martedì 18 maggio 2010

I libri nel cinema: Il partigiano Johnny



Il partigiano Johnny, di Guido Chiesa (2000), dal romanza di Beppe Fenoglio. Sceneggiatura di Guido Chiesa e Antonio Leotti. Con Andrea Prodan (Pierre), Stefano Dionisi (Johnny), Claudio Amendola (Nord), Alberto Gimignani (Il biondo), Fabrizio Gifuni (Ettore),Giuseppe Cederna (Nemega), Umberto Orsini, Chiara Muti, Barbara Lerici. Rating IMDb 6,6.

Aurelio Tagliabue

A trent’anni dalla sua pubblicazione "Il partigiano Johnny" di Beppe Fenoglio diventò nel 2000 un film per la regia di Guido Chiesa, che con Antonio Leotti ne firmò anche la sceneggiatura. Per la prima volta un romanzo dello scrittore piemontese veniva trasportato sullo schermo; in precedenza c’erano state solo due riduzioni per la televisione: “La paga del sabato” di Sandro Bolchi e “Una questione privata” di Alberto Negrin. Tra i motivi che contribuirono a ritardare questo esordio c’è stata anche la resistenza di Margherita, la figlia dello scrittore, che fino ad allora non aveva acconsentito ad una trasposizione filmica de “Il partigiano Johnny”; ma Guido Chiesa, che per Raitre aveva realizzato nel 1998 il documentario su Fenoglio “Una questione privata”, riuscì nell’impresa di strapparle un consenso. La delicatezza dell’argomento e l’originalità con cui veniva affrontato ponevano un altro ipotetico ostacolo. Sappiamo come la resistenza sia una tematica capace di suscitare dibattiti viziati da schematismi ed ideologismi, ma finalmente si è riusciti a dare il giusto risalto ad un'opera, che della guerra partigiana dà un'immagine decisamente antiretorica e disincantata. In questo senso possiamo subito affermare che il film di Chiesa si dimostra qualitativamente al di sopra delle prove che in quegli anni il cinema italiano aveva fornito su questa tematica, sia perché la vicenda narrata, pur nella sua dimensione quasi autobiografica, diventa

emblematica di un momento storico e civile determinante per più di una generazione; sia perché l'avventura personale del protagonista non ci impedisce mai di allargare lo sguardo all'ambiente, alla gente, al mondo che lo circonda e che questa guerra stava coinvolgendo in una condizione di estrema sofferenza. Quanto di ciò sia merito di Fenoglio e quanto degli sceneggiatori non ci interessa stabilirlo: sarebbe un arido esercizio retorico, visto il rispetto che il film mostra nei confronti dell'opera letteraria. Lo stile anticonvenzionale del romanzo e la sua dimensione quasi autobiografica non hanno impedito di realizzare una trasposizione che si rivela convincente: "All'inizio qualche soggezione è stata inevitabile, ma il fatto

che "Il partigiano Johnny" sia in realtà un romanzo incompiuto, nato dall'arbitraria unione di due diverse stesure e pubblicato da Einaudi dopo la morte dell'autore, ha aiutato lo sceneggiatore Antonio Leotti e me a considerarlo non un testo chiuso e immodificabile, bensì una traccia narrativa su cui lavorare liberamente. La fase di scrittura si è rivelata assai semplice ed anche la struttura narrativa, una volta scalettata, si è immediatamente mostrata chiarissima". Sui titoli di testa scorrono immagini di cinegiornali d’epoca, accompagnate da contemporanei messaggi radiofonici, ma sia la visione che l’ascolto vengono bruscamente interrotti: i documenti ufficiali sono ridotti a frammenti, per lasciare spazio ad un altro tipo di testimonianza, tanto meno ufficiale quanto più carica di umanità. Forse con un po’ di orgoglio e certo per omaggiare lo scrittore, la pellicola inizia e termina palesando la volontà di mantenersi fedele al romanzo. La frase d'apertura "Johnny stava osservando la sua città dalla finestra della villetta collinare" diventa un primo piano del protagonista che sbircia da dietro una persiana l'arrivo del padre (subito mostrato in soggettiva tra i filari della collina), quella di chiusura "Due mesi dopo la guerra era finita" addirittura una didascalia.

Quella di Johnny è una presenza inevitabilmente costante in tutto il film, lo sguardo dello spettatore si identifica con il suo, anche quando non coincidono i punti di vista, cioè quando non ci sono inquadrature in soggettiva. La coscienza di Johnny filtra la visione degli accadimenti, materializzandosi talvolta in una voce fuori campo, oppure, in una sola sequenza, in una serie di rumori assordanti di arma da fuoco, che lo portano ad un momento di abbandono. Anche alcuni altri personaggi ci sono presentati secondo la prospettiva di Johnny: l'ammirazione per il tenente Biondo è espressa dalla voce off, quella per il comandante Nord dalla imponenza fisica esaltata nella prima messa in inquadratura in soggettiva parziale. Il romanzo è però narrato in terza persona ed anche nel film a tratti si realizza uno scarto minimo, tra ciò che mostra la macchina da presa e ciò che può vedere il protagonista; si tratta comunque di immagini brevissime, che, ad esempio, consentono allo spettatore di vedere una colonna di repubblichini o di tedeschi immediatamente prima che anche Johnny la possa scorgere. Il risultato è un accrescimento della tensione nello spettatore, che non riesce comunque ad assumere una consapevolezza superiore a quella del personaggio. In una sola sequenza registriamo l’assenza di Johhny e del suo sguardo: quella in cui da una colonna di renitenti catturati dai tedeschi, fugge un ragazzo che viene ucciso da una raffica di mitra. Scopriremo poi che si tratta di una compagno di scuola del protagonista. Nel romanzo, nel quale il punto di vista del narratore coincide con quello del protagonista, questo episodio non poteva esserci. Il regista ha parlato di questa sequenza come di un piccolo tradimento, necessario per spiegare la condizione in cui si trovavano i coetanei di Johnny e di come a loro si imponeva una scelta.

Ma come si è detto in precedenza, ambienti e personaggi secondari sono una presenza importante e mai superficiale. Il film è stato volutamente girato nei luoghi reali in cui la vicenda è ambientata, paesaggi campestri e sfondi cittadini assumono un forte rilievo come scenari di lotta, gli elementi naturali possono nascondere insidie o dare protezione fino a salvare la vita, i partigiani vivono a contatto fisico di torrenti, colline, boschi, sempre più lontani dalle comodità cittadine, compiacendosi per l'agiatezza che può offrire una cascina o una stalla. Sono nettamente separati dal vivere civile, sprofondati in una dimensione atemporale: non ci sono feste, ricorrenze o scadenze settimanali, il trascorrere del tempo è segnato dal passaggio delle stagioni, evidenziato da didascalie o dalla alternata presenza di foglie secche, neve, colori primaverili. La lotta partigiana è stata anche gelo, fame, noia; alcune immagini dai colori freddi e dalla fotografia sgranata riescono a farci percepire questo disagio. Così come è facile percepire la sofferenza dei contadini, vittime dignitose della guerra, ma anche delle requisizioni dei partigiani comunisti. Li vediamo chiusi in buie ma ospitali cascine, o colti nelle loro antiche occupazioni, divisi tra la volontà di aiutare i partigiani, non per ideologia ma per umanità, ed il timore delle rappresaglie. Significativa a questo proposito è la sequenza in cui uno di loro denuncia a Johnny, verso il quale prova soggezione (Johnny è un cittadino istruito) la presenza di una spia che si finge commerciante di pellami. Chiesa ha scelto i loro volti con l'atteggiamento di chi non sottovaluta i dettagli ed ha operato la giusta scelta di farli parlare per lo più nel dialetto locale.

Eppure siamo lontani da un'impostazione neorealista: a tratti si impone la coscienza di Johnny, con la voce fuori campo che parla in inglese, restituendoci così l'aspetto più originale del romanzo. Poche frasi, ma significative, sopra tutte le altre "I'm in the wrong sector of the right side". Il protagonista si sente sempre più distante dal suo passato: il libro che stava traducendo è diventato un insieme di fogli stropicciati e la sua scelta non consente il ritorno. La macchina da presa indugia su volti e paesaggi, o si agita, portata a spalla, nelle sequenze di battaglia, ricordandoci che "Fare il partigiano era tutto qui: sedere, per lo più su terra o pietra, fumare (ad averne), poi vedere uno o fascisti, alzarsi senza spazzolarsi il dietro, e muovere a uccidere o essere uccisi, a infliggere o ricevere una tomba mezzostimata, mezzoamata".
Resta da dire che il film alla sua uscita fu fortemente penalizzato da un'assurda distribuzione, che ne rese difficoltosa la visione. Non sappiamo perché ciò sia avvenuto e perché il buon cinema italiano debba spesso subire questo trattamento, ma forse Guido Chiesa qualche sospetto l'aveva: "Ma sono consapevole che ormai i pericoli maggiori per i film italiani si vivono dopo le riprese, al momento dell'uscita. Mi pare che non esistano più regole, che il successo o l'insuccesso di un film sia determinato dalla fortuna del momento. Per questo ritengo essenziale trovare una distribuzione motivata, disposta a difendere il film, a consentire la realizzazione di quel passaparola indispensabile a lanciare i prodotti culturalmente e spettacolarmente più impegnativi".

mercoledì 12 maggio 2010

Se passi di qui, fermati un istante e leggi







Tu che passi su questo blog, ti chiederai forse come mai si sia interrotto il 4 marzo 2010. O forse non te lo stai chiedendo: la rete è piena di blog che di punto in bianco s'interrompono, senza avviso alcuno. In genere sono stati abbandonati per stanchezza, delusione o demotivazione. Non è il caso di questo blog che, finché è durato, è stato energico e costante come il suo fondatore, nonché principale redattore.

Il fatto è che Primo Casalini, nick Solimano, è stato male, è stato ricoverato ed è morto. Questo è il motivo per cui il blog s'interrompe senza spegnersi, nel pieno del suo svolgersi, con uno strappo simile a quello che s'è portato via Primo.

Se non conoscevi Primo, ti consiglio di fare una passeggiata in questo suo orto di scrittura, quello a cui forse teneva di più, tra i tanti a cui partecipava. O forse, quello che meglio lo rappresenta, perché lo rappresenta involontariamente. Sarà una passeggiata piacevole e interessante, a tratti allegra, a tratti meditabonda. Primo era un uomo completo e questo si riflette anche nelle sue recensioni di film, come del resto in tutte le cose che faceva e diceva.

Primo aveva chiamato altri a partecipare; aveva tirato su una squadra di collaboratori forse irregolare, ma affiatata (posso dirlo, perché le mie collaborazioni erano così rade, che posso giudicare le cose dall'esterno, obiettivamente). Alla fine, però, era lui quello che teneva in piedi il blog, e che scriveva più di tutti.

Primo lascia una moglie e un figlio.



Sono infiniti i temi su cui Primo rifletteva. Tra tutti isolerei:
l'amore, il dovere di agire, la vita di ogni comunità umana, l'arte e il suo rapporto con la realtà delle persone. Tra i film che sia lui che io amavamo ci sono quelli di Bresson, uno in particolare:

Un condannato a morte è fuggito.
E' quello che mi viene in mente adesso, chissà perché (ma non importa: stiamo parlando di Primo, non di me). Qui sotto riporto alcune foto che Primo aveva messo nella sua recensione e alcune frasi di quella recensione, che puoi comunque leggere completa al link che ti ho dato.

In quelle frasi Primo descrive la tenacia con cui Fontaine prepara la sua fuga dal carcere, senza mai perdere di vista l'obiettivo, qualsiasi cosa stia accadendo. Parlava del personaggio di un film, ma anche del modella di vita a cui cercava di conformarsi.





"Fontaine è determinato, ha una forza interiore che lo sostiene, perché altrimenti sarebbe facile lasciarsi andare. Lui lo sa benissimo, ma è costretto ad esitare prima di decidere, perché i problemi sono due. Può fidarsi, delle persone con cui viene in contatto? E le azioni che vuole intraprendere, hanno possibilità di riuscita? Nelle immagini si vede il foglio su cui scrive Fontaine e il modo che trova per comunicare col vecchio prigioniero, che ha una figlia che ogni tanto lo viene a trovare. In questo caso Fontaine ha deciso di fidarsi: gli va bene, ma non aveva nessuna altra alternativa."

"Fontaine è determinato, ma non è che inventi fantasiosamente un nuovo metodo per evadere. Con lucidità procede verso quello che dentro di sé sente di volere: evadere, salvare la sua vita. Quindi cerca di utilizzare le opportunità, specie un cucchiaio che diventa un coltello. E' molto di più il tempo che impiega a far sparire i residui del suo lavorìo che il vero e proprio lavoro sulla porta di legno della cella. Quindi, si potrebbe dire che il film è realistico, ed è del tutto vero. Solo che la quotidianità che usa Bresson ha in sé qualcosa che attraverso la quotidianità si esprime, ma non è la quotidianità. Non sto dicendo che la quotidianità è un mezzo, senza la quotidianità non c'è neppure il resto. Ma cos'è il resto? Con parola ormai oggi del tutto disusata, il resto è la Grazia. "Tutto è Grazia!" sono le ultime parole del curato di campagna di Georges Bernanos, che Bresson riprende nei suoi film. Non è un discorso di atei o credenti: l'esperienza della Grazia è trasversale alle religioni ed alle credenze. Credo che in qualche modo la sperimentiamo tutti, nella nostra vita. Nel film interviene -senza apparire, se no non sarebbe Grazia- almeno quattro volte."

"Quando, proprio alla vigilia del tentativo di evasione, mettono in cella con lui Jost (Charles Le Clainche) un ragazzo di sedici anni che indossa una giubba da tedesco. A Fontaine sembra crollare il mondo. Pensa che Jost sia una spia, ma infine si decide a coinvolgerlo nell'evasione. E si accorgerà che se non erano in due, l'evasione non sarebbe riuscita. Da solo era impossibile riuscirci. Inserisco ora delle immagini in sequenza cronologica sull'evasione, a partire dalla preparazione delle corde in cui si vedono sia le mani di Fontaine che quelle di Jost."