domenica 26 agosto 2007

Guerre Stellari: Joseph Campbell al cinema (1)

Giuliano

Guerre Stellari: Joseph Campbell al cinema
da “Il potere del mito” di Joseph Campbell, ed. Guanda

Joseph Campbell (1904-1987) è stato uno dei maggiori storici delle religioni. Un’enciclopedia vivente, come molti altri della sua generazione, capace di saltare senza problemi dal cristianesimo all’induismo, dallo zoroastrismo allo shinto, e via dicendo –passando per le religioni animiste e ovviamente comprendendo astronomia, archeologia, papirologia, psicoanalisi, glottologia...
E quindi le sue opere sono molto impegnative, anche se lo stile è molto colloquiale. E’ una piccola osservazione, l’unica che mi sento di fare prima di passare all’argomento del giorno, che è “Guerre Stellari”: Campbell non è facile, per capire bene quello che segue bisognerebbe leggere il libro da cui è tratto. Detto questo, non resta che augurarvi buon divertimento, perché Campbell sa anche essere divertente, come tutti i vecchi professori (quelli bravi, intendo).

Il libro è in realtà una conversazione, della quale esiste un filmato, tra Campbell e il giornalista Bill Moyers – che si svolge, guarda caso, allo Skywalker Ranch di George Lucas, in Texas.
Il primo estratto viene dalla prefazione di Bill Moyers, e inizia da un commento di Campbell sui funerali di John F. Kennedy: il mito dell’Eroe, per l’appunto, e cosa ne resta ai nostri giorni.

(...) Ho pensato a questa descrizione anche quando un'amica chiese a uno dei miei colleghi a proposito della nostra collaborazione con Campbell: «Perché avete bisogno della mitologia?» Ella condivideva l'opinione comune oggi che «tutti questi dèi greci e roba del genere» siano irrilevanti per la condizione umana. Quel che non sapeva - quel che i più non sanno - è che i resti di tutta questa «roba» coprono le pareti del nostro sistema interiore di credenze come i cocci del vasellame rotto in un sito archeologico. Ma, dato che siamo creature viventi, in tutta quella «roba» c'è molta energia. E i rituali la evocano. Prendete la posizione dei giudici nella nostra società, una posizione che Campbell ha visto in termini mitologici e non sociologici. Se si trattasse di un ruolo come gli altri, il giudice potrebbe indossare in tribunale un semplice abito grigio, invece della toga nera da magistrato. La legge, invece, per mantenere la sua autorità al di là della coercizione, ha bisogno che il potere del giudice sia ritualizzato, mitologizzato. E questo, notava Campbell, vale per molte delle cose della vita di oggi, dalla religione e dalla guerra all'amore e alla morte.
Mentre camminavo, andando al lavoro una mattina dopo la morte di Campbell, mi fermai davanti alla vetrina di un videoclub dei dintorni che faceva scorrere su un televisore scene da “Guerre stellari” di George Lucas. Rimasi lì, ripensando a quando Campbell e io avevamo visto insieme la pellicola al ranch di Lucas, lo «Skywalker». Lucas e Campbell erano diventati buoni amici dopo che il regista, riconoscendo il suo debito verso il lavoro di Campbell, aveva invitato lo studioso a vedere la trilogia di Guerre stellari. Campbell si divertì molto ritrovando gli antichi temi e motivi della mitologia che venivano proiettati sul grande schermo in immagini di grande modernità. Proprio durante quella visita, avendo ancora una volta esultato per le imprese e gli eroismi di Luke Skywalker, Joe si animò sempre più parlando di come Lucas avesse «dato il più nuovo e più potente impulso» alla classica storia dell'eroe.
«E quale sarebbe?» gli chiesi.
«È ciò che Goethe aveva detto nel Faust, ma che Lucas ha espresso in una lingua moderna – il messaggio, cioè, che la tecnologia non potrà salvarci. I nostri computer, i nostri strumenti, le nostre macchine, non sono sufficienti. Dobbiamo ancora affidarci alla nostra intuizione, al nostro vero essere.»
«E questo non è un affronto alla ragione?» dissi. «Se le cose stanno così, non stiamo forse fuggendo dalla ragione?»
«Ma non è questa la missione dell'eroe. Non si tratta di negare la ragione. Al contrario, con il superamento delle passioni oscure, l'eroe simboleggia la nostra capacità di controllo sulla selvaggia irrazionalità che è noi.»
Campbell aveva lamentato in altre occasioni la nostra incapacità «di ammettere all'interno di noi stessi la febbre divorante e lasciva» che pure è endemica nella natura umana. Ora, egli stava descrivendo il viaggio dell'eroe, non come un singolo atto di coraggio ma come un'intera vita vissuta nell'autodisvelamento, «e Luke Skywalker non fu mai tanto razionale come quando scoprì in se stesso le risorse necessarie ad affrontare il proprio destino.»
Paradossalmente, per Campbell la fine del viaggio dell'eroe non coincide con la sua glorificazione. «Non ci si deve identificare», disse in una delle sue conferenze, «con nessuna delle figure o dei poteri di cui abbiamo esperienza. Lo yogi indiano, che lotta per la sua liberazione, si identifica con la Luce e non ritorna indietro. Ma nessuno che desideri mettersi al servizio degli altri permetterebbe a se stesso una simile scappatoia. Lo scopo ultimo della ricerca non dev’essere né la liberazione, né un’estasi egoistica, ma la sapienza e la potenza necessarie a servire gli altri.»
Una delle molte differenze tra la persona celebre e l’eroe, aggiungeva, è che il primo vive solo per se stesso, mentre l’altro agisce per redimere la società. (...)
(pag.13)
(...) Per quanto le tradizioni mitiche differiscano, notava, esse sono concordi nel richiamarci a una consapevolezza più profonda dell'atto stesso del vivere. Il peccato imperdonabile, secondo Campbell, è quello dell'inconsapevolezza, del non essere all'erta, non completamente desti.
Non ho mai incontrato nessuno che sapesse raccontare meglio una storia. Ascoltandolo mentre parlava delle società primitive, venivo trasportato nelle ampie pianure, sotto l'immensa cupola del cielo aperto, o nella foresta più fitta, sotto una volta di alberi, e cominciavo a capire come la voce degli dèi parlasse attraverso il vento e il tuono, e lo spirito di Dio scorresse in ogni ruscello montano, e la terra intera risplendesse come un luogo sacro - il regno della immaginazione mitica. E domandai: «Ora che noi moderni abbiamo spogliato la terra dei suoi misteri e abbiamo fatto - secondo la descrizione di Saul Bellow - 'un ripulisti generale delle credenze', come potremo nutrire la nostra immaginazione? Possono bastare Hollywood e i telefilm?»
Campbell non era pessimista. Credeva nell'esistenza di un «punto di saggezza al di là dei conflitti di illusione e verità attraverso il quale le vite possono essere ricondotte all'unità originaria». Trovare quel punto «è il problema fondamentale del nostro tempo». Nei suoi ultimi anni si era impegnato in una nuova sintesi di scienza e spirito. «Il passaggio da una visione geocentrica a una visione eliocentrica», scrisse dopo il primo sbarco sulla luna, «sembrava aver rimosso l'uomo dal centro, e il centro sembrava così importante. Spiritualmente, comunque, il centro si trova là dove si trova la vista. Stare su una vetta e vedere l'orizzonte. Stare sulla luna e vedere il mondo intero che sorge persino - attraverso la televisione - nel salotto di casa tua. Il risultato è un'espansione senza precedenti dell'orizzonte, una cosa che potrebbe egregiamente servire ai nostri giorni, così come un tempo le antiche mitologie servirono a depurare i canali della percezione e prepararli «alla meraviglia ad un tempo affascinante e terribile di noi stessi e dell'universo».
Sosteneva che non è la scienza ad averci separati dalla divinità o ad aver diminuito la nostra umanità. Al contrario, le nuove scoperte della scienza «ci ricongiungono agli antichi», permettendoci di riconoscere nell'intero universo «un riflesso amplificato e ingrandito della nostra più recondita natura; così che noi diventiamo davvero le sue orecchie, i suoi occhi, il suo pensiero, la sua parola – o, in termini teologici, le orecchie, gli occhi, il pensiero e la Parola di Dio».
L'ultima volta che l'ho visto gli ho chiesto ancora credeva noi come aveva scritto una volta - «che in questo siamo partecipi di uno dei più grandi balzi in avanti dello spirito verso una conoscenza più completa non solo della natura che ci è esterna, ma anche del nostro più profondo, più intimo mistero». Egli ci pensò su un minuto, poi rispose: «Più che mai! » (...)
(pag.18)

1 commento:

Giuliano ha detto...

Caro Solimano, non so se lo hai fatto apposta, ma l'accoppiata Dr.Jerryll-Joseph Campbell è memorabile, e anche le foto che hai scelto sono perfette.
Io conosco Campbell perchè ho registrato una decina d'anni fa, dalla TV Svizzera, alcune delle sue conferenze: era proprio il "professore inglese" (ma lui era texano) che siamo abituati a immaginare, e che vediamo nei film: alto, elegante, competente, simpatico. Spero che la lettura sia gradevole, e che la Forza sia con voi.