martedì 10 luglio 2007

Sfida infernale (2)

My Darling Clementine di John Ford (1946) Dal libro di Stuart N. Lake, Sceneggiatura di Sam Hellman, Samuel G. Engel, Winston Miller Con Henry Fonda, Victore Mature, Linda Darnell, Cathy Downs, Walter Brennan, Tim Holt, Ward Bond, Alan Mowbray, John Ireland Musica: Cyril J. Mockridge, David Buttolph Fotografia: Joseph MacDonald (97 minuti) Rating IMDb: 8.0
Lodes
Ford con questo film (1946) conclude un percorso iniziato con Ombre rosse (1939). Un percorso per portare il Western alla fase della propria maturità. Il western fino ad allora era stato la rappresentazione spettacolare dello scontro tra buoni e cattivi, di inseguimenti, di indiani ululanti: insomma il western era congeniale alle immagini in movimento che tanto affascinavano i nostri nonni. I film si basavano, appunto, su elementi molto semplici, il bene il male, il buono e il cattivo: Tom Mix fu l’eroe che interpretò meglio queste storie fatte di scazzottate, di cavalcate, di inseguimenti. John Ford reinvesta il western, lo fa diventare adulto, introduce personaggi che hanno una psicologia, che sono portatori di tormenti, di ricerche esistenziali ed umane. L’azione non viene meno: in questo film non mancano certo gli elementi avventurosi classici del western, ma appunto Ford mette in gioco gli individui. Individui alla ricerca della loro esistenza dentro una ricerca più grande che riguarda l’America. Wyatt Earp, Doc Holiday non sono altro che due facce della stessa medaglia. C’è nella figura di Doc una continuità con la prostituta Dallas di Ombre rosse. Entrambi sono segnati da un destino che non lascia spazi. Anche se la loro sorte sarà diversa, entrambi rappresentano la tragicità della propria esistenza: una segnata dal “mestiere” e, quindi, dalla emarginazione a cui nemmeno Ringo riuscirà a porre rimedio per cui saranno costretti ad andarsene, l’altra segnata sì dalla malattia, ma prima ancora dallo scontro con un mondo (l’est) che rifiuta chi va fuori degli schemi. Entrambe troveranno nel selvaggio west una loro legittimazione ed è attraverso questi personaggi che Ford ci racconta di una frontiera che ha un rapporto conflittuale con la borghese america dell’est. Da un lato sono quelli che scoprono nuovi territori, che cercano nuovi spazi e nuove opportunità, che si sentono avanguardie di una nazione che crede nel proprio destino, che portano l’ordine, la legge, dall’altro sono quelli che fuggono dalla società complessa dell’est. Cercano gli ultimi scampoli di una stagione che la modernizzazione travolgerà entro breve. Non stupisce dunque che Doc Holiday declami i versi dell’Amleto. C’è in questo atto tutto l’amore/ odio verso il “proprio mondo” da cui sa di non poter fuggire: sarà sempre –anche ad un tavolo da gioco o brutalizzando Chihuahua –un uomo di cultura, un uomo che sa vedere anche la piccolezza del proprio mondo. Ma sia Doc che Earp non sfuggono al loro destino: Earp fa ciò che deve in nome della legge, Doc fa ciò che deve in nome della sua coerenza verso ciò che è stato: ribelle ma dalla parte della giustizia, non poteva essere diversamente. Dunque un film che scava dentro i personaggi, che apre il western alla “cultura”. Non solo un film d’avventura, ma il western come terreno dove sondare le inquietudini, dove ragionare del destino del paese, dove interrogarsi sulla evoluzione di una società che sta entrando nella storia da protagonista. Tutto questo fa grande John Ford. Poi ci sono i “quadri” all’interno dei quali Ford racchiude delle vere e proprie chicche: Solimano ha già ricordato la famosa frase del barista, ma come dimenticare i fratelli di Earp? Come dimenticare la scena del ballo? E come dimenticare il clima rarefatto della domenica in cui Earp tutto tirato a lucido si dondola sulla sedia? Insomma assolutamente geniale. Da ultimo un cenno a Walter Brennan che qui interpreta il ruolo del cattivo Clanton. La storia professionale di Brennan va in senso esattamente opposto, ma qui Ford gli da possibilità di dimostrare le sue grandi capacità di attore e lui sarà un grande cattivo, assolutamente nel ruolo.


2 commenti:

Giuliano ha detto...

Questi sono proprio i film dei quali ci si innamora, e non li si dimentica più.

Solimano ha detto...

Quelle che ho chiamato "frasi immortali" un po' scherzozamente, in effetti non sono delle battute brillanti, ma hanno uno spessore.
Vediamo il barista, quello che non è mai stato innamorato perché ha fatto il barista tutta le vita. Fa ridere, ma ci vedi una esistenza che fin dalle braghe corte è sommersa dal dover provedere ogni giorno a vincere la lotta per l'esistenza, per, come dice Rigoletto in Stile libero, "campare la vita".
Così, il fatto che non ci sia una pagine della Bibbia in cui sia proibito il ballo, illumina la situazione di una naturalità che si ribella, si fa spazio fra le proibizioni religiose, sentite come una cappa impropria. Proprio mentre si inaugurano i lavori per la chiesa.
Infine, nel "Lo sa che è un bel nome , Clementina?", c'è la timidezza amorosa di chi lo dice sapendo che così fa un piacere a chi l'ascolta (anche perché Clementina non è poi un gran bel nome). Tutto molto direttamente e con assoluta finezza, ben diversamente da tante sceneggiature di ferro in cui non si sbaglia una parola, ma non c'è vero coinvolgimento.
In un film con otto omicidi (quattro Clanton, due Earp, Doc Holiday e Chihuahua) la parte leggera è l'indispensabile controcanto, l'affermazione che la vita è comunque di per sé un valore, finché c'è. E Shakespeare è fondamentale, perché in tutte le opere grandi fa così: c'è sempre il matto, il buffone, quello che vede le cose in modo diverso. Così il pubblico, che non è fatto di eroi tragici, è coinvolto, si sente parte in causa, rappresentato sul palcoscenico.

saludos
Solimano