lunedì 30 luglio 2007

Ingmar Bergman non c'è più

Giuliano
Ingmar Bergman non c’è più. Ho appena letta la notizia della sua morte, e cerco di rendergli omaggio meglio che posso, con le sue parole e non con le mie.

Intervista a Ingmar Bergman
BERGMAN: « ORA LO POSSO DIRE: ME NE INFISCHIO DEL PUBBLICO»
di Olivier Assayas, corriere della sera-7, marzo 1994
Molti cineasti che hanno messo tanto di sé nella propria opera si sono anche preoccupati di proteggersi, di dissimularsi. Bergman ha messo tutto nei suoi film. C'è per intero: nudo.
Al tempo stesso illusionista e reo confesso di questa illusione, vulnerabile e inaccessibile, umano e insondabile. La sua opera è chiusa: quest'uomo di teatro ha firmato nel 1982 la sua uscita di scena con un film capolavoro di cinque ore e mezzo in cui si dipana la sua esistenza con i meccanismi più segreti: «Fanny e Alexander». Poi ha voluto aggiungere un post scriptum teorico, il film «Dopo la prova», e un commento, il libro «Lanterna magica».
E oggi, riconciliato con se stesso, non è paragonabile a chi ha portato a termine la sua opera, ma a qualcuno che se ne sia liberato.
- Quando ha iniziato la sua attività artistica?
«E’ difficile dirlo perché, per quanto posso ricordarmi, ho “creato” per tutta la vita. E’ esattamente lo stesso sentimento di quando ero bambino, ben prima di andare a scuola: dopo la colazione aprivo le porte della mia cameretta dove tenevo tutti i miei giocattoli e decidevo come avrei passato la mattina. Il sentimento non è cambiato, non lo dico per razionalizzare le cose né per civetteria, è precisamente così. Sono i gesti a essere cambiati, la scala di valori, il contesto».
- Come è avvenuto il passaggio al cinema? Era un suo desiderio, presente fin dall'inizio?
«Lo è sempre stato, tutta la vita! Ero talmente ossessionato dall'idea di fare del cinema che mi potevano dare qualsiasi merda e dirmi: "Falla", e io la facevo, non so perché. Era quello strano modo di vivere, semplicemente essere là con la cinepresa, e la troupe, l'atmosfera e la luce, gli attori».
- Quando ha cominciato a fare film, desiderava anche scriverli?
«Ho cominciato a lavorare come sceneggiatore in una compagnia, la Svensk Filmindustri. Eravamo sei schiavi a lavorarci. Imparavamo tutto dal metodo americano. Non era una cattiva scuola, bisognava assimilarla. In quegli anni, 1937, 1938, sono arrivati i film francesi: “Il porto delle nebbie" e "Alba tragica" di Marcel Carné, “l bandito della casba" di Julien Duvivier... La nostra compagnia li detestava. A me piacevano, ma era un amore segreto. Era assolutamente proibito, perché il modo americano di raccontare le storie era la sola maniera possibile di fare del cinema»
- Guardando i suoi primi film, si ha la sensazione che lei sia altrettanto in sintonia col cinema americano.
«Sono in sintonia con il cinema perché sono uno dei pochi cineasti al mondo che ama vedere i film degli altri. E’ difficile da spiegare perché non avete conosciuto il muto. Il cinema stava per diventare un'arte, perché faceva vedere la più straordinaria scena di teatro, il volto umano: un'ombra sullo schermo, che all'improvviso si volta e ti guarda... E’ la cosa più importante dell'arte del cinema. Puoi vedere gli occhi, le migliaia di piccoli muscoli, la pelle: e non sei disturbato dal suono, puoi essere tu stesso creatore ... ».
- Che cosa ha provato passando dal bianco e nero al colore?
«Col bianco e nero è la stessa cosa che col silenzio. Inviti il pubblico a creare con te. Con un film muto chiedi allo spettatore di udire le voci dentro di sé e di crearle insieme a te. Quando fai un film in bianco e nero, inviti il pubblico a vederne i colori. Penso che al cinema sia molto importante far comunicare il pubblico, farlo partecipare. Il colore sottrae qualcosa».

- Si è mai posto la domanda: “Qui rischio di essere un po' noioso, oscuro... qui rischio di essere frainteso”?
«Certo, ma a volte può essere molto pericoloso. Si è verificato a proposito di "Sonata d'autunno": volevo essere chiaro, dovevo essere capito, dovevo semplificare. Tutto questo era pericoloso per il film. In teatro gli attori sono davanti al pubblico, e tu devi muoverli, aiutarli, dare loro tutte le possibilità affinché siano il più possibile efficaci e comprensibili. In caso contrario, il pubblico si infurierà, oppure non verrà, o ancora farà a meno di guardarli. E l'errore sarà soltanto tuo. A volte, con "L’ora del lupo" e "Luci d'inverno", mi sono ribellato al mio amore per il pubblico dicendomi: “me ne infischio!”
- Qual è stata la reazione dei suoi genitori riguardo alla sua opera?
«In genere ero io che dicevo "quel film potete vederlo" oppure "per favore non andate a vedere quel film". Ma mia madre era così curiosa che credo andasse a vedere anche quelli che non volevo che vedesse. Non ne parlavamo molto. Con i miei genitori ho cominciato a comunicare molto tardi. Mia madre è morta prima di mio padre che le è sopravvissuto solo quattro anni. Prima di morire è stata molto malata, ha avuto tre infarti. Negli ultimi tre anni della sua vita ci siamo avvicinati tantissimo: nonostante tutto il pudore della moglie di un pastore, era una donna forte ed emotiva. Poi, quando mio padre è rimasto solo, ho dovuto aiutarlo in cose pratiche... siamo diventati amici. Mio padre, al contrario di mia madre, era molto timido. Timidissimo. Ma non nel suo lavoro. Credo che lì fosse un genio, ma nella vita era nervoso, molto silenzioso e riservato. Ma ci volevamo bene. Ho passato una vita intera a odiarlo e negli ultimi anni della sua vita ci siamo riavvicinati. La sua onestà mi emozionava, mi toccava, poi all'improvviso è stato con me di una franchezza brutale. Ma quando si è tolto la maschera e abbiamo potuto sederci e parlare delle nostre vite mi sono molto commosso. Ma non penso che i miei film abbiano divertito granché i miei genitori. Certo, erano contenti del fatto che fossi famoso, che la gente andasse da mia madre a chiederle come si sentiva a essere madre di un grand'uomo (ride)».
- Questa riconciliazione tardiva con i suoi genitori ha avuto qualche influenza sulla sua ispirazione?
«Non credo nell'ispirazione: credo che sia un'idea romantica, l’idea che le cose vengano da Dio. Ma se non si crede in nessun dio, se si crede semplicemente nel proprio lavoro, si crede nella propria capacità creatrice, nell'esperienza, nell'applicarsi. Io credo nell'applicazione. Sono molto pedante e cerco, almeno nel mio lavoro, di essere onesto».
- Ma allora lei si applica anche la notte, perché lei sogna e talvolta i sogni diventano..
«No. Questo sta sotto, è la cucina. l'inconscio che lavora la notte, quando si sogna... Non si tratta di applicazione. Ma l'ispirazione è qualcosa che viene dall'esterno, mentre quello che faccio io viene da dentro. Può nascere da riflessioni provocate dalla vita, da cose che capitano, da tutta questa straordinaria qualità dei reale... Dunque, nessuna ispirazione! Soltanto applicazione!».
- Nei suoi film, succede tutt'a un tratto che lei prenda lo spettatore e lo trascini dentro il soprannaturale.
«Quando si è artisti, quando si creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Dal punto di vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è proibito non esserlo. Ma se si ha fiducia nelle proprie emozioni, allora si può essere del tutto incoerenti. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze delle emozioni che hai suscitato. Per sempre».
- Quali suoi film ama di più?
«Sicuramente "Persona". Poi “Il settimo sigillo": non è un granché ma ci sono affezionato perché ci ho investito tanto amore e immaginazione. Anche "Sussurri e grida" è un buon film... sì, ne sono orgoglioso. E poi "Luci d'inverno". Ecco. Sono tutti qui».
Olivier Assayas e Stig Björkman, tratto da «Conversazione con Bergman» Edizioni Lindau, 1994


7 commenti:

Roby ha detto...

Giuliano, ho appreso da te la notizia. Grazie per aver pubblicato l'intervista, che non conoscevo.

Abbracci&saluti

Roby

Giuliano ha detto...

L'intervista avrebbe avuto bisogno di un po' di correzioni, vista la data, ma ho preferito lasciarla così come era. L'originale è in un bel libro, molto lungo, che spero sia ancora in catalogo.

Faccio notare come il titolo redazionale sia fuorviante, perché Bergman dice "alcune volte me ne sono infischiato", ma lo dice ribadendo il suo amore per il pubblico: amore vero, perché Bergman nasce in teatro e nel teatro è sempre rimasto.

mazapegul ha detto...

Avete visto Fanny e Alexander? Bellissimo e falsissimo: Bergman fu antisemita negli anni '30, non certo l'amico di un mercante-mago ebreo; il padre vero era un innocuo pastore protestante, mentre nel film un vescovo luterano è il tremendo patrigno... Il film contiene una poetica della falsità ("mentire è dire il falso per trarne un vantaggio"), enunciata dal piccolo Alexander, l'alter-ego di Bergman.

Il film mi colpì per la sua disonesta onestà, che è poi (Bergman lo spera? lo crede? lo prende come giustificazione a posteriori? lo mette in faccia allo spettatore per farlo decidere per conto suo?) l'essenza dell'arte di finzione.

Giuliano ha detto...

Per Mazapegul:
Quello che riscatta Bergman è che non nasconde nulla. Nei suoi libri autobiografici ("Lanterna magica" è il primo) c'è tutto, quello che dici tu e anche altre cose sgradevoli di ambito familiare, ed è lui stesso a parlarne in prima persona.
Penso che prima o poi porterò qui due interviste, una con Liv Ullmann e l'altra con Lynn Ullmann: sua moglie e sua figlia. Il bello è che parlano male di Bergman, ma gli vogliono un gran bene. Il che, conoscendo la natura umana, non è poi così misterioso.
(Comunque, "Fanny e Alexander" non è autobiografico: è un'opera di fantasia)

Solimano ha detto...

"E' difficile essere un grande poeta bulgaro", disse Montale. Bene, Bergman è partito dalla Svezia, in anni in cui i film da guardare si facevano negli Stati Uniti, in Francia, in Italia, in Inghilterra e stop.
E al suo paese, alle sue attrici (soprattutto) e ai suoi attori è rimasto sempre fedele, evitando il cosmopolitismo generico e facendo invece un discorso univerale ma radicatissimo.
Vorrei rivedere soprattutto "Scene di vita da un matrimonio", non il film, ma la serie di telefilm (non mi ricordo se sei o dieci), che fece espressamente per la TV. A proposito della odierna TV spazzatura...
Vorrei rivedere "Scene di vita da un matrimonio" perché Bergman è stato unico nel descrivere (e vivere sulla sua pelle e su quella di chi lo ha amato, tante)il sentimento amoroso. Molti hanno fatto finta di raccontarlo, Bergman e pochissimi altri l'hanno raccontato e l'hanno vissuto. Questo si sente, si avverte in tutti i suoi film, compresi gli ultimi.
Le sue attrici, è vero che sono bellissime, è vero che sono bravissime, ma in loro c'è qualcosa che va oltre: si sentono amate - a volte anche odiate - da Bergman. Non da guardone, non con sentimentalismo coglione, non col cinismo di chi si chiama fuori (magari perché ha paura)ma con coinvolgimento di tutto, a partire dalla testa, sempre lucidissima, e che a volte - come no - racconta anche balle, ma sono le balle che in quel momento lui raccontava a sé, non quelle che architettava per noi, come hanno fatto - e fanno - tanti altri.

saludos
Solimano

mazapegul ha detto...

Caro Giuliano, e` vero che Fanny e Alexander e` un'opera di fantasia, ma e` anche un'opera psicanalitica: purtroppo non so nulla di psicanalisi e devo andare a tentoni. Il tremendo vescovo protestante e`, assai esplicitamente, una rappresentazione a formato gigante del padre, che pero` -come nelle favole- e` reso patrigno. Il padre vero del film e della psiche, quello desiderato, e` un attore che muore in scena. Dopo aver elevato il padre biologico reale a emblema del male e averlo al tempo stesso ridotto a patrigno, e` possibile ucciderlo senza problemi per la coscienza (anche se, come nei sogni, l'omicidio e` travestito da disgrazia). La madre giovane -e attrice- e` al tempo stesso l'oggetto del desiderio (psicanaliticamente) e anche la realta` a cui si vuole -fittiziamente- ritornare: la realta` e` che il mestiere di attore e` quello verso cui si procede a partire dallo status di figlio d'un pastore, non il viceversa.

Bergman mette a un certo punto un dialoghetto sul falso tra il vescovo e Alexander. Quel dialoghetto, e le bugie di Alexander, stanno li` a fare da poetica del film (il cinema e` finzione e bugia, caro vescovo!), ma sono anche una crepa che si apre nella teatrale rappresentazione psichica a cui stiamo assistendo: il mascheramento della realta` rischia di cedere sotto la pressione del padre, o dei sensi di colpa, o chissa`. Per fortuna, ben presto ci si sbarazzera` del vescovo e, in compagnia di Fanny e dell'amata madre, ci si potra` rifugiare in un mondo d'abbondanza (lo zio ristoratore!), senza padri.

Il film, in un certo senso, certifica uno stato infantile delregista: il rapporto col padre non viene ricucito; siamo ancora alla fase preadolescenziale.

Queste corrispondenza tra biografia e film, non so quanto solide, mi vennero in mente vedendo un film -non ricordo nè titolo nè regista- tratto da una sceneggiatura auto-biografica di Bergman. Vi si vedeva il regista fanciullo con modesto padre, un piccolo pastore la cui parrocchia in nulla assomigliava alla tremenda e onirica cattedrale di Fanny e Alexander. Mi parve allora che i due film si specchiassero, assai fedelmente, uno nell'altro -almeno sotto alcuni aspetti-, anche cinematograficamente, rovesciando significati, personaggi, eventi e tonalita` di colore nei loro opposti.

Con questo non intendo dire che Bergman sia minore perche` bugiardo, ma proprio il contrario: e` grande per l'abilita` e l'onesta` che ci mette nello scavare dentro la propria bugia, e, se vogliamo, per la profondita` della bugia stessa (che e` essa stessa una forma di verita` mentale). In un certo senso, Bergman non s'accontenta di dire "non e` bugia, e` finzione", come direbbe invece -quasi- qualsiasi altro regista o romanziere.

Ciao,
Nicola

Giuliano ha detto...

Caro Nicola, una decina d'anni fa ho letto - subito quando usciti - i libri di Bergman sulla sua vita e i suoi film, il primo dei quali è "Lanterna magica". Non so se tu abbia avuto il tempo di leggerli, tra un esame di matematica e l'altro: ma ti assicuro che Bergman non nasconde proprio niente, e per esempio il suo rapporto con il fisco è descritto con una evidenza di particolari della quale avrei fatto volentieri a meno (penso che il termine esatto sia "somatizzazione": le ansie col fisco si ripercuotevano sulla zona, diciamo così, addominale, del povero Ingmar...)