domenica 13 maggio 2007

Riflessi in un occhio d'oro

Reflections in a Golden Eye di John Huston (1967) Dal romanzo di Carson McCullers Sceneggiatura di Gladys Hill, Chapman Mortimer Con Elizabeth Taylor, Marlon Brando, Brian Keirh, Julie Harris, Zorro David, Robert Forster Musica: Toshiro Mayuzumi Fotografia: Aldo Tonti, Oswald Morris (108 minuti) Rating IMDb: 6.6
Solimano
Il film è tratto da un breve romanzo di Carson McCullers pubblicato nel 1941, e la scrittrice morì nel 1967, lo stesso anno in cui fu girato il film. Sono andato a vedere quali furono i migliori film di allora. C’è molto di buono, due film in particolare affrontarono in modo acuto tematiche sessuali: Gangster Story di Penn e L’incidente di Losey, nessuno però con la esclusività lucida, disturbante e quasi ossessiva di Riflessi in un occhio d’oro. La punizione non mancò: fu un film che videro in pochi e di cui alcuni critici scrissero con imbarazzato rispetto. Il film disturba perché descrive una situazione senza via d’uscita, ci sono dei personaggi bloccati dalla maschera che non possono togliersi, anche volendolo. E’ un film deterministico: sono fatti così, e così gli tocca andare avanti fino alla crisi finale. John Huston e Marlon Brando avevano in comune il mettersi alla prova sperimentando vie non abituali, in cui il rischio era molto alto. Non so se per curiosità culturale, per narcisismo spinto o per pulsione di autodistruzione, ma facevano così. Vediamo Brando: l’esplosione mondiale fu nel 1954 con Fronte del Porto, dopo le ottime prove di Un tram chiamato desiderio, di Viva Zapata e di Giulio Cesare. Cosa poteva volere di più? Era un sex symbol per donne di ogni età, uno normale ci avrebbe vissuto di rendita per trent’anni. Brando no, non era uno normale, e fin da subito cominciò a scartare, ad esempio con Bulli e Pupe, fra l’altro un bel film (visto oggi, non allora). E proseguì sempre in quel modo. Per questo accettò una parte che era tagliata su misura per Montgomery Clift, che però scomparve nel 1966, e quella parte, prima cha a Brando, fu offerta a Richard Burton e a Lee Marvin che rifiutarono, sapevano che una parte gay metteva a rischio le loro carriere.
Brando è il maggiore Welden Penderton, che sfoga nel formalismo militare e nella precisione maniacale la sua omosessualità invano celata. Elizabeth Taylor è Leonora, sua moglie, donna naturale e materiale; siccome il marito la lascia stare, provvede a sé andando molto a cavallo e facendo sesso con Brian Keith, il colonnello Morris Langdon. Nel campo militare tutti lo sanno, compreso Penderton, ma fanno finta di niente. Langdon ha la moglie Alison (Julie Harris) autodistruttiva al punto di ferirsi. Alison è amatissima da Anacleto, il filippino gay che le fa da cameriere. Il soldato Williams ama cavalcare nudo di prima mattina, e spiare nottetempo Leonora che dorme, mentre di giorno ne accudisce con scrupolo il cavallo. Solo che Penderton è preso di Williams, al punto di raccattare la carta delle caramelle che lui butta. Nel campo militare non c’è molto da fare, sembra che tutto si muova in modo sospeso, quasi silente, salvo le brevi grida degli stereotipati comandi e qualche incontro di boxe la sera. Però ci sono degli scoppi improvvisi: Leonora che si spoglia nuda davanti al camino acceso per sfregio al marito - e da fuori Williams la vede - Penderton che, pure per sfregio, fa correre all’impazzata il cavallo della moglie - uno stallone bianco – il cavallo lo disarciona e Penderton lo percuote a sangue, Leonora che piomba nella festa schiaffeggiando il marito col frustino. Penderton non si ribella, prende le frustate a faccia in su. Alison muore di infarto, praticamente di crepacuore, nella clinica dove l’hanno ricoverata. Finché una notte Penderton, sempre più ossessionato da Williams, lo sorprende seduto in contemplazione vicino al letto di Leonora. Penderton spara ed uccide Williams. Diranno che era geloso di Leonora, in realtà è geloso di Williams. Tutto raccontato in modo duro, lucido, tranquillo, come farebbe un entomologo o un etologo. Penberton cerca di sublimare la sua non accettazione di come è fatto in una pazienza inutile, ma è un ambiente di militari, a certe cose non bisogna neanche pensarci, Brando ci riesce così bene che nessuno di noi prova simpatia per il suo personaggio. La Taylor va in giro spesso in calzoni, che non le stanno bene, piccola e grossa come è, ma quando parla e agisce - a camino acceso - amiamo il suo personaggio, così sgradevole sulla carta: è pure protetta dal padre, che è un pezzo grosso nell’esercito, e ne approfitta. Non è che ci si diverta, guardando Riflessi in un occhio d’oro. Però si capisce come vanno certe cose, quale è la costrizione contro cui è inutile ribellarsi, e si cresce in cansapevolezza. Per il modo in cui racconta questa storia, il film ha una sua morale molto chiara: occorre accettare la propria natura per come essa è, e occorre che gli altri la rispettino. Era presto nel 1967, è presto oggi, difatti il film lo proiettano ancora per TV, in seconda o terza serata, ma accanto compare il bollino rosso.

2 commenti:

Giuliano ha detto...

Tanti anni fa mi capitò di leggere l’autobiografia di John Huston. Non so se si sia divertito a descriversi così o se lo fosse veramente, ma ne esce il ritratto di un uomo piuttosto grezzo, rozzo, rissoso e dedito all’alcool, parente stretto di Bluto e di Braccio di Ferro. E’ un ritratto confermato da interviste e racconti di chi l’ha conosciuto: però poi Huston se ne esce con film come questo, e come tanti altri, di grande finezza e profondità, e qui qualcosa non torna. Penso che il ritratto perfetto di com’era John Huston lo abbia fatto Clint Eastwood in “Cacciatore bianco, cuore nero”, che è tratto da un libro di memorie dello sceneggiatore di uno dei più famosi film di Huston, “Le Regina d’Africa” con Bogart e la Hepburn: è un film da non perdere.
Huston è un narratore naturale, come Stevenson e come Melville, potente e sottile nello stesso tempo. Come tutti i grandi narratori, quello che racconta può essere letto a più livelli: quello che descrive Solimano (e che descrive bene) è solo uno dei livelli di lettura. Per esempio, c’è il rapporto con la Natura: le case dei protagonisti sono immerse nel verde di un bosco, ed anche i cavalli, e le piante, sono tra i protagonisti del film – ma è solo una delle tante riflessioni che possiamo fare.
Questo film lo apparento a “Sotto il vulcano”, sempre di Huston, che si svolge in Messico ed è altrettanto sgradevole e altrettanto grande: non sempre, si sa, piacevolezza e grandezza vanno di pari passo, e quando ancora non c’era la pubblicità a comandare al cinema c’era molta più libertà.
PS: Anche Huston ha fatto dei brutti film. Il più brutto, senza ombra di dubbio, è uno di quelli più replicati in tv: “Fuga per la vittoria”, quello dove Sylvester Stallone fa il portiere di calcio. Tra i privilegi della gente di cinema, c’è anche quello di potersi pagare debiti e mutui (o magari una bella vacanza) girando film in cui non si crede ma che portano quattrini...

Solimano ha detto...

John Huston è un artista impuro, una categoria che non esiste solo nel cinema ma anche nella narrativa, nella musica, nella pittura, anche nella poesia. A me gli impuri piacciono, perché lavorano sul confine, rischiano perché sono curiosi di territori inesplorati, di ambienti diversi. In genere i critici hanno molto da dire contro gli impuri perché li mettono in difficoltà col loro sfuggire a schemi e gabbie.
Discorso pericoloso, perché impuro non vuol dire facile o dozzinale, di cui abbiamo tanti esempi nel cinema italiano: talenti veri come sceneggiatori, registi, attori che hanno preferito usare la mano sinistra per due motivi. Il primo è quello evidente: far soldi rapidamente e senza rischiare. Il secondo è più importante, anche se è meno confessato: voglia di piacere a troppi, mancanza di serietà intellettuale e morale, scdinzolamento verso i potenti, chiunque fossero. Sono stati - e sono - un esatto quadro delle carenze storiche della società italiana.
Se ci pensiamo, la critica di Petrarca a Dante era proprio quella di impurità difatti il petrarchismo ha vinto e continua a vincere anche oggi, aiutato dall'autoreferenzialità che in Italia non è solo politica, ma anche letteraria: si scrive per gli addetti ai lavori, non per i lettori. Una delle conseguenze è che due branche apparentemente opposte in Italia sono arretrate: la filologia e la divulgazione alta. In Germania, Francia, Inghilterra fare filologia e divulgazione è sentito come dovere culturale e civico, in Italia sono il remedium peccatorum da lasciare a giovinetti speranzosi di cattedre, figuriamoci con quale animo si danno da fare non fregandogliene sostanzialmente nulla, ma vedendolo come un incastro provvisorio. Senza una buona divulgazione non si crea lo zoccolo duro di un buon pubblico, sia per la letteratura che per il cinema.
E tornando all'inizio, gli artisti impuri fanno anche alta divulgazione, proprio con l'essere impuri. Grezzi, rozzi, rissosi: avercene.

saludos
Solimano