Solimano
Quando uscì Bella di giorno ci furono molte discussioni sui sogni di Séverine (Catherine Deneuve), su Freud, Sade, il surrealismo, la critica antireligiosa tanto ironica quanto decisa - come pochi anni prima con Viridiana - ma il pensiero comune spesso non dichiarato fu che Luis Bunuel avesse fatto un film erotico di suprema eleganza e che Catherine Deneuve fosse il modello attuale della bellezza angelicata e al tempo stesso perversa. Credo che in questo film, come nei capolavori successivi, siano tali il rigore e la credibilità di Bunuel nel raccontare le sue storie, che anche le assurdità vengono accettate senza discutere, non perché il surrealismo giustifica ogni nesso, anche il più imprevisto, ma perché Bunuel può raccontarci qualsiasi cosa, e il modo stesso con cui ce la racconta la rende vera. Così sarà per Il fascino discreto della borghesia e per Quell'oggetto oscuro del desiderio, in cui le assurdità sono sistematiche, mentre qui in Bella di giorno la storia di Séverine quando è sveglia e non sogna è una storia borghesemente possibile: una donna frigida col marito Pierre (Jean Sorel) che trova una compensazione andando in un bordello fra le due e le cinque del pomeriggio, e trovandosi ad avere a che fare con la decisa maitresse Ainis (Geneviève Page) e con dei clienti a volte violenti a volte buffi. Finché le capita Marcel (Pierre Clémenti) un delinquente spagnolo che si innamora di lei e che per la rabbia della ripulsa di Séverine le ferisce gravemente il marito. Per Séverine quelle tre ore di bordello pomeridiano sono come una doccia ristoratrice, così fuori ridiventa la moglie tranquilla e rispettata di un chirurgo. I sogni confermano il disagio di Séverine, sono sogni di espiazione e di autopunizione, ma quello che interessa a Bunuel non è la ricostruzione psichiatrica di una personalità disturbata, ma la seduzione che la bellezza di Carherine Deneuve esercita sul pubblico, quindi anche su di me, che del pubblico facevo parte. E' chiarissima l'eversione di Bunuel, noto per questo da decenni, ma il suo tipo di eversione non lo porta a disordinare neppure una stanza né una capigliatura: tanto più tutto sembra normale, tanto più le persone (Catherine in primis, ma non solo) sono belle, tanto più l'eversione funziona. Sono capaci tutti di propagandare l'eversione col disordine, lui lo fa con l'ordine sistematico di tutti gli ambienti, bordello compreso. Così l'eversione, cioè la cancellazione dei valori tradizionali diventa assolutamente radicale, non bisognosa di scuse e di giustificazioni psicologiche o cliniche.
Bunuel ci dice semplicemente che Séverine fa così perché le va di farlo sistematicamente, a volte sessualmente coinvolta a volte no. Una signora borghese che vive una doppia vita e che proseguirebbe così - ci sta bene - se non intervenisse quel delinquente moro dal calzino bucato - tutti lo ricordano - a scompigliare l'equilibrato gioco che Séverine sta conducendo, e con cui si è conquistata il soprannome di Belle de jour, di cui è pure contenta. Una così ha fatto le sue scelte e non c'è bisogno di scuse o di giustificazioni: la vita può portare a scelte del genere. Mentre invece infastidisce il lubrico Henri Husson (Michel Piccoli) che vorrebbe anche lui Catherine, ma a lei non va e lui spiffera la storia del bordello dalle due alle cinque al marito rimasto paralizzato dopo i colpi di pistola di Marcel. Il premio che il film ebbe a Venezia infastidì molti, ed i giurati si arrampicarono sugli specchi della realtà contrapposta alla fantasia, della psicoanalisi ed altro, ma il pubblico che riempiva le sale colse molto semplicemente la bellezza di una storia ardita così ben mostrata, più che dimostrata. Di dimostrazioni non c'era nessun bisogno. L'ironia di Bunuel così di testa e di sguardo era la cosa peggiore per il mondo tradizionale: con uno così si poteva solo cercare di non parlarne, i tentativi di appropriazione - come facevano con Fellini - erano inapplicabili, e le grida di scandalo autolesionistiche, vista la decisione fermissima di Bunuel, che non se la tirava da profeta, da uomo di un nuovo mondo, ma da occhio che si accorge delle cose, e se succedono se ne può benissimo parlarne e mostrarle.C'è un altro aspetto strano: i film di Bunuel - anche questo - sono molto più allegri che tragici, non sono film che commuovono e neppure scuotono: uno se li guarda, ed impara moventi e fatti della vita e delle persone che neppure immaginava, un eppur si muove difficile da controbattere. Questa bellezza infida e trionfante la Deneuve la trovò con Bunuel qui e in Tristana, ma la esercitò anche con Truffaut, ne La sirène du Mississipi e - un po' meno - ne Le dernier métro. La tranquillità dell'eversione organizzata e sistematica. Il pubblico usciva non del tutto contento ma lievemente spiaciuto di come un bel ménage con una suo punto di equilibrio, come quello di Séverine e Pierre, fosse messo a repentaglio da un Marcel moro, prepotente, spagnolo e pure con un calzino bucato. Andava tutto così bene da Madame Anais, dalle due alle cinque!
4 commenti:
Trovo molto notevole, anche se non condivido tutto, quello che scrisse Goffredo Fofi sui Quaderni piacentini numero 32, 1967. Il brano di Fofi è scritto evidentemente a caldo: a parte la data, lo si avverte dalla vivezza coinvolta con cui scrive. Fra le cose che non condivido una in particolare la segnalo: Fofi, nel finale, vede Séverine come segno-simbolo contemporaneo di un mondo condannato. Allora, erano tempi in cui si ipotizzava una palingenesi sociale, per me Séverine è una donna ben precisa che fa scelte sue ben precise, conscie o inconscie che siano. Quindi non eleviamola a sistema, guardiamola nella sua carnalità erotica e nei suoi sogni di purezza, due aspetti che si sorreggono a vicenda. Basta e avanza, trattarla da segno-simbolo vorrebbe dire toglierle la sua individuale forza rappresentativa, su cui si regge il film. Altro che mediocre Séverine! Mediocri erano le utopie del '67. Ma Fofi è comunque bravissimo:
"L'illusionista mostra il mondo in rosa, l'ipnotizzatore getta nelle tenebre” si dice, all'incirca, in Belle de jour, dove l'illusione, che evita le possibilità catartiche, vince sull'ipnosi. Amalgama dei due, e scientifico osservatore del loro manifestarsi, Buñuel ha trionfato a Venezia con un film solo esteriormente rosa ed “elegante”. Non interessa sapere quanto il suo successo sia dovuto al tardivo riconoscimento di un autore che la critica italiana ha trascurato per decenni ridicolizzato sovente, trattato da caso clinico ininteressante e che ora consacra con colpevole pentimento. Esplode oggi soltanto, in Italia, il mito buñueliano ben più forte della frequentazione delle sue opere, e abbaglia molti che vi cercano anacronisticamente quel che egli aveva dato con L'Age d'Or: la rivolta pura, il blasfemo. Ma Buñuel è adulto e savio, e osserva oggi con distacco quello cui ieri partecipava aggredendo. La narrazione pacata, priva d'effetti di regia, di un candore e di una semplicità che non hanno nulla della faticosa ricostruzione, fedele soltanto a un gioco di associazioni via via coordinantesi in una struttura autonoma, a più livelli – e soprattutto nel rapporto vischioso tra conscio e inconscio – introduce lo spettatore a un mondo segreto e non immediatamente significativo, pretende da lui lo sguardo pulito dell'interessamento distante (attraverso il tipo di linguaggio di cui si serve) e coinvolto (per i suoi riferimenti sotterranei). La naturalezza più totale copre la complessità narrativa più elaborata. Di morboso: solo il fatto che Séverine è in qualche modo sorella nostra, e che Buñuel ce la porta il più possibile accanto per sottrarla di continuo alla nostra identificazione, in un gioco perfetto e sottile di alternanze.
Certo, da questo vecchissimo infante, non ci si possono attendere film legati a una contemporaneità tematica o narrativa assiomatica. Il suo Freud e il suo Sade egli li ha innestati, attraverso Breton e il gruppo, al fondo spagnolo, picaro e morale della sua cultura, nel lontano Trenta, ed egli torna a queste componenti senza portarvi che variazioni interne, mai rivoluzionarie e anzi con divertito distacco dalla materia e dalle passioni trattate, partecipe per simpatia e per curiosità lontano per non-immedesimazione. I dati esterni della sua ispirazione egli li reperisce in un contesto ispano-messicano socialmente arretrato e sottosviluppato. Le sue storie sono apologhi che rovesciano quelle ideali delle agiografie, trasportando i personaggi che ne sono al centro in imprese in sé non odiose di purificazione e missione, e concludentisi ottimisticamente, cioè con la sconfitta del santo e la vittoria dell'uomo. Ma si negherà a un autore il diritto di essere fedele a se stesso quando la sua opera manifesta la più variata e rigorosa fantasia, la più scrupolosa e vigorosa consistenza? Eppure Buñuel riesce con Belle de jour, a darci ancora qualcosa di più, con un mutamento – all'interno della sua opera – doppiamente importante. Egli infatti: 1) abbandona l'ambiente “arretrato” di tutta la sua opera e passa a quello europeo centrale e avanzato di una Parigi di oggi, indubitabilmente filtrata attraverso il suo particolare irrealismo schematico; 2) su questa base che supera quella dei film francesi di Buñuel, non a caso ambientati in una provincia estrema come la Corsica di Cela s'appelle l'aurore, o gli anni Trenta campagnoli del Journal d'une femme de chambre, abbandona i santi per parlare dell'uomo medio, del noi quotidiano.
Séverine segue un itinerario simile e parallelo a quello di Viridiana, di Nazarìn di Simeon. Allo stesso tempo, non è una pazza, come El, né si libera delle sue ossessioni come Archibaldo de la Cruz, il personaggio cui più d'ogni altro somiglia, ma col quale non ha in comune la profondità del trauma, e quindi il più ampio margine di chances liberatorie. La molla di Séverine è meno alta di quella di Viridiana, che vuole cambiare il mondo con l’amore e col Cristo. Prigioniera della sua infanzia, della sua ambigua passività masochistico-cattolica e della sua condizione di sposa borghese, ella non vuole che confusamente adempiersi e completarsi si spinge torpidamente alla prostituzione, come a una colpa inevitabile che vorrà esser punita, ma con un'ansia irrevocabile di liberazione. Ma è la strada giusta? Lascia alle cinque la casa d'appuntamento per rientrare nella bella casa borghese, ma è veramente uscita dalla sua contraddizione prima? Si libera dalla fantasticheria, dal sogno a occhi aperti, dalla insoddisfazione misera e abituale, ma Marcel, il giovane guappo, e Henri il marito, non sono in fondo costrizioni parallele? ed è mai possibile una loro coesistenza? La precarietà della situazione non può che esplodere e anche il castigo (termine cristiano, interno cioè alla logica della colpa, di quanto è visto come colpa; che segreta e squillante idea, quella dei tori che si chiamano Rimorso Espiazione... nella reverie, più oscena e squisita che in Dali, dell'Angelus di Millet!) arriva, temuto e voluto. Marcel rende Henri paralitico e cieco, ma viene ucciso dalla polizia. Felice (ogni masochista ha il suo risvolto sadico) della punizione fatale, sofferta ben più duramente da altri, dice Séverine: “dopo il tuo incidente, non sogno più”. Ma il diavolo non perdona e di fronte alla conoscenza della sua colpa da parte del marito, a Séverine non resta che una nuova regressione, il ritorno allo stato precedente la scelta che nulla ha risolto, alla fantasticheria, alla gabbia dell'infanzia, tranquillizzante e padrona. La liberazione che essa cercava è tutta terrena al contrario di quella di Viridiana, ma le strade prescelte sono altrettanto sbagliate: nell'un caso, per l'ambizione al superamento e alla dimenticanza delle realtà dell'uomo e della carne; nel nostro, per la sua congeniale corrispondenza al sistema sofferto e fuggito. E non ci pare, peraltro, che i simboli, i sogni, le premonizioni, le consonanze, le correlazioni, siano affatto oscuri o sistematicamente ambigui. I misteri dei gatti, dell'inchiostro, della scatola cinese, inerenti a un rituale erotico che stimola l'immaginazione dello spettatore, ponendolo al limite in una condizione di fantasticheria simile a quella della protagonista, hanno una precisa funzionalità, coinvolgono appunto, ma anche alludono a uno stato di incompiutezza, di irrealizzabilità, di inassolutezza di quella evasione. E l'apparato delle fantasticherie è perfino troppo chiaro e banale, freudianamente; quello delle perversioni derivato da una ristretta e alquanto tradizionale casistica, che Buñuel stesso ha sfruttato, sia pure con perenne vivacità, più e più volte. Sin dalla scena d'inizio, che fora geniale lo schermo dalle pagine antiche di Justine. E il landò è il simbolo stesso della fantasticheria, con il suo altalenare ritmico e sessuale, la sua musica cullante, zucca di Cenerentola e ventre materno tutt'insieme. Ma l'importante, è ovvio, non sta nei materiali, quanto nel loro uso, che è ancora magistrale e sereno, d'una levità e scorrevolezza che non sono che il risultato, tocco dopo tocco in una costruzione invece equilibratissima e nascosta, e che centrandosi sui malheurs du vice della mediocre Séverine richiamano a una più generale condizione di alienazione quotidiana, di difficoltà di sortita, di irrealizzazione costante, che è, questa, veramente moderna. A essa Buñuel arriva grazie a una genuinità d'istinto e di criterio che fanno di Séverine una contemporanea assoluta, il modello delle povertà di affrancazione all'interno di un sistema condannato".
Mi piace molto la parte con la Deneuve, trovo noioso e un po' irritante tutto il resto.
E' l'impressione che mi fa tutto il cinema di Bunuel, sono sempre indeciso fra la noia e l'ammirazione - poi lo prendo così come è, il lampo del genio c'è in tutti i suoi film.
E' evidente che su Bunuel la pensiamo diversamente.
Soprattutto nei tre film che apprezzo di più, cioè questo, Il fascino discreto della borghesia e Quell'oggetto oscuro del desiderio, in lui c'è una forte componente di trasgressività erotica, come se seguisse le teorie di Wilhelm Reich (di cui secondo me non gli importava nulla). Il punto è che ebbe a sua disposizione in questi tre film delle attrici notevoli, oltre a Catherine Deneuve, Stephane Audran, Bull Ogier, Delphine Deyrig, Carole Bouquet e Angela Molina, con cui si trovava in perfetta sintonia, ed inoltre il suo attore-feticco: Fernardo Rey, clamorosamente in parte quando fa il grosso borghese o l'assatanato erotico (che comunque mantiene sempre un aplomb).
A me le costuzioni oniriche ma molto concrete che fa im questi film divertono molto, le trovo piene di fantasia e di eleganza.
Bunuel è volutamente un regista che non fa pensare: fa constatare e ci riesce benissimo.
saludos
Solimano
P.S. In ogni caso, se dovessi dare una definizione di Bella di Giorno, lo definirei come film erotico, e credo che a Bunuel non dispiacerebbe. Potrebbe anche darsi che prima o poi teniamo qui una serie titolata "L'erotismo al cinema", sarebbe una ottima idea, perché fra i film erotici ce ne sono di ottimi, come - mio parere - La chiave di Tinto Brass e Malizia di Salvatore Samperi. E' giusto che sia successo qualcosa del genere: l'erotismo si infiltra in tutte le arti, figurarsi se non si infiltava nel cinema, che è così diretto come emozioni e sensazioni.
saludos
Solimano
saludos
Solimano
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