lui in piedi accanto a lei. Faranno anche un breve viaggio nella Valle Dorata, in realtà piovosa. Lui comincia a litigare col Dio in cui crede da anni, era facile prima tenere conferenze in cui convinceva tutti e tutte che Dio è buono e che ci ama, anche se ventiquattro studenti sono stati travolti ed uccisi da un autobus impazzito.
Ma ora è lui ad essere in gioco, soprattutto perché lei, la donna che ama, vuole vivere, non ci sta a morire. Quando Joy non c'è più, il finale è più laico che ambiguo, Clive parla al bambino di Joy del Paradiso, il bambino gli risponde che non ci crede, i due si guardano e piangono abbracciati.
E' eccezionale il manierismo recitativo di Anthony Hopkins (che forse di film ne fa troppi), ma per tutto il film ho tifato per Joy e per Debra Winger, tutte e due, sia il personaggio che l'attrice. E' grande la schiettezza, il coraggio e l'assenza di ogni pur sublime ipocrisia nell'affrontare la vita, ed il fenomeno terminale della vita, che noi chiamiamo morte. La storia è vera, Joy Gresham morì nel 1960, a quarantacinque anni, C.S. Lewis scrisse "A grief observed", Diario di un dolore, e morì nel 1963, a sessantacinque anni.

8 commenti:

Laura ha detto...

"Tra me e il mondo c'è una sorta di cortina invisibile. Fatico a capire il senso di quello che mi dicono gli altri. O forse, fatico a trovare la voglia di capire. E' così poco interessante. Però li voglio avere intorno. Ho il terrore dei momenti in cui la casa è vuota. Ma che parlino tra loro e non a me."

C.S. Lewis -Diario di un dolore-

annarita ha detto...

Non conoscevo la personalità complessa e la vita sofferta di Lewis, questo post è illuminante. Onorata di aver contribuito alla sua genesi! Buona giornata. Annarita.

Anonimo ha detto...

Ho visto questo film e, a parte le lacrime che ho versato, anch'io sono sempre stata dalla parte di lei sia come personaggio sia come attrice. E sono d'accordo con le premesse che fai e su cosa dice del gesto d'amore "Poi ci sarà qualcos'altro, ma il singolo gesto d'amore non se la tira, si esprime, si fa". Il gesto d'amore è un atto semplice, quotidiano, attento... non è dichiarazione altisonante il più delle volte se non falsa, stuccosa. Ciao Giulia

Habanera ha detto...

Credo proprio che stasera guarderò questo film. Lo avevo preso, tempo fa, per due ragioni precise: Antony Hopkins, che è uno dei miei attori preferiti, e la parola "Inghilterra" che esercita su di me un fascino irresistibile.
Poi, presa da tante altre cose, me ne ero completamente dimenticata.
Adesso però è arrivato il suo momento...

Grazie e un abbraccio
H.

gabrilu ha detto...

Una cosa non riesco a perdonare ad A. Hopkins, attore che mi piace immensamente: l'aver fatto la serie di Hannibal che, anche se mi sono ben guardata dal guardare, con tutte le foto, gli spot, gli spezzoni che non sono riuscita ad evitare ha fatto si che adesso quando guardo Hopkins lo associo, ahime, al cannibale.
Gli attori non dovrebbero interpretare un ruolo tanto a lungo da permettere che questo gli si appiccichi addosso. In questo, Sean Connery è stato bravissimo a mollare James Bond giusto in tempo. Anche il nostro Luca Zingaretti ha rischiato grosso, con Montalbano.
E cmq meglio essere associati a James Bond o a Montalbano che ad un cannibale, io credo.

Habanera ha detto...

Gabrilu, di Hannibal ho visto solo il primo della serie, lasciandomi trascinare da marito e figlia, poi però ho detto basta. Hopkins preferisco ricordarlo, ad esempio, in "Quel che resta del giorno" o nel delizioso "84 Charing Cross." Intanto, proprio stasera, ho visto "Viaggio in Inghilterra" ed ho pensato, ancora una volta, che sia un attore straordinario. Indimenticabile lo sguardo d'amore di Lewis nel momento in cui capisce di amare Joy. Infatti lei gli dice: "Sei cambiato, solo adesso mi guardi nel modo giusto." Già, solo che quel "modo giusto" non è falsificabile o imitabile. Quanto bravo deve essere un attore per farlo sentire così vero?
H.

Solimano ha detto...

L'eperienza del dolore vero è ben diversa da quella della tristezza, ed è verissima la frase di C.S. Lewis riportata da Laura. Il grande dolore è indicibile, ma è bene che ti siano attorno altre persone a te care, anche se non ti dicono nulla, perché nulla tu puoi rispondere.
Il film è un po' lo scontro fra uno che apparentemente sa tutto e sente tutto ed una che saprà di meno, ma che le durezze della vita hanno fatto crescere. Lui vorrebbe insegnarle come suo migliore amico, si trova ad imparare da lei da innamorato.
Su Anthony Hopkins concordo con Gabrilu ed Habanera, potrebbe evitare le incursioni nel cannibalismo. Ma gli attori sono quasi tutti così, e non sono solo i soldi a spiegarlo, ma il gusto istrionico (un po' volgare) di mettersi alla prova. Hopkins lo preferisco in "Quel che resta del giorno" e in "84 Charing cross road", che per me sono un piano più alto di questo, che è commovente, ma a volte un po'eccessivamente decorativo.
Mi fa piacere che anche Giulia abbia visto il film dalla parte di Joy e di Debra Winger e attendo il prossimo spunto, che sicuramente verrà, dal blog di Annarita, che farebbe bene, ogni tanto, a scrivere di qualche film che si svolge nella scuola, fra i ragazzi. Chi, se non lei?

saludos y besos
Solimano

Anonimo ha detto...

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