venerdì 31 agosto 2007

La leggenda della fortezza di Suram

Ambavi Suramis tsikhitsa, di Sergei Parajanov (1984) Sceneggiatura di Daniel Chongadze, Vaja Gigashvili Con Veriko Andjaparidze, Tamari Tsitsishvili, Dudukhana Tserodze, Dodo Abashidze Musica: Jansug Kakhidze Fotografia: Yuri Klimenko, Sergo Sikharulidze Rating IMDb: 7.5
Giuliano
Eravamo in quattro, in tutta la sala, il giorno che andai a Milano a vedere “La leggenda della fortezza di Suram”, nel lontano 1984. Uno qui, uno là, uno su, e io e io in mezzo, tra le poltrone vuote, quasi come se fosse una proiezione privata. Peccato per chi non c’era, mi viene da dire: perché i film di Paradzhanov – decisamente ostici per uno spettatore sprovveduto – sono semplicemente meravigliosi. Una festa per gli occhi, e anche per il cuore. Mai visti colori così belli e fantastici, scenografie e costumi presi direttamente dai nostri sogni più belli, e da un mondo di favola; e rituali da favola, principi e uomini comuni, donne innamorate, maghi e streghe, animali, bambini, case povere e regge favolose. Questo è un film che dovrebbero vedere tutti gli innamorati della grande pittura, di Michelangelo e di Firenze e di Urbino, gli affreschi del Masaccio e di Paolo Uccello, gli appassionati di miniature medievali e dei preraffaelliti, quelli che passeggiano per Venezia (o per Urbino, o per dove volete voi) con gli occhi ben attenti a catturare tutte le meraviglie che gli vengono poste davanti.
A questo punto,davanti a una simile meraviglia (che può essere opera solo di un pazzo o di un grandissimo artista, fate voi), la storia che viene raccontata, sia pur piena di fascino come un’antica fiaba, comincia ad avere poca importanza. Preferisco farla raccontare da un grande scrittore, lo jugoslavo Ivo Andric, che ne racconta una simile nel suo capolavoro, “Il ponte sulla Drina”:

(...) Sul ponte e sulla "porta", attorno ad esso o in relazione ad esso, scorre e si evolve, come vedremo, la vita degli abitanti della cittadina. In tutti i racconti che riguardano eventi personali, familiari o collettivi, si possono sempre sentire le parole "sul ponte". Ed infatti sul ponte della
Drina si svolgono le prime passeggiate infantili e i primi giuochi dei bambini. I figli dei cristiani nati sulla riva sinistra della Drina attraversano il ponte fin dai loro primi giorni di vita, dato che già la prima domenica vengono portati in chiesa per il battesimo. Ma anche tutti gli altri bambini, anche quelli che nascono sulla sponda destra e i musulmani, che non vengono affatto battezzati, trascorrono la maggior parte della fanciullezza in prossimità del ponte, come hanno fatto, un tempo, i loro padri e i loro nonni, pescando pesci accanto ad esso oppure cacciando piccioni sotto le sue volte. Fin dai primi anni di vita i loro occhi si abituano alle armoniose linee di quella grande costruzione di pietra chiara porosa, tagliata regolarmente e senza il minimo difetto. Conoscono tutte le rotondità e le incavature magistralmente disegnate, nonché tutti i racconti e le leggende connessi con l'origine e la costruzione del ponte, nelle quali si mescolano e si intrecciano in un bizzarro e inestricabile intrigo la fantasia e la realtà, la verità e il sogno.
E tutte queste cose sanno da sempre, inconsciamente, come se le avessero portate al mondo con sé, allo stesso modo che conoscono le preghiere. benché non ricordino da chi le hanno apprese e quando le hanno sentite per la prima volta. Sanno che il ponte è stato eretto dal gran visir Mehmed Pascià, nato a Sokolovici, un villaggio che si trova laggiú su una delle montagne che cingono il ponte e la città. Soltanto un visir avrebbe potuto procurare tutto quello che occorreva per costruire un simile durevole miracolo di pietra. (Il visir è qualcosa di stupendo, solido, terribile e confuso nella coscienza dei ragazzi.) L'ha edificato Rade l'Architetto, che avrebbe dovuto vivere centinaia d'anni se avesse veramente costruito tutto ciò che si trova di bello e di duraturo nelle terre serbe, maestro leggendario e in realtà anonimo che ogni massa si immagina e desidera, poiché non le piace di ricordare molte cose e di essere debitrice a molte persone, neppure nello spirito. Sanno che la costruzione è stata osteggiata dallo spirito del fiume, rosi come sempre e ovunque qualcuno ha contrastato ogni nuova costruzione, e che lo spirito stesso durante la notte distruggeva quel che si faceva di giorno.
Questo accadde finché "qualcosa" parlò dall'acqua, consigliando a Rade l'Architetto di trovare due fanciulli, gemelli, fratello e sorella, Stoja e Ostoja, e di murarli dentro il pilastro centrale del ponte. Subito ebbe inizio la ricerca di questi fanciulli per tutta la Bosnia. Venne promessa una ricompensa a chi li avesse scovati e portati. Alla fine i soldati trovarono in uno sperduto villaggio due gemelli, ancora poppanti, e li rapirono, forti del potere del visir; ma quando li trascinarono via la loro mamma non volle separarsi da loro, e, tra lamenti e pianti, insensibile agli improperi e alle percosse, se ne venne dietro a loro fino a Vísegrad. Qui riuscí a farsi largo tra la gente e si presentò all'Architetto. I bambini vennero murati perché non era possibile fare altrimenti, ma l'Architetto, stando a quel che si racconta, si impietosì e lasciò nei pilastri delle aperture attraverso le quali l'infelice madre poté allattare le sue creature sacrificate. Sono proprio quelle finestre cieche finemente disegnate, strette come feritoie, nelle quali adesso nidificano i colombi selvatici. In ricordo di questo episodio, già da centinaia di anni, cola dal muro il latte materno, cioè quei rivoletti bianchi e sottili che, in un determinato periodo dell'anno, sgorgano dalle giunture compatte lasciando indelebili tracce sulla pietra. (Lo spettacolo del latte muliebre suscita nella coscienza dei ragazzi qualcosa che le è fin troppo vicino e nauseante e, al tempo stesso, confuso e misterioso come i visir e gli architetti, qualcosa che sconcerta i bambini e li respinge.) Quelle incrostazioni lattee sulle colonne vengono grattate e vendute come polveri terapeutiche per le donne che non hanno latte dopo il parto. (...)
(Ivo Andric, Il ponte sulla Drina, all’inizio)


Queste leggende sui riti della fondazione di una città, o di un ponte, o di una fortezza, sono del resto antichissimi e comunissimi. L’antropologo Satriani raccontava che, ancora negli anni 70, trovò i muratori intenti a costruire la sua casa in Calabria che mettevano delle monete nelle fondamenta, prima di fare la gettata. La storia raccontata ha quindi un grandissimo fascino, ma è raccontata alla maniera dei sogni, oscura e poco comprensibile, con salti narrativi consistenti. Ma, come dicevo, poco importa: la storia della Fortezza di Suram me la sono quasi dimenticata, i suoi colori me li porto ancora dentro.

Fumetti d'agosto: Jam session finale

OdB
Solimano
Daniele Barbieri scrisse su Golem l'Indispensabile nel 2003 un bell'articolo in memoria di Oreste del Buono, scomparso da poco, e che era stato direttore di Linus per tanti anni.
Qui sotto riporto l'articolo di Barbieri, e lo accompagno con due sole vignette, ma di gruppo: in alto i Peanuts, sotto Walt Kelly. La vignetta in fondo è infatti ancora l'orchestrina di Kelly per la jam session finale, a chiusura dei Fumetti d'agosto. Fa bella mostra di sé Mam'selle Hepzibah, che abbiamo appurato essere moffetta, non puzzola, come certe male lingue vanno ancora propalando.

Caro OdB,
ho saputo che non eri più tra noi da una telefonata, in cui mi si chiedeva di parlare di te in una trasmissione radiofonica. La notizia mi ha addolorato, ma naturalmente non stupito. Sono cose che, quando si hanno ottant'anni, capitano con una certa frequenza. Persino a te. Mi stupisce di più, quasi, che non ti abbia salvato nemmeno la tua ironia, e il tuo protervo senso di autonomia intellettuale. Ho voglia di pensare che sia l'ennesima separazione da una rivista, e che presto ti ritroveremo a dirigerne un'altra...
Stavo per iniziare a scrivere per questa rubrica la recensione di un bel libro a fumetti, quando mi sono reso conto che senza di te, e senza quello che hai fatto nella vita, forse io non sarei qui a scrivere. Dunque la recensione può aspettare, ma questa lettera no. Non perché tu abbia fondato Linus, come scrivono, sbagliando, molti giornali. Questo onore va a Giovanni Gandini. Ma vi eri presente sin dal primo numero, intervistato insieme con Elio Vittorini da Umberto Eco. Poi, nel 1971, Gandini vendette la propria impresa a Rizzoli, e tu, socio di infima minoranza che conservava la propria quota, accettasti di esserne il direttore.
Così, il Linus che ho conosciuto io, adolescente, era quello che facevi tu, quello che pubblicava, oltre a Jeff Hawke e Li'l Abner, a Popeye e Valentina (che già aveva introdotto Gandini), Dino Battaglia e Hugo Pratt, Benito Jacovitti e Guido Buzzelli, e Hector Sapia, e Edward Gorey, e il grande Alberto Breccia. Ricordo ancora vividamente l'emozione che mi davano queste letture fantastiche e intriganti, che sembravano provenire da un altrove favoloso.
Crescendo un poco, e continuando a leggere Linus, mi rendevo conto che questo altrove così meraviglioso era più vicino a noi di quanto sembrasse. Era evidente, per esempio, che Altan disegnava Brandelli, mese per mese, con riferimento al Sandokan televisivo, e stava vivendo una realtà che anche io condividevo. E gli articoli che accompagnavano le strisce di Altan all'interno de L'Uno, il Settimanale Mensile che arrivava con Linus, erano un vero trait d'union con l'attualità che mi circondava. Perciò nell'aprile del '77 non mi stupii affatto di ritrovare su Alterlinus, nelle pagine di Andrea Pazienza, mio coetaneo, il racconto di quello che lui, esattamente come me, aveva vissuto a Bologna il mese prima, e che ancora andava continuando. Mi riconoscevo in quelle pagine non solo perché raccontavano qualcosa che stavamo vivendo, ma anche perché capivo che il loro autore aveva nei confronti del fumetto una storia simile alla mia, e una storia al cui centro c'era proprio Linus.
Caro OdB, hai seminato originalità e intelligenza per tutti i primi anni Settanta, sino a quando la mia generazione, alla ricerca di una forma di comunicazione non compromessa col potere, ha creduto di riconoscerla in quello che tu ci eri andato proponendo: il fumetto, un medium di enormi potenzialità evocative, economicissimo da realizzare e quindi potenzialmente libero da compromessi col potere economico. Davvero, l'immaginazione al potere!
E l'immaginazione della generazione di fumettisti che andava nascendo di potere ne aveva da vendere. Potere fantasmatico, certo, potere letterario. Quelli che dovevano diventare famosi negli anni successivi, e anche i tanti che non lo sono diventati soltanto perché non hanno retto - perché lo spazio per il fumetto, in Italia, era poco e sarebbe stato ancor meno negli anni successivi: non bastava essere bravi - tutti costoro sono passati da Linus o da Alter: Andrea Pazienza, Filippo Scozzari, Lorenzo Mattotti, Daniele Brolli, Igort, Giorgio Carpinteri, Ugo Bertotti, Marcello Jori, Sergio Staino, Daniele Panebarco... Smetto di elencare, perché sto solo affastellando nomi che mi balzano davanti agli occhi, e più me ne escono, più mi rendo conto di quanti altri ne dovrei citare. Fu davvero un'esplosione di talenti - sorretta da un pubblico che capiva quello che gli veniva proposto, e condivideva con gli autori il medesimo retroterra.
Insomma, hai seminato originalità e intelligenza per tutti i primi anni Settanta, e hai iniziato a raccoglierla, moltiplicata, verso la fine. Non è stato facile. Me ne rendo conto rileggendo gli editoriali che scrivevi, in apertura di rivista, nei quali emergono le critiche, le decisioni rispetto alle opportunità del momento; laddove cioè si vede l'emergenza di tutte quelle contingenze che la storia, in seguito, tenderà a dimenticare, ma che al momento presente possono condizionare l'azione, e finire per toglierle il senso complessivo. E invece ecco la squisita cocciutaggine del tuo disegno: fare una rivista in cui l'intelligenza e la critica fossero sovrane, a dispetto - talvolta - perfino delle richieste del pubblico, che la voleva - chi più, chi meno - politicamente impegnata, chi con più fumetti e chi con più articoli, chi con più fumetti tradizionali e chi con più fumetti nuovi. Ricordo le tue difese di Al Capp e di Jacovitti, accusati (e, almeno nel caso del primo, non a torto) di essere di destra, un'accusa infamante in quegli anni. Ma Al Capp restava un autore di grande rilievo, ancora geniale nella sua demenziale forma di critica sociale: e allora meglio un genio di destra, capace comunque di farci vedere e capire cose, che qualche mediocre disegnatore di sinistra!
D'altra parte, pubblicavi Chiappori, Pericoli e Pirella, Lunari e Altan, e quindi eri politicamente al di sopra di ogni sospetto - e ti potevi tranquillamente permettere di dichiarare che votavi PCI, rischiando di alienarti buona parte dei tuoi lettori, schierati allora molto più a sinistra.
Eppure, nonostante i litigi, sei stato molto amato da tutti i fumettisti italiani, oltre che da tutti coloro che di fumetto si sono interessati. Persino la geniale malalingua di Filippo Scozzari, costituzionalmente votata a dire cattiverie di tutti, si è rammaricata pubblicamente più volte, in passato, di aver avuto qualche diverbio con te.
Quando ti hanno richiamato a Linus, nel 1995, in tanti abbiamo sperato che la magia potesse riprendere. In effetti ci hai provato, con l'entusiasmo della prima volta. Ma i tempi, evidentemente, erano cambiati.
Grazie lo stesso, OdB. Senza quello che hai fatto, questa rubrica non avrebbe né il suo autore né i suoi lettori, che essi lo sappiano o no. Hasta la victoria, siempre!


The suspect, ovvero l'arte di Charles Laughton

The Suspect, di Robert Siodmak (1944) Sceneggiatura di Arthur T. Horman, Bertram Millhauser, James Ronald Con Charles Laughton, Ella Raines, Molly Lamont, Stanley Ridges, Henry Daniell, Rosalind Ivan (85 minuti) Musica: Frank Skinner Fotografia: Paul Ivano Rating IMDb: 7.7
Ottavio
All’inizio della vita di questo blog avevo inserito il post di Rashomon scrivendo che nella mia personale classifica questo film occupava un posto tra i primi cinque.
(Mi ha fatto piacere a questo proposito riscontrare che Rashomon era anche uno dei sei titoli che rappresentavano un campionario essenziale di film d’autore per Michelangelo Antonioni, gli altri cinque essendo La regola del gioco di Jean Renoir (1945), Quarto potere di Orson Welles (1941), Sfida infernale di John Ford (1946), Perfidia di Robert Bresson (1945) e Otto e mezzo di Federico Fellini (1963). Il che mi ha anche fatto capire quante lacune ci sono nella mia cultura cinematografica avendo visto tra i citati, oltre al film di Kurosawa, solo quello di Fellini).
Oggi vorrei applicare il criterio dei primi cinque nel ranking personale agli attori, e per non avere l’imbarazzo di stilare una precisa graduatoria dirò solamente che uno dei cinque è sicuramente Charles Laughton. Ho visto solo alcuni film della sua lunga carriera (da L’ammutinamento del Bounty del 1935 dove interpreta il sadico capitano Bligh a Il caso Paradine del 1947, da Testimone d’accusa del 1957 a Sotto dieci bandiere del 1960) e in tutti mi è sembrato un attore straordinario. Intanto perché si immedesima meravigliosamente con il personaggio, anzi nelle sue interpretazioni si compiace di enfatizzarne i lineamenti del carattere, e del comportamento, positivi o negativi, rendendolo così assolutamente autentico. Non è bello come un divo di Hollywood e la sua corporatura è imponente: dall’aspetto potrebbe essere un buon caratterista; ma il suo sguardo è penetrante, malizioso e sarcastico, la sua straordinaria espressività e la sua grandissima personalità lo destineranno a interpretare personaggi di rilievo, a volte cinici e crudeli, a volte comici o grotteschi, o tormentati da un'intima inquietudine.
Sarà un grande attore, di cinema e di teatro (memorabile la sua interpretazione nel Galileo di Brecht).
Per “portare” Charles Laughton in questo blog utilizzo un film “minore”, “The suspect” che Robert Siodmak girò nel 1944 e che ho visto qualche anno fa in un passaggio televisivo. (Deve esistere anche un titolo italiano che non ricordo, ma che non è Il sospetto, titolo italiano di un film di Hitchcock).
In questo film, un noir ambientato nella Londra di inizio ‘900, piena epoca vittoriana quindi, Laughton è Philip Marshall, signore di mezza età che nella vita fa il direttore di un negozio ed ha una moglie brutta, bisbetica e brontolona, che sopporta con britannica rassegnazione.
Per sua fortuna (o sfortuna?) un giorno incontra una giovane donna meravigliosa e disoccupata (Ella Raines) che gli si rivolge per un lavoro. Lui cerca di aiutarla e inevitabilmente se ne innamora, ricambiato (e qui si vede come uno con la faccia e il corpaccione di Charles possa essere dolce e delicato). Naturalmente è un amore platonico, come d’uso ai tempi della Regina Vittoria. Deciso a riscattare la sua vita grigia, Charles-Philip scopre ben presto che la moglie non gli concederà mai il divorzio e allora approfitta di una situazione favorevole per liberarsene (diciamo che l’aiuta a cadere dalle scale). Purtroppo il delitto non è risolutivo a causa dello scrupolo di un detective di Scotland Yard e perché un vicino intuisce la verità e lo ricatta. Così è “costretto” ad uccidere anche il vicino, con il veleno, ma per questo omicidio viene incriminata la di lui moglie. A questo punto Charles avrebbe via libera e prepara la partenza sua e dell’amata per la Francia, dove cominciare una nuova vita, ma, sopraffatto dal rimorso di vedere condannare un’innocente e convinto dal suo profondo “british” senso di giustizia, rinuncia al viaggio lasciando l’amata al suo destino e si consegna alla polizia. Indimenticabile la scena in cui Laughton, impeccabilmente vestito e con bastoncino di bambù roteante, scende dal traghetto che lo avrebbe trasportato al sicuro, e si dirige verso Scotland Yard.
Il film, come ho detto, è solo un episodio nella lunga carriera di Laughton. E’ un prodotto ben confezionato, diretto ed interpretato: sarebbe solo un buon prodotto artigianale se non ci fosse lui. Un grande attore fa grande anche il film.

Ella Raines nel film The Suspect

giovedì 30 agosto 2007

La musica al cinema: The Doors

Giuliano

The Doors, di Oliver Stone
Nel film di Stone, non è Jim Morrison che canta: è Val Kilmer. Sembra impossibile, ma quando uscì il film la produzione decise che le incisioni originali non erano tecnicamente all’altezza. Che dire: sono incisioni degli anni 60-70, mica Caruso. Non le ha fatte Edison, ma gli studi già molto bene attrezzati delle grandi compagnie discografie. Per dire: ho qui in casa il Lohengrin diretto da Kempe, e l’Ottava di Bruckner diretta da Karajan, due registrazioni più o meno dello stesso periodo di “Light my fire”, e suonano ancora benissimo. Duecento persone che suonano e cantano nello stesso momento, tra coro e orchestra: Jim Morrison e i suoi compagni erano solo in quattro...
Preferisco pensare che dietro ci siano problemi di diritti d’autore da pagare, faccio finta di niente, decido di fidarmi di Oliver Stone e vado lo stesso al cinema, dove però mi attende una sorpresa. Il cinema è pieno di ragazzi molto giovani, sui 15 anni e dintorni. Io sono l’unico sopra i 30, o quasi. Tutta gente che non era ancora nata, nel 1969-70: anche per me Jim Morrison era roba da fratelli maggiori, ma almeno io c’ero.
Il film è del 1990, e intanto sono passati quasi vent’anni; ma il mito di Jim Morrison continua. Ecco, a parte Jim Morrison che se lo merita, mi chiedo cosa sia successo alla musica in tutti questi anni. Conosco ragazze di diciott’anni che sanno a memoria le canzoni di Battisti e Baglioni, per esempio: roba di quarant’anni fa. Una cosa inconcepibile per uno della mia età: per me e per la mia generazione interessarsi a Claudio Villa e Nilla Pizzi (roba di 10-15 anni prima, non quaranta) era impensabile; idem per Frank Sinatra o Elvis Presley, roba da vecchi signori. Sulla musica ho le mie opinioni, ma me le tengo (le ho già espresse in altra sede); qui vorrei parlare un po’ del film, e dei Doors.
Il film è bello, e Val Kilmer è molto bravo, anche come cantante: sembra davvero di vedere Jim Morrison. Si rimane certo un po’ delusi, perché in questi casi (biografie di personaggi famosi) ognuno si aspetta di trovare qualcosa di suo, e bisogna invece adattarsi alla visione di un altro. Fatta questa tara, ero soddisfatto: ma ormai ero troppo vecchio per la vecchia favola del Re Lucertola e di “we want the world and we want it NOW!”. La parte migliore del film, rimasta inespressa, è quella iniziale, la profezia del vecchio indiano morente davanti a Jim bambino. Stone sembra un po’ aver paura di questa parte, e nel resto del film (forse anche per motivi di produzione, commerciali: la paura di fare un film troppo complicato per il pubblico a cui era rivolto) la mette volentieri in disparte, limitandosi a qualche accenno.
Rimane qualcosa da dire sui Doors: la loro musica non è rock, e Jim Morrison non è propriamente un cantante. Morrison ha origini simili a quelle di Leonard Cohen (da lui diversissimo): nasce come poeta e attore, declamatore dei suoi versi nel bel mezzo degli anni ’60. Poi si unisce a Ray Manzarek, pianista e organista (il biondo, nel film), e nasce il mito di questo gruppo così violento e trasgressivo: violento e trasgressivo nei contenuti, più che nella musica e negli aspetti esteriori. Gli arresti di Morrison per atti osceni e per droga sono rimasti nella memoria collettiva, ma – se si guarda ai filmati d’epoca – i Doors sono solo una band che suona, niente effetti speciali e niente mascherature. Tutto il fascino sta in Morrison, e in un particolare tutt’altro che secondario: i Doors hanno un debito fortissimo verso Kurt Weill, e quindi verso Bertolt Brecht.
Il cabaret tedesco (Kabarett: niente a che vedere con i comici tv) riceve il giusto omaggio (una dichiarazione d’intenti?) nel primo disco del gruppo. Sul lato A, subito prima di “Light my fire”, c’è “Alabama song”: testo di Bertolt Brecht, musica di Kurt Weill. Da “Ascesa e caduta della città di Mahagonny”, Berlino, 1930: « O show me / the way to the next / whiskey bar... / Oh, don’t ask why...»

Omaggio a Billy Wilder

Solimano
Brianzolitudine mi ha segnalato due sonetti di omaggio a Billy Wilder pubblicati ieri da Mullah-Nasrudin. Non ho mai visto il film "The lost week-end", ma "The apartment" lo conosco bene e l'ho rivisto di recente: Mullah descrive con molta esattezza la situazione di Miss Fran Kubelik (Shirley McLaine) in un punto drammatico del film. Riporto qui i due sonetti, che mi sono veramente piaciuti e ringrazio Brian e Mullah. A buon rendere.


Omaggio a Billy Wilder

I Giorni Perduti

Mi chiamo Mario, e sono un alcolista,
ho incominciato a bere per amore,
perchè l'avevo perso, e dal timore
che da quel giorno non l'avrei rivista.

Seguivo la carriera da pianista
ma smisi nel delirio del tremore:
bevevo di nascosto ogni liquore
pensarci ancora adesso mi rattrista.

Quando provai a smettere da solo
vidi formiche, insetti e scarafaggi
a zampettarmi addosso, e sulle mani:

adesso ne son fuori, e mi consolo
di non annoverarmi tra gli ostaggi
del male oscuro, piaga degli umani.

Ispirato a “The lost week-end”, 1945


Da Sola (Fran)

Da sola in questa casa di nessuno
con te che sei uscito da mezz'ora
tornando dai tuoi figli, e mi divora
l'angoscia di pensarti con qualcuno:

il nostro stare insieme è inopportuno,
lo so da sempre, e adesso più di allora,
la vedo, sai, tua moglie, che assapora
la cena di Natale, e io a digiuno.

Per farmi compagnia ascolto il disco
col jazz di quel locale fuorimano,
regalo accolto senza una parola:

me l'hai lasciato, e ancora non capisco
se nutro una speranza, oppur se è vano
cercare un senso all'esser qui da sola.

Ispirato a una scena di “The Apartment”, 1960

Achille Campanile al cinema

Giuliano
Sono qui da mesi e mesi a rovistare tra i miei libri di Achille Campanile (li ho letti quasi tutti), ma un “Achille Campanile al cinema” non l’ho ancora trovato. C’è moltissimo teatro, in Campanile; c’è molto Rossini, a partire dai titoli (“Ma che cosa è questo amore” è un verso dal “Barbiere di Siviglia”), c’è una favolosa gita a Capri, c’è una decrittazione dal geroglifico, c’è il Giro d’Italia, insomma c’è tutto – ma di cinema non si parla mai. Campanile ha fatto perfino il critico televisivo, ma parla davvero di tv e quindi non mi è di aiuto.
E’ per questo che mi vendico prendendo questo clamoroso e drammaticissimo racconto, e portandolo qui: se non è cinema questo! (Ma, se la Luna mi porta fortuna, prima o poi Campanile che si siede al cinema da spettatore e guarda un film lo trovo, state sicuri che lo trovo...)

La squadriglia della morte
« Mi viene in mente » disse il capitano Zadaras, dominando con la voce il clamore confuso della fumosa bettola « quella volta che organizzai e comandai in tempo di guerra la squadriglia della morte. »
« La squadriglia della morte? » esclamai, sentendo crescere in me l'ammirazione per quel tipo di rude soldato che io avevo visto soltanto in quel locale, alle prese con bottiglie (pagate da me) ma che, stando ai suoi racconti, aveva compiuto nella propria vita imprese strabilianti.
« La squadriglia della morte. » ripeté lui,
Si riempì il bicchiere, mentre io seguivo con inquietudine il progressivo abbassarsi del livello nella bottiglia e spiegò, dopo aver tracannato d'un fiato :
« Una squadriglia d'uomini decisi a tutto pur di raggiungere l'obbiettivo; d'uomini, insomma, votati alta morte. E’ evidente che di tali uomini non se ne trovano molti. Molti sono pronti ad affrontare il pericolo di morire, ma pochi la certezza. Cosicché la mia squadriglia era composta d'un limitato numero di eroi, ed io ne fui il capo.»
Non potei reprimere un gesto d'ammirazione.
«Quale il capo, tali i gregari » mormorai.
Zadaras ebbe un piccolo gesto di modestia, riempì di nuovo il bicchiere, tracannò.
« Ora, » aggiunse « si presentava un problema: se fossero morti i componenti la squadriglia della morte, come si sarebbe fatto? Ragion per cui: "State attenti," raccomandavo ai miei uomini "evitate di esporvi ai pericoli, altrimenti qui si resta senza squadriglia della morte". La cosa era evidente: una volta sacrificati tutti i componenti della squadriglia, dove trovare altri uomini decisi a tutto? »
Il ragionamento non faceva una grinza.
« Penai un poco » proseguì il turbolento capitano alzando la voce per dominare il tumulto delle risse che scoppiavano qua e là nel locale « a far penetrare questo concetto nelle menti dell'alto comando, ma alla fine ci riuscii. Quei generali, aderendo alle mie vedute, non tardarono a convincersi che, una volta perduti i componenti la squadriglia della morte, sarebbe stato assai difficile trovarne altri, poiché tipi decisi a tutto non s'incontrano a ogni passo. E che pertanto conveniva risparmiare i miei uomini. Penetrato questo concetto nelle menti dei generalissimi, i miei uomini furono, come suol dirsi, tenuti nella bambagia; tutte le cure furono per essi, tutte le precauzioni, per salvaguardare le loro preziose esistenze. Quando si trattava di compiere un'impresa disperata per la quale fosse necessario un gruppo di valorosi votati al sacrificio supremo, l'alto comando m'interpellava: "Mandiamo la squadriglia della morte?". "Siete pazzi?" dicevo. "Così restiamo senza". "È vero" dicevano i generali. "Restare senza squadriglia della. morte sarebbe una grave perdita per l'esercito." »
« Lo credo bene. »
« Così, dopo ponderati conciliaboli, quei generali concludevano: "Mandiamoci altri". »
« Era più che giusto » osservai.
« Certe volte, » proseguì Zadaras « il comando ci telefonava la mattina, mentre eravamo ancora a letto: "C'è da compiere un'impresa in cui si lascia la pelle. Andate!". E noi: "Bravi. E quando ci avremo lasciato la pelle, ci sapete dire chi compierà le imprese in cui si lascia la pelle?". "Già, è vero," ci dicevano i generali "allora non movetevi. Riguardatevi." In conclusione, fummo tenuti lontano da ogni pericolo, al riparo dai raffreddori, in riposo, al coperto. Precauzione necessaria, vista la difficoltà, ripeto, di sostituirci. E soltanto finita la guerra, alla squadriglia della morte fu permesso di uscire dai ricoveri ed esporsi alle intemperie. »
Il capitano Zadaras vuotò ancora una volta il proprio bicchiere e concluse, con lo sguardo inseguendo lontani fantasmi : « Ah, sì, sì. Il più calmo, piacevole e riposato periodo della mia vita lo trascorsi in qualità di comandante della squadriglia della morte. E lo ricordo con profonda nostalgia ».
(Achille Campanile, da “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima”)

P.S. Le immagini sono del film Top Gun (1985) (s)

I luoghi del cinema: Il grande silenzio

Roby
Quelle di quest'anno, senza dubbio, sono state per me delle vacanze davvero cinematografiche. Non contenta di aver visitato i luoghi dello sbarco in Normandia, teatro de Il giorno più lungo, sulla via del ritorno mi sono fermata nei pressi di Grenoble, vicino al paesino di Saint-Laurent, dove sorge l'abbazia della Grande Chartreuse. Qui Philip Groening ha girato, con infinita pazienza (una pazienza che potrei definire da certosino, se non sapessi di cadere nel facile gioco di parole) il recente film-documentario Il grande silenzio, nel quale osserva e riporta i dati relativi alla vita monastica con occhio per metà da mistico ispirato e per metà da entomologo minuzioso. Il film, da più parti osannato come un capolavoro assoluto, personalmente non mi ha entusiasmato, mentre il luogo, al contrario, mi ha colpito molto. Già la via d'accesso al sito del complesso monastico è suggestiva, stretta tra gole e costoni di roccia che immagino particolarmente affascinanti in inverno, ricoperti di neve. Sopra l'arco di una galleria, faticosamente scavata nel fianco della montagna, una pomposa lapide ricorda Monsieur XYZ, che fece aprire quella strada intorno al 1890, in qualità di soprintendente ai lavori pubblici, con sforzo senz'altro notevole soprattutto da parte dei suoi (ahimè ignoti) operai. Ai lati, la tipica vegetazione ad alto fusto, mentre giù in fondo s'indovina lo scorrere rapido e tortuoso di un torrente. Infine, ecco che lo spazio si allarga, lasciando apparire una serie di costruzioni collegate fra loro e recintate da mura bianche: è la foresteria del convento, trasformata in museo e luogo di accoglienza per i turisti, dato che la Chartreuse vera e propria -raggiungibile solo a piedi attraverso un sentiero di circa 2 km- non è visitabile dal pubblico (cosa, questa, a mio parere estremamente saggia).


Nella foresteria, del resto, il clima raccolto e meditativo del monastero è molto ben presentato, esponendo l'arredamento tipico delle celle di clausura, i libri, le immagini sacre e gli oggetti d'uso quotidiano senza fronzoli e senza eccessi mistici: anzi, con una certa semplicità quasi ingenua che mi ha in parte riconciliato anche con il film, spingendomi quasi a considerare l'ipotesi di rivederlo in dvd (soluzione, tra l'altro, molto vantaggiosa per chi voglia velocizzare un po' le tre ore e passa di pellicola). Nell'ultima sala, prima dell'uscita, scorrono su uno schermo le immagini delle interviste ad alcuni monaci, girate -presumo- dallo stesso Groening. La conoscenza del francese mi permette di cogliere il significato delle parole, ma ho la netta impressione che il vero messaggio non sia quello verbale: è l'espressione serena dei volti, la luce fiduciosa negli occhi, il sorriso tranquillo a colpire. Questi uomini hanno l'aria di aver raggiunto qualcosa che alla maggioranza sfugge. O che, forse, alla maggioranza non si addice. In ogni caso, mi trovo ad invidiare la loro pace, per quanto sappia che non potrei mai condividerla. Ed è con un misto di sollievo e di inquietudine che oltrepasso il cancello per tornare alla vita secolare: incrociando -manco a farlo apposta- un'orda di miei connazionali vocianti, i quali, armati di macchine digitali, cellulari con fotocamera ed mp3, si apprestano baldanzosamente a violare il grande silenzio dell'abbazia...

mercoledì 29 agosto 2007

La lettrice

La Lectrice, di Michel Deville (1988) Dal racconto di Raymond Jean, Sceneggiatura di Michel e Rosalinde Deville Con Miou-Miou, Régis Royer, Maria Casares, Patrick Chesnais, Pierre Dux, Christiane Ruché, Brigitte Catillon, Marianne Denicourt, Charlotte Farran, Clotilde de Bayser, Maria de Medeiros (98 minuti) Musica: Ludwig van Beethoven Fotografia: Dominique Le Rigoleur Rating IMDb: 7.2
Solimano
Alcuni anni fa uscì la Collection du Cinema Français, una serie di VHS con i film in francese e sottotitoli non italiani, ma anch'essi in francese. Fu una ottima idea, il prezzo non era esoso e mi pento di non avere comprato tutta la serie: i titoli erano scelti con intelligenza.
Avere poi i sottotitoli in francese era la cosa migliore, perché diventavano un eventuale supporto al parlato, mentre, se fossero stati in italiano, l'immersione nella lingua non sarebbe stata totale. Adesso, con i DVD, si fa a volte un passo in più: si può cominciare con i sottotitoli in lingua originale e poi rinunciarvi, così le immagini non sono sporcate dai caratteri. Quindi non è vero che tutto va sempre peggio.
Fra questi film c'è "La lectrice" di Michel Deville, del 1988, che ho rivisto ieri sera.
Ci sono almeno tre ragioni, per vedere e rivedere questo film.
La prima ragione è che sono presenti i libri, non solo i libri come oggetto, ma per quello che c'è dentro, cosa necessaria per gli appassionati lettori di cui faccio parte. Sono molto rari, i film così.
La seconda ragione è che l'ambientazione ad Arles è perfetta: la lettrice cammina per piccole strade andando da un cliente all'altro, è inverno, e sembra che il regista abbia persuaso gli abitanti a chiudersi in casa: si vede solo Marie (Miou-Miou) caminare con quella sua singolare eleganza un po' anarchica, di viso, di corpo e di vestito.
La terza ragione è che Marie, mentre cammina, è accompagnata dalla musica di Beethoven, musica da camera, specie sonate per pianoforte. A disdoro di IMDb va detto che non dà il consueto soundtrack listing, e, cosa ancora più grave, i nomi dei brani non compaiono neppure nei titoli di coda del film, ma credo di aver riconosciuto la sonata Sturm, quella Waldstein e forse anche Les Adieux.

Marie ha scelto di intraprendere il mestiere di lettrice e mette una inserzione sul giornale. In poco tempo ha cinque clienti: un ragazzo paralitico sulla carrozzella, a cui legge Zola e poi Baudelaire, un dirigente d'azienda molto preso dal suo lavoro, a cui legge L'amante della Duras, una anziana vedova di un generale, persona vivacissima e piuttosto folle (Maria Casares), a cui legge Marx, Lenin, Gorkj e Guerra e pace, una bambina, che la madre lascia spesso sola, a cui legge Alice nel paese delle meraviglie, e un magistrato in pensione, persona che sembra compitissima, che quasi la costringe a leggere il Marchese de Sade. Ma fare la lettrice è un mestiere pericoloso, perché l'eccesso di coinvolgimento specie sessuale si verifica quasi sempre, così Marie, alla fine del film, si ritrova per ragioni diverse e simili ad abbandonare il mestiere che sapeva fare così bene, sia per la voce che per l'aspetto.
Tutta questa storia è inserita all'interno di un'altra storia: quella di Costance, che alla sera, in letto, legge al suo amico il libro da cui è tratto il film. E' una finezza ironica fra le tante del film, che ogni tanto eccede, ma con grazia: le calze nere che si mette Marie richiamano alla mente certi quadri o manifesti di Toulouse-Lautrec, e la lettura prolungata (e a me assai gradita) di brani di Prevert sa un po' di quell'anarchismo romantico che andrebbe preso, sì, ma a piccole dosi. Come sa di anarchia la reazione di Marie quando il magistrato si fa trovare, la seconda volta, in compagnia col direttore dell'ospedale e con il capo della polizia, per farle una specie di violenza morale di gruppo costringendola a leggere Sade mentre loro la ascoltano. Per questi motivi, qualcuno ha tacciato il film di intellettualismo, una accusa che in genere a me fa venire il sangue alla testa, perché so che cosa c'è dietro, in chi la dice: una ignoranza, anzi ignorantaggine che si sente minacciata nelle sue stente sicurezze e passa all'offesa, non sapendo o potendo ragionare.
Infine, nel film c'è Miou-Miou, che non ho mai capito perché ha adottato un nome così strano. Non è mai stata una star, ma si è costruita una bella carriera, e la si ricorda facilmente per due motivi. Il primo è che non c'è film che abbia fatto in cui Miou-Miou non compaia nuda (succede anche qui), ma lo fa sempre con naturalezza totale, senza timidità né esibizionismo, se non quello giusto di mostrare come è bella. Il secondo per la sua strana qualità di recitazione, più straniata che identificata. In questo film che a suo modo ha un risvolto avventuroso, sembra che Miou-Miou si faccia sì coinvolgere, ma che nello sguardo e sulle labbra brilli un "Non mi avrete mai del tutto!" E a me le persone così piacciono, mi ci ritrovo, non mi diverto né nell'avere né nell'essere avuto.

La musica al cinema: Fitzcarraldo

Fitzcarraldo, di Werner Herzog (1982) Con Klaus Kinski, José Lewgoy, Miguel Angel Fuentes, Paul Hittscher, Huerequeque Enrique Bohorquez, Grande Otelo, Peter Berling, David Pérez Espinosa, Milton Nascimento, Ruy Polanah, Claudia Cardinale (158 minuti) Musica: Popol Vuh, Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Vincenzo Bellini, Richard Strauss Fotografia: Thomas Mauch Rating IMDb: 8.0
Giuliano
Werner Herzog costruisce Fitzcarraldo intorno al mito di Enrico Caruso, il che può sembrare ben strano per un film ambientato in Amazzonia. Ma così è, e il film è pieno di musica.
Quando si inizia, il protagonista (Klaus Kinski, cioè Brian Sweeney Fitzgerald, detto “Fitzcarraldo” dagli indigeni) ha remato sul fiume due giorni e due notti per giungere a Manaus, dove è stato costruito un magnifico teatro d’opera (c’è ancora) e dove sta per esibirsi Enrico Caruso. Giunge in ritardo, non vorrebbero farlo entrare, ma poi la maschera cede e così Fitzcarraldo, con la sua compagna Molly (Claudia Cardinale) può assistere al finale dell’Ernani di Giuseppe Verdi.
Caruso muore nel 1921, e quindi siamo ad inizio Novecento. Herzog mette in scena una curiosità storica: accanto a Caruso, sul palcoscenico, non c’è la cantante (che è nascosta in mezzo all’orchestra) ma l’attrice francese Sarah Bernhardt. Due attrazioni al prezzo di una, verrebbe da dire: un bel pasticcio che però piace. Ma Caruso è in piena voce, mentre la Bernhardt (che Herzog fa interpretare da un mimo) si è già trascinata per tutto l’Ottocento, è vecchia e stanca, e a questo punto della sua vita le manca anche una gamba. E infatti vediamo Caruso che, temendo che possa cadere mentre avanza verso di lui dal fondo del palcoscenico, le va incontro e la sostiene.
Non è la voce di Caruso quella che stiamo ascoltando, è quella di Veriano Luchetti; e stiamo assistendo al finale dell’Ernani di Giuseppe Verdi (1844) in un’ottima versione, dove oltre al tenore Luchetti cantano Mietta Sighele e il basso Dimiter Petkov. Un cast di tutto rispetto, tre cantanti che riempivano normalmente i teatri negli anni 80. Un po’ più anonima, ma di buon livello, l’orchestra: la Filarmonica Veneta diretta da Giorgio Croci. Tutti quelli che vedete in questa scena sono attori, e non cantanti: ben scelto per somiglianza fisica l’attore che interpreta Caruso, mentre la cantante inquadrata per un attimo nella fossa orchestrale non è Mietta Sighele e nemmeno le somiglia. Sarah Bernhardt, poveretta, è invece interpretata da un mimo: un uomo, che ne fa una versione caricaturale. Purtroppo per noi, temo che non fosse molto lontano dalla verità – ma di Sarah Bernhardt ci è rimasto ben poco.
La vera voce di Caruso si ascolta più avanti, per sette volte nel corso del film; e sono incisioni effettuate tra il 1902 e il 1906, come specificano i titoli di testa. In ordine di apparizione:
1) Leoncavallo, i Pagliacci (quando Fitzcarraldo è con i bambini) 2) Meyerbeer, L’Africana (al ricevimento) 3) Massenet, Manon : nel fiume, la romanza “sparata” contro gli indios 4) Verdi, Rigoletto: Bella figlia dell’amore, ancora contro gli indios. 5) Puccini, La Bohème: “O Mimì tu più non torni”, il duetto che apre l’ultimo quadro, per la salita della nave lungo la collina. 6) Ancora “Bella figlia dell’amore”, per il varo della nave all’altro capo della collina. 7) “Lucia di Lammermoor” di Donizetti, per la discesa delle rapide, alla deriva, dopo che gli indios hanno tagliato gli ormeggi.

Herzog fa volentieri lo spiritoso, nella scelta di questi brani. Per chi non conosce l’opera, traduco le battute si spirito di Herzog: l’opera di Meyerbeer si riferisce a Vasco de Gama e ai suoi viaggi, e dice: «O nuovo mondo, tu m’appartieni»; nell’aria di Massenet, nel bel mezzo del fiume, quando gli indios si acquattano minacciosi nella foresta vergine, Fitzcarraldo fa cantare al delicato cavaliere settecentesco Des Grieux l’aria in cui l’innamorato si immagina di vivere con la sua Manon in una casetta piccola piccola, ma tanto felice. E, nel finale, quando la nave è ormai ingovernabile e alla mercé delle correnti del fiume, sceglie il concertato dalla Lucia di Lammermoor: che inizia con le parole “Chi mi frena in tal momento” (ma Herzog, con una piccola finezza, parte dalla strofa successiva e queste parole non si sentono).
Fitzcarraldo non riuscirà a costruire il teatro a Iquitos, ma riuscirà a portarvi una vera compagnia operistica, orchestra compresa: è il finale del film. L’opera è “I puritani” di Vincenzo Bellini, il concertato che segue “A te o cara”. E’ una buona esecuzione di un’opera molto impegnativa, eseguita da musicisti che non conosco: l’Orchestra Sinfonica del Repertorio, di Lima, e la Camerata Vocale Orfeo, direttore Manuel Cuadro Barr; cantanti Isabel Jimenez de Cisneros, Liborio Simonella, Jesus Goiri, Christian Mantilla.
La musica originale è stata composta dal gruppo tedesco dei Popol Vuh, molto gradevole, di ispirazione vagamente etnica. La partenza della nave e la risalita del fiume, con i meravigliosi notturni amazzonici, sono accompagnate dalle note di “Morte e Trasfigurazione”, un poema sinfonico del bavarese Richard Strauss scritto nel 1889: che non va confuso con gli Strauss viennesi, con i quali non ha niente da spartire.

Fumetti d'agosto: Saul Steinberg

Solimano
Nel numero di Linus dell'agosto 1970, l'articolo di apertura è di Franco Cavallone e si parla di Saul Steinberg (1914-1999), che era nato in Romania e nel 1933 studiava architettura al Politecnico di Milano. Già allora collaborava con vignette al Bertoldo. Ma nel 1941, a causa della campagna antisemita, si trasferì clandestinamente negli Stati Uniti, e cominciò da subito a collaborare col famoso New Yorker, operando anche nei servizi di intelligence americani nell'Estremo Oriente.
Nell'articolo di Cavallone ci sono due interessanti risposte di Steinberg fornite durante una intervista televisiva che gli aveva fatto Sergio Zavoli nel 1968.

Perché ha dichiarato che l'America è il suo paese?
"Proprio perché qui non si fanno tante storie! Non ci si illude, in America, che la vita sia una cosa romantica, una cosa che si possa recitare a soggetto. Qui la vita è veramente quella cosa penosa che dobbiamo sopportare. Questo è un paese stoico, che rende visibile in ogni momento il comune destino di dovere sopportare la vita; mentre in Europa, le città danno ancora l'illusione di essere come una corte dell'imperatore, una favola. Questo, insomma, è il paese dove si vive senza illusioni. Nessuno qui cerca la solitudine. Del resto, un uomo solo che bisogno ha di nascondersi? A chi si nasconde?"
...
"Alle pareti ci sono dei quadri, una specie di collezione fatta con scambio fra amici, con l'eccezione di questo falso Mondrian che ho fatto io, come una specie di omaggio a Mondrian. Per esempio, ecco: chi mangia un pollo con grande piacere, fa un omaggio a questo pollo; così io ho provato a impossessarmi di Mondrian, a digerirlo. Poi c'è un'altra cosa, secondo me: l'illusione che non sia completamente falso perché l'ho dipinto io."

Da quel numero di Linus ho tratto i disegni di Steinberg che inserisco qui, salvo le due immagini a colori, che ho trovato in rete.






martedì 28 agosto 2007

Eyes wide shut

Eyes wide shut, di Stanley Kubrick (1999) Racconto di Arthur Schnitzler, Sceneggiatura di Stanley Kubrick, Frederick Raphael Con Tom Cruise, Nicole Kidman, Sydney Pollack, Nadison Eginton, Jackie Sawiris, Leslie Lowe, Peter Benson, Todd Field, Julienne Davis, Vinessa Shaw, Leelee Sobieski (159 minuti) Musica: Jocelyn Pook, Dmitri Shostakovic, Gyorgy Ligeti, Franz Liszt, W.A. Mozart Fotografia: Larry Smith Rating IMDb: 7.1
Giuliano
Ho sempre avuto grandi perplessità riguardo ad “Eyes wide shut”, a partire proprio dal titolo: dopo l’uscita del film ero andato a leggermi “Doppio sogno” di Arthur Schnitzler, il racconto da cui è tratto il film, e ho scoperto con sorpresa che il film e il libro coincidono quasi perfettamente; Kubrick ha solo spostato il tempo dell’azione, dal primo Novecento ai nostri giorni. “Doppio sogno” era un titolo magnifico, perché Kubrick non l’ha usato?
Le perplessità riguardo al film si spiegano facilmente: il film non è del tutto finito, quella che vediamo era una copia “quasi” definitiva. Certamente, Kubrick avrebbe limato ancora qualcosa, ma non ne ha avuto il tempo. Oltretutto, Kubrick era molto lento e meticoloso e, di conseguenza, il film era in lavorazione da diversi anni: chi ha messo i soldi per produrlo cominciava a diventare impaziente. C’era anche la questione del protagonista, Tom Cruise, che personalmente trovo del tutto inadeguato (e in questo sono assistito da un illustre parere femminile: "attore senza finezze e senza mistero" dice Irene Bignardi di Tom Cruise su Repubblica 1.10.1999 ). Per un ruolo così, l’ideale sarebbe forse stato Jack Nicholson da giovane, all’epoca di “Easy rider” o di “Cinque pezzi facili” o forse – è un paradosso, ma mi serve per spiegare cosa intendo – Ugo Tognazzi da giovane, nel suo versante drammatico. Insomma, qualcosa di terragno e di sanguigno, di affidabile ma ambiguo; tutte qualità che Tom Cruise non ha mai avuto, e penso che Kubrick ne fosse cosciente ma che se lo sia fatto andar bene pur di poter fare il film.
Tante perplessità, dicevo, che mi sono portato dietro fino a ieri sera, quando – per puro caso, come capita sempre – ho ripreso in mano un libro di un autore con il quale ho un rapporto continuo da più di trent’anni, e il cui nome forse non vi dirà niente. Si tratta di Adolfo Bioy Casares, argentino, amico e collaboratore di Jorge Luis Borges. Il dialogo che mi ha colpito è questo:

(...) Vidal immaginò Faber, in agguato delle ragazze, acquattato vicino ai gabinetti, Rey che sbaciucchiava le mani di Tuna, Jimi eccitato come un cane.
"Sembrano grotteschi, ma non fanno ridere," commentò. "Offendono, piuttosto."
"A me non mi offendono. La gente è diventata troppo delicata. Io trovo che ogni vecchio si trasforma in una caricatura. C'è da morir dal ridere."
" O di tristezza."
"Tristezza? Perché? Non sarà che hai paura di entrare pure tu a far parte di questo carnevale? "
"Forse hai ragione."
"Alla grande sfilata di maschere."
"Ciascuno tira fuori a poco a poco il suo travestimento. "
"Che del resto non gli si adatta tanto bene," rispose Jimi, visibilmente stimolato dalla collaborazione dell'amico. "Sembra un costume preso in affitto. Di tessuto ce n'è in abbondanza. Uno spettacolo buffo. "
"Orribile, eh! È tutta un'umiliazione, ci si rassegna a essere deficienti, come i mascalzoni." (...)
(Adolfo Bioy Casares, “Diario della guerra al maiale”, 1969, editore Bompiani)

Ecco, questa associazione fra il Carnevale e il passare del Tempo, e la morte, mi ha fatto balzare davanti agli occhi alcune immagini: e sono proprio quelle di “Eyes wide shut”. Chi ha visto il film se le ricorda di certo: le lunghe sequenze di Tom Cruise nel negozio delle maschere, la grande scena dell’orgia, che di maschere è piena, e altro ancora. Ma la scena dell’orgia, che purtroppo è diventata subito famosa e imitata, non è delle migliori di Kubrick: è goffa, sembra girare a vuoto, non convince, e per di più la musica è molto brutta. E per un perfezionista come Kubrick questa imperfezione è molto strana; e non mi basta sapere che il film non è completamente finito, significa che qui c’è sotto qualcosa.
E finalmente ho capito: anche questo film, come “Io ballo da sola” di Bertolucci, è una Vanitas. “Vanitas” è il nome che viene dato ad alcuni dipinti del 500-600, dove al centro del quadro c’è una giovane donna fiorente, per lo più nuda, attorniata da simboli del passare del Tempo: una candela che si consuma, una clessidra, un teschio... Esempio clamoroso di Vanitas è il dipinto del Cagnacci che abbiamo già riportato qui, dove tutti questi simboli sono esposti in maniera chiarissima. In altri dipinti, tutto è più sfumato: si possono considerare “vanitas” (vanità delle vanità, tutto è vanità, dice il libro dell’Ecclesiaste, nella Bibbia) anche le nature morte, con un cestino di frutta meravigliosa destinata a non durare, e il famoso “Et in Arcadia Ego” – ma su questi argomenti cedo volentieri la parola a Solimano che ne sa più di me.
Una volta svelati questi passaggi (proprio nel senso di “togliere il velo”), il messaggio di Kubrick diventa chiaro, chiarissimo. E mi chiedo come mai non c’ero arrivato prima: il film comincia proprio con una giovane donna nuda, nel suo momento di massima bellezza, per di più davanti ad uno specchio. E’ una scena di nudo molto lunga, che ha fatto protestare i censori e che ha fatto sorridere molti per il “voyeurismo” di questo anziano regista, e dei suoi spettatori. Una volta ammesso (ebbene, sì) che vedere Nicole Kidman in quelle condizioni è una cosa molto piacevole per la quale noi maschi ringraziamo molto Kubrick, va però detto che la lunghezza di questa scena non è casuale, e che Kubrick non la avrebbe di certo mai tagliata. Questa scena è il punto di partenza di una Vanitas, che poi verrà sviluppata nel seguito della narrazione: appunto con le scene del Carnevale e delle Maschere.
Non conosco bene Schnitzler, e non so cosa avesse in mente quando scriveva “Doppio sogno”; ma per quanto riguarda Kubrick c’è un altro fattore fondamentale, ed è la musica. Si sa quanto sia importante la musica per Kubrick: e per questo film, come già accadde per “Lolita”, Kubrick ha scelto di non avere grande musica, ma musiche piuttosto convenzionali, da colonna sonora normale, commissionate per l’occasione. Con un’eccezione: proprio la scena iniziale della Kidman davanti allo specchio. La musica è un valzer, un valzer piacevole e leggero, ma è opera di Dimitri Sciostakovic. Sciostakovic, come Bioy Casares, è un autore che mi accompagna da parecchio tempo, e del quale posso dire molto cose. Per esempio, e Kubrick non poteva non saperlo, che ha due aspetti (all’apparenza opposti e poco conciliabili) che convivono in lui: una vena clownesca, divertita e divertente come in questo valzer, e una seria e profonda riflessione sui temi della guerra, e della morte. Sciostakovic trascorse la sua vita sotto Stalin, e della morte sapeva quindi molto. Non solo il percorso della sua musica segna il passare del Tempo, ma anche le fotografie che lo ritraggono, prese anno dopo anno, dicono molto.
Mi fermo qui, perché il post è già molto pesante. Questo è il testamento di Kubrick, e lui ne era più che cosciente. Continuo a pensare che sia un film poco riuscito, ma comincio a guardarlo con occhi diversi.
PS: Quando ho finito di scrivere questo pezzo, mi sono accorto che su Canale 5 era in programmazione “Eyes wide shut”. Che i diritti di questo film (e di altri) siano in quelle mani è veramente una cosa disgustosa. Spero che questa voga di spezzettare i film con la pubblicità finisca presto, dura ormai da un quarto di secolo e sarebbe ora di darci un taglio (a chi spacca i film in questo modo indecente, non ai film...)

Il lavoro nel cinema: Centochiodi

Centochiodi, di Ermanno Olmi (2007) Con Raz Degan, Luna Bendandi, Amina Syed, Michele Zattara, Damiano Scaini, Franco Andreani (92 minuti) Musica: Fabio Vacchi Fotografia: Fabio Olmi Rating IMDb: 7.2
Nicola
"Il Giorno del Giudizio dovrai rendere conto di fronte a Dio di quello che hai detto."
"Nel Giorno del Giudizio, sarà Dio a dover rendere conto di tutta la sofferenza del mondo."
Il dialogo, si sa, ha tante diverse facce. Noi siamo abituati al dialogo tra politici, chierici o intellettuali, che è una forma ritualizzata di scontro: ci si confronta di fronte a delle persone perché poi queste, per l'appunto, "prendano partito". Neanche per un attimo si è pronti ad abbracciare una ragione dell'altro, abbandonandone una propria. Anche il dialogo in famiglia è in genere di questo tipo.
A volte c'è, però, un dialogo vero, anche se aspro; anche all'interno delle religioni. C'è il rabbino che si lamenta di Dio che non rispetta il suo contratto col popolo eletto. Nel cristianesimo, proprio nel Vangelo e sulla croce, c'è la protesta del Figlio verso il Padre:"Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mt: 27,46)
Per un attimo almeno, dunque, Gesù diventa inconsapevole della sua natura divina e si trova a essere tutto umano, a confronto con l'altra importante Persona della trinità -il Padre- di cui condivide (secondo il credo di Nicea) la "sostanza". Il dialogo tra padre e figlio diventa dialogo vero proprio nel momento in cui il figlio sente (crede) che il padre ha voltato le spalle a sé (al mondo) alla sua sofferenza.
Il film Centochiodi di Olmi sta tutto o quasi in quel momento di solitudine e protesta, sino allo scandaloso esito che ho messo in incipit.

Un giovane professore di filosofia e fine conoscitore della teologia, giunto alla conclusione che "c'e' più verità in una carezza che in tutti i libri del mondo", inchioda con grossi chiodi da carpenteria decine di preziosi incunaboli al pavimento di una biblioteca universitaria e fugge versoil Po, alla ricerca di una maniera di vivere più autenticamente umana. Abbandonate auto e documenti (ma non denaro e carta di credito), il professore va a dormire in un rudere sull'argine e inizia a renderlo abitabile, cioè lavora. La rinascita alla vita, dunque, (il divenire "carne": l'"incarnazione") è il lavoro: non nel senso estensivo che noi consideriamo (un lavoro intellettuale già lo aveva), ma nel senso stretto di lavoro manuale; diradare gli arbusti, pulire, riparare; sudare, graffiarsi, indolenzirsi. Questa incarnazione è quanto di meno veterotestamentario si possa immaginare: ben lungi da Olmi e dal suo professore pensare che "maledetto sia il suolo per causa tua!" (Genesi: 3,17)
Ben presto il professore viene in contatto con gli abitanti d'un paesello lì vicino che, all'inizio scherzosamente, poi sempre più intensamente, lo chiamano "Gesù Cristo". Tra l'intellettuale e i paesani, persone semplici nella loro profanità, si stabilisce un rapporto di collaborazione e reciproco aiuto (un piano di sviluppo minaccia il luogo dove i paesani si riuniscono per passare il loro tempo insieme e il professore li aiuta ad affrontare la battaglia legale), finchè un giorno le forze dell'ordine non arrivano per eseguire il mandato d'arresto per lo sfregio ai codici.
Prima di partire, il professore chiede ai suoi ospiti di aiutarsi da soli, senza far più conto su di lui: non più "aiutati che il Ciel t'aiuta", quindi, ma "aiutatevi l'un l'altro" (che, fra l'altro, si trova nel Corano, Surat al-Ma'ida, 2).
Pur potendolo fare, il professore non tornerà più al paese, che dovrà re-imparare a vivere senza di lui. Le frasi che ho riportato in incipit sono quasi alla fine del film, quando il vecchio prete e mentore del professore va a trovarlo in cella per rinfacciargli la vandalizzazione dei libri (che al prete, sappiamo dall'inizio del film, tengono più compagnia degli uomini).
Tornando al tema del dialogo, Olmi con questo film mette in discussione, senza con ciò negarla, tutta la propria fede. Partendo proprio dal problema più spinoso e antico di tutti: come possa, cioè, un Dio che è tutto Bene permettere che il mondo permetta il dolore. Anche la soluzione che propone è tutta terrena, anche se impregnata di ottimismo cristiano: aiutatevi su questa Terra, senza sperare in un aiuto dal di fuori dei vostri cuori. Che è, in una versione per l'appunto cristiana e quasi francescana, l'invito di Leopardi, che invece ha origine (come il passo che riportavo prima dalla Genesi) dal più profondo pessimismo riguardo alla natura:

"E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena."

Mettersi in discussione è anche un invito agli altri, credenti o meno, cristiani o meno, più e meno colti, a fare altrettanto; ciò che rende il film particolarmente intenso anche se programmaticamente antiestetico; conciliare e giovanneo, ma tutt'altro che melenso.
Per concludere con Francesco, si racconta che il Santo, visitando il monastero del suo ordine nella professorale Bologna (la stessa città e università del film), avesse trovato i suoi frati troppo intenti a leggere e a studiare, e poco a pregare e star vicini agli umili, e che -furioso- gettasse giù da un'alta finestra decine di preziosi codici.

lunedì 27 agosto 2007

La pittura nel cinema: Partie de campagne

Auguste Renoir: Jean con Gabrielle Renard (1897)
Solimano
Il film "Partie de campagne" di Jean Renoir fu realizzato nel 1936, ma uscì nelle sale solo nel 1946, per difficoltà economiche ed organizzative. Nessuno degli attori principali è diventato famoso, ma al film parteciparono a vario titolo Luchino Visconti, Joseph Kosma, Jacques Prevert, Yves Allégret, George Bataille, Jacques Becker, Henri Cartier-Bresson. Come si vede, una squadra notevole. Ma non finisce qui, della squadra facevano parte due artisti che non c'erano più, gli ispiratori del film: lo scrittore Guy de Maupassant, autore della novella da cui è tratto il film con molta fedeltà, ed il pittore Pierre-Auguste Renoir, il padre di Jean.
Mi soffermo su un episodio raccontato nelle prime pagine della novella: l'altalena, escarpolette (oppure balançoire) in francese. Così Guy de Maupassant in "Une partie de campagne" (1881):

"Les hommes, ayant retiré leurs redingotes, se lavèrent les mains dans un seau d'eau, puis rejoignirent leurs dames installées déjà sur les escarpolettes.
Mlle Dufour essayait de se balancer debout, toute seule, sans parvenir à se donner un élan suffisant. C'était une belle fille de dix-huit à vingt ans; une de ces femmes dont la rencontre dans la rue vous fouette d'un désir subit, et vous laisse jusqu'à la nuit une inquiétude vague et un soulèvement des sens. Grande, mince de taille et large des hanches, elle avait la peau très brune, les yeux très grands, les cheveux très noirs. Sa robe dessinait nettement les plénitudes fermes de sa chair qu'accentuaient encore les efforts des reins qu'elle faisait pour s'enlever. Ses bras tendus tenaient les cordes au-dessus de sa tête, de sorte que sa poitrine se dressait, sans une secousse, à chaque impulsion qu'elle donnait. Son chapeau, emporté par un coup de vent, était tombé derrière elle; et l'escarpolette peu à peu se lançait, montrant à chaque retour ses jambes fines jusqu'au genou, et jetant à la figure des deux hommes, qui la regardaient en riant, l'air de ses jupes, plus capiteux que les vapeurs du vin.
Assise sur l'autre balançoire, Mme Dufour gémissait d'une façon monotone et continue : "Cyprien, viens me pousser; viens donc me pousser, Cyprien!" A la fin, il y alla et, ayant retroussé les manches de sa chemise, comme avant d'entreprendre un travail, il mit sa femme en mouvement avec une peine infinie
".
Pierre-Auguste Renoir in un suo quadro, oggi al Musée d'Orsay, rappresentò proprio una giovane donna sull'altalena, che lui chiama balançoire. Nella novella di Maupassant le altalene sono due, su una va la madre, sull'altra la figlia, e così è anche nel film.
La presenza di Renoir padre non c'è solo in questo episodio, ma in tutta l'aria che si respira nel film, aria di natura lieta e libera, almeno per quel giorno. Il fatto che il film sia in bianco e nero è solo un dettaglio, i posti dove fu girato sono molto vicini ai luoghi prediletti dagli impressionisti, si tratta di Montigny-sur-Loing e di Marlotte nel dipartimento Seine-et-Marne.

Ma c'è una altalena più famosa di quella di Renoir, che non ho ancora visto al cinema, è quella di Jean-Honoré Fragonard, dipinta nel 1767 e conservata alla Wallace Collection di Londra, il cui titolo è "Les hasards hereux de l'escarpolette", e la malizia si capisce osservando bene il quadro. Uno spirito del genere non è stato possibile trovarlo, almeno finora, anche nei grandi registi che hanno fatto film sul Settecento, come Fellini e Kubrick. Più in sintonia con Fragonard sarebbe il Tony Richardson di Tom Jones, ma è inglese, per lui va meglio Hogarth. Forse è un quadro a cui poteva ispirarsi il Rohmer giovane, quello di Pauline à la plage e di Le genou de Claire. Gli altri grandi della nouvelle vague no, sono troppo seri per Fragonard, che per essere capito richiede una profonda leggerezza. La pantofola della giovane dama è lì, sospesa nell'aria, ormai da quasi 250 anni.

Fragonard: L'escarpolette Londra, Wallace Collection (1767)

Fumetti d'agosto: Guido Crepax e Louise Brooks

Solimano

Epistolario Louise Brooks - Guido Crepax


7 gennaio 1976
Caro Guido,
grazie per il bel libro e il racconto a fumetti (però non mi hai detto che cosa significa quella pantofola iperattiva nel libro).
Ti mando Image con le foto del racconto a fumetti Dixie Dugan perché rappresenta un fatto eccezionale. Per quanto ne so, nessuna attrice americana è stata l'ispirazione per un fumetto, e sicuramente mai per due. Inoltre John Striebel ha disegnato Dixie dal 1926 fino al 1966. E tu hai cominciato Valentina nel 1965, proprio come se tu mi ritrovassi dove John mi aveva lasciata quando morì. Potrebbe Valentina essere la perduta Louise Brooks? Dixie Dugan non lo era. Lei era brava e intelligente e sapeva sempre come badare a sé stessa in un mondo che comprendeva perfettamente.
Ortega Y Gasset ha scritto che "Noi tutti siamo perduti"; soltanto quando confessiamo questo troviamo noi stessi e viviamo davvero. Ma seppi di essere perduta quand'ero una ragazzina e mia madre non capiva perché piangessi da sola. Fare film a New York fu un bene, perché imparai tanto e scoprii Tolstoj e Anna Karenina.
Poi fui mandata a fare film a Hollywood nel 1927: nessuno sapeva capire perché io odiassi tanto quel terribile posto distruttivo che a tutti gli altri sembrava un paradiso meraviglioso. "Che ti succede, Louise? Tu hai tutto! Cos'è che vuoi?". Per me tutto questo era come un sogno terribile che faccio - sono perduta tra i corridoi di un grande albergo e non riesco a trovare la mia stanza: La gente mi passa davanti come se non potesse vedermi né udirmi. Così dapprima fuggii da Hollywood e da allora sono sempre fuggita. Ed ora, a 69 anni, ho messo da parte la speranza di trovare me stessa. La mia vita è stata niente.
Ma guardandomi indietro, c'è stato un momento a Parigi nel 1929, quando giravo Prix de beauté e vivevo in pace con me stessa. Credo che fosse perché non parlavo il francese. Il fatto di essere perduta era perfettamente naturale tra quelle persone con cui non potevo esprimere né pensieri né sentimenti.
Cosa ha da dire Valentina su tutto ciò?

Love

Ricorda che quando tornò il figliol prodigo il padre disse: "Era perduto ed è ritrovato". Fu il padre a trovare il figlio perduto. In certo modo mi è mancato questo esser ritrovata.


10 febbraio 1976
Cara Louise,
grazie infinite per le sincere, affettuose parole della tua lettera.
Il tuo modo triste e amaro di ripensare quel che hai ottenuto nella vita mi ha commosso profondamente. Mi addolora sentirti dire di "essere perduta". Nei film di Pabst o Genina che ho visto tu eri il simbolo meraviglioso di qualcosa che non andrà mai perduta.
Hai sempre sentito di essere sola fra la gente perché non hai mai fatto parte del background umano in cui dovevi vivere o lavorare. Ma non devi dolerti dell'estraneità dell'ambiente, era qualcosa di positivo che avevi raggiunto perché disprezzavi e rifiutavi il mondo del cinema.
Tu non sei né perduta né dimenticata! Adesso alcuni critici cinematografici italiani stanno preparando un breve festival del cinema. Vogliono proiettare alcuni dei tuoi film ed io esporrò alcuni disegni in cui Valentina incontra Lulu.
Mi è molto difficile parlarti di Valentina (specialmente in inglese).
Penso che la vita dell'eroina dei miei fumetti e la tua abbiano qualcosa in comune. Anche Valentina talvolta si sente perduta e rinuncia a sperare. Allora cerca rifugio nel mondo dei sogni e delle memorie.
Ti manderò l'ultimo libro dei fumetti di Valentina, che si chiama il Diario di Valentina e racconta la sua infanzia, le sue visioni oniriche e i suoi deliri.
Ho disegnato i miei fumetti per undici anni e posso dire che in questo periodo ho disegnato diecimila volte l'immagine di una donna per la quale tu sei stata l'ispirazione.
Per questo ho disegnato questo tuo ritratto e ti ringrazio ancora per lo straordinario modello che sei stata per me.
Con affetto

Guido

29 marzo 1976
Caro Guido - il Diario è arrivato il 13/3/1976 - Grazie - Non so leggere le parole - non posso seguire l'intreccio - a guardo attentamente le immagini e Valentina è una persona vera - così reale che credo che lei sia Guido - Sei tu a pagina 48 - 58 - 59? Mi mandi la tua foto?
Sei anche un pittore "serio", disegni in modo meraviglioso - sicuro - agile - movimento stupendo - come il bianco e nero cinese - ma anche il tuo inglese è così - forse sei un genio. Ho fatto un elenco di geni che ho capito esser geni prima che venissero riconosciuti come tali. Martha Graham (la ballerina) e George Gershwin (il compositore) - Senza far niente loro riempivano l'ambiente di misteriosa genialità e irresistibile energia.
Però oggi si dice che il genio non è più volto alla musica, ai libri, all'arte - ma alla scienza -
Love

Louise

Milano, 23 aprile 1976
Cara Louise,
sono molto contento che il Diario di Valentina ti sia piaciuto. Io non sono un pittore "serio", ma ho partecipato a molte mostre d'arte con disegni, litografie e serigrafie.
Certo considero "disegni seri" i miei fumetti, ma non penso di essere un genio.
Mi spiace non poterti inviare traduzioni inglesi dei miei racconti. In Italia sono stati pubblicati nove miei libri, e molti ne sono stati tradotti in Francia, Germania, Giappone, persino in Finlandia e Brasile, ma non ancora in Inghilterra e negli Stati Uniti.
Ti mando un inserto del giornalino Linus, dove escono i miei fumetti. Vedrai una foto mia vicino a una tua famosa. Spero che non ti dispiacerà vedere il montaggio e le tue prime lettere pubblicate e "descritte" da alcuni miei disegni.
Vorrei poterti dire tante altre cose, ma non so bene l'inglese. Ho letto il tuo articolo su Pabst e l'altro su Humphrey Bogart in Positiv. Mi sono piaciuti molto. Ho appena visto il tuo stupendo Tagebuch einer Verlorenen (Diario di una donna perduta).
Tutto bene per i fumetti che hai mandato in Svizzera. Roland Jaccard mi ha scritto che vorrebbe avere il mio libro A proposito di Valentina ed ho già risposto alla sua lettera.
Sono molto contento di sapere che altri sono interessati alla pubblicazione di un libro Omaggio a Louise Brooks, ma di tutto questo io sono un po' geloso.
Love

Guido


3 maggio 1976
Caro Guido - bei pacchetti - la gente mi chiede: - Che fai? - Raccolgo quello che Crepax mi manda. - Rimasi colpita nell'aprire la rivista e vedere le mie lettere originali. Poi cominciai a ridere perché tu hai afferrato la mia vera
essenza - quando ho visto i miei film o udito la mia voce alla radio, in una intervista, dico: "Quella creatura stupida! Non è reale!". Oltre Mr. Pabst tu sei l'unica persona che mi ha capito, e tutti e due senza avermi incontrato che nei film. Ma Mr. Pabst era sempre pazzo di me, e mi sibilava: - LuiiiiiS - un giorno venne a prendermi al treno: - Lu - iiiiiiS, devi portare un uomo diverso ogni volta che vieni a Berlino?-
Anche la tua pittura è bella, ma non come i tuoi disegni - ma come sei libero e gioioso - sei capace di confezionare marmellata di albicocche.
Vuoi farmi avere per favore 6 copie della marmellata da mandare ad amici intimi per far loro vedere come sono in realtà? E ancora scherzando: mi sono sempre rammaricata di avere poco cervello - ora mi senbra che il mago di Oz dette un diploma allo spaventapasseri - allora il mago di Crepax potrebbe dare un diploma a Louise - mandami un disegno - lo metterò sul cassettone di fronte al mio letto - quando un libro mi rende perplessa io posso guardare il disegno e capire ogni cosa -
Love

Louise


10 agosto1977
Caro Guido,
questo è lo stesso trucco che ho usato per la RAI nelle riprese del 22 aprile - a parte che loro usavano il bianco e nero e una lampada da 1000 Watt al posto delle 4 normali usate dal Thames.
Quando vedi il fim assicurati di prendere nota con esattezza di quali mie inquadrature sono usate e dimmi chi è la doppiatrice - la mia voce possiede una vasta gamma musicale e non sembra del tutto reale - ecco perché non volli fare il film - un'altra maledetta voce avrebbe lasciato in ombra il mio viso.
Love

Louise


Milano, 5 dicembre 1977
Cara Louise,
finalmente ti ho vista nella trasmissione televisiva di Maria Bosio.
La tua prima apparizione sugli schermi della televisione italiana è stata meravigliosa! Eri così simpatica mentre ridevi di cuore rispondendo alle domande di Maria! Mi ha fatto molto piacere quello che hai detto di me.
Nonostante il doppiaggio italiano ho potuto sentire la tua voce. E' come te, allegra e simpatica.
Sai, mia moglie mi aiuta nella traduzione delle lettere che ti scrivo, ma anch'io conosco l'inglese abbastanza bene.
Ho saputo che è appena uscito in Francia il libro “Louise Brooks portrait d'une anti - star”. Farò di tutto per averlo.
Un mio amico mi ha regalato quattro foto tue, come puoi vedere dai disegni che ti mando. Le conserverò sempre.
Buon Natale, Louise!

Guido