giovedì 13 agosto 2009

La promessa

The Pledge di Sean Penn (2001) Dal romanzo di Friedrich Dürrenmatt, Sceneggiatura di Jerzy Kromolowski, Mary Olson-Kromolowski Con Jack Nicholson (Jerry Black), Robin Wright Penn (Lori), Patricia Clarkson (Margaret Larsen), Aaron Eckhart (Stan Krolak), Benicio del Toro (Toby Jay Wadenah), Sam Shepard (Eric Pollack), Tom Noonan (Gary Jackson), Mickey Rourke (Jim Olstad), Harry Dean Stanton (Floyd Cage), Vanessa Redgrave (Annalise Hansen), Helen Mirren (Dottoressa), Dale Dickey (Strom) Fotografia: Chris Menges Musica: Klaus Badelt, Hans Zimmer (124 minuti) Rating IMDb: 6.9


Aurelio Tagliabue

Un vecchio poliziotto in un mondo senza logica

L’intellettuale e il marito della diva
La genesi del film La promessa rappresenta un illuminante esempio degli intricati rapporti che attualmente esistono tra cinema e letteratura. Nel 1957 il produttore cinematografico Lazar Wechsler incaricò lo scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt di scrivere la sceneggiatura di un film, il cui argomento dovevano essere i delitti sessuali sui bambini. Terminato questo lavoro con la collaborazione del regista Ladislao Wajda, Dürrenmatt, poiché era insoddisfatto del risultato, riscrisse la storia, trasformandola in un romanzo intitolato «La promessa», che venne pubblicato nel 1959 e che nel 2001 è diventato a sua volta un film per la regia di Sean Penn . Se nell’atteggiamento dello scrittore è possibile intravedere un tentativo di ridare alla letteratura supremazia sul cinema, ci si può forse stupire del fatto che un romanzo così ambizioso abbia interessato la cinematografia americana, solitamente restia ad occuparsi di scrittori europei, ed in particolare un regista che, fino a qualche anno fa, grazie alla complicità di una stampa sempre più incline al pettegolezzo, era per lo più conosciuto come il marito (poi l’ex marito) di Madonna. Vale la pena ricordare che in questi anni Penn, oltre a dimostrare notevoli qualità recitative , ha diretto due film prima di questo: Lupo solitario (1991) e Tre giorni per la verità (1995), dei quali aveva anche scritto la sceneggiatura. Il suo cinema appare più legato alla tradizione autoriale europea che alla spettacolarità hollywoodiana, ma è debitore anche verso il cinema americano degli anni Settanta, nel quale gli stereotipi della cinematografia classica venivano abbandonati, oppure rovesciati, alla luce della cultura alternativa che si diffuse in quell’epoca, lasciando il posto a storie di emarginati e di personaggi non in sintonia con la società ed i suoi valori consumistici. La scelta del romanzo e la sua rielaborazione sono le necessarie conseguenze di queste premesse. Ma procediamo con ordine.


C’erano una volta i generi narrativi
La storia narrata da Dürrenmatt ha come protagonista un poliziotto che, sconvolto dall’omicidio brutale di una bambina, promette ai genitori della stessa di trovare il colpevole e a questo fine dedica l’intera sua vita, stravolgendola letteralmente, rinunciando ad un autorevole incarico. La sua inchiesta non avrà esito positivo, anche se le armi da lui utilizzate, un’infinita pazienza ed una strategia curata nei dettagli, in più di un’occasione sembrano rivelarsi valide. Il suo errore è quello di lasciasi guidare totalmente da criteri razionali, in una realtà caratterizzata dal caos e da fattori imprevedibili. È evidente l’intenzione, da parte dell’autore, di rileggere con scetticismo le convenzioni tipiche del giallo classico; intenzione esplicitata nelle prime pagine del romanzo e nel sottotitolo: Un requiem per il romanzo giallo.
Il lavoro di trasposizione filmica non poteva limitarsi ad una rilettura di un genere, perché dopo quanto fatto nel cinema dagli anni Settanta in poi in materia di contaminazione e revisione dei generi, il risultato sarebbe apparso banale. La sceneggiatura doveva arricchire una storia che si presentava, nel suo congegno narrativo, pressoché perfetta, quindi le eventuali modifiche dovevano essere particolarmente calibrate; forse per questo Penn non si è assunto il compito di sceneggiatore, lasciandolo al polacco Jerzy Kromolowski ed alla moglie Mary Olson, che da un’opera metaletteraria hanno ricavato un film che ha come nucleo centrale una riflessione epistemologica. Dal punto di vista connotativo sono due le principali direzioni seguite dagli sceneggiatori: una maggior evidenza dall’insanabile contrasto tra logica e caos e la caratterizzazione del protagonista come perdente.


La saggezza (?) del vecchio poliziotto
Nel romanzo il poliziotto sembra quasi cadere nel vortice della pazzia, attirato dal desiderio di scoprire l’assassino a tutti i costi. Il poliziotto del film non è fin dall’inizio in sintonia con ciò che lo circonda: il suo pensionamento non è soltanto una svolta nella sua vita (nel romanzo era un incarico in Giordania), ma bensì l’inizio di un periodo che egli non vuole accettare e che razionalmente non può essere accettato. In una sequenza Jerry Black, il protagonista, si affaccia ad una finestra dell’ufficio che sta ormai per abbandonare e vede, in un campo visivo molto ristretto, un uomo anziano che cammina faticosamente reggendosi sul girello: questo è ciò che lo attende fuori dall’ambito in cui è vissuto finora. Il suo senso d’estraniamento è magistralmente reso da Jack Nicholson, che da anni non ci regalava un’interpretazione tanto intensa, quanto capace di non eccedere in atteggiamenti compiaciuti. Vera icona del cinema anni Settanta, Nicholson è circondato da altri attori che rimandano al cinema di altri tempi: Sam Shepard, Vanessa Redgrave, Mickey Rourke, Harry Dean Stanton; come si è già detto in precedenza Penn deve molto a quella cinematografia e sembra provare un certo rimpianto nostalgico per quei tempi; in un certo senso condivide il disagio del suo protagonista, che ad un certo punto ricorda ad un collega che c’è stato un tempo in cui fare una promessa, significava ancora qualcosa. Nella sequenza del party d’addio poi Black è letteralmente fuori fuoco, diverso e distante da chi gli sta attorno per festeggiare qualcosa che lui non gradisce affatto. Infatti non accetterà la vacanza che gli viene regalata ed andrà a pescare a modo suo, sia in senso letterale che metaforico . La sua razionalità, che non gli permette di accettare che il colpevole del delitto rimanga impunito, gli impedisce di vedersi rassegnato al declino, al quale non è possibile attribuire con logica una giustificazione. La distanza diventa superiorità morale nel momento in cui accetta, di fronte al defilarsi generale dei colleghi, di informare i genitori della bambina uccisa. E’ in questo momento che scatta la promessa come pegno morale: di fronte al vicolo cieco della pensione Black imbocca una via priva d’uscita. La sequenza è girata in un allevamento di tacchini: il poliziotto, circondato da centinaia di animali, comunica la scomparsa della bambina, inquadrato in campo lungo. La presenza dei tacchini sembra evidenziare un ulteriore contrasto con il suo impulso razionale. Nel film vediamo anche mucche, pesci, cani, corvi e come giustamente ha affermato Gianni Canova: «Troppo frequenti e reiterate per essere casuali, le apparizioni animali evocano un universo privo del lume della ragione e dominato dagli istinti primari di sopravvivenza» .

Sia nel romanzo che nel film è una beffarda coincidenza ad impedire che il mistero venga svelato: un incidente stradale impedisce al criminale di raggiungere la sua ipotetica futura vittima e quindi di cadere nella rete tesa dal poliziotto pescatore; insomma l’esca avrebbe funzionato se… Se tutto avesse una logica, se ci fosse un perché per ogni cosa, se la ragione dominasse su tutto e chi deviasse da essa venisse individuato e quindi punito. Non sono questi i presupposti che stanno alla base del giallo classico? Ma Dürrenmatt riteneva che questo genere non fosse più attuale ed un regista del nostro tempo ha allargato questo scetticismo alle potenzialità dell’uomo, nei confronti della realtà che lo circonda.



1 commento:

Solimano ha detto...

Aurelio Tagliabue, mi concentro su due argomenti.

Utilizzando frequentemente la modalità delle viste logiche (il lavoro, le coppie, i luoghi ecc ecc) esco dalla gabbia dei generi (thiller, orror, fantasy, western, musical ecc ecc), ma in questo caso mi piacerebbe rientrarvi, perché il genere poliziesco è cambiato profondamente (per fortuna). E' cambiato sia nei libri che nei film. I perfetti giochi cerebrali con meccanismi ad orologeria in cui a un certo punto tutto si chiarisce, tutto ha una sua logica, sono finiti, o sono diventati un sotto-genere. E la cosa è in corso da tempo, almeno a partire dai romanzi di Le Carré, in particolare La talpa, in cui conta molto di più il rapporto psicologico fra i personaggi che il filo logico della trama. Come succede ad Altman ne Il lungo addio e in Gosford Park.

Gli animali. Quando decisi di avviare una vista logica gli animali nel cinema, credevo che fosse una specie di diversivo gradevole. Mi hanno fatto cambiare idea film com Giochi proibiti, Umberto D, Underground (il bombardamento dello zoo di Belgrado) oltre naturalmente ad Au hasard Balthazar di Bresson, su cui ho in mente di scrivere diversi post. L'animale come metafora dell'uomo, metafora più schietta dell'originale. Una metafora che dice cose difficili da contestare, perché diretta e perché non scattano i nostri consueti meccanismi di difesa.
Poi, c'è anche il divertimento, come con l'Idefix di Obelix o i tanti cartoni animati, ma perfino il Birillo dell'architetto Rambaldo Melandri a suo modo ha un significato. E gli struzzi di Baci e abbracci di Virzì e (soprattutto) il pappagallo Laverdure di Queneau-Malle (più nel libro che nel film).

grazie e saludos
Solimano