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Solimano
Cinquanta anni fa, e l'emozione è la stessa. Per cinquant'anni non l'ho rivisto, ma appena ho fatto partire il DVD sono tornato il ragazzo che ero, in quello scomodo cinema parrocchiale gestito da un prete intelligente. A bocca aperta per un'ora e mezzo. Con qualcosa di meno, perché il tempo non passa impunemente, ma con una grande cosa in più, che dico alla fine.
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La prima è quando viene condotto a qualche interrogatorio, che si svolge sempre in carcere, salvo una volta, verso la fine del film, in cui Fontaine viene condotto in macchina in un altro posto. Qui gli viene comunicata la condanna a morte, che sarà solo questione di pochi giorni.
La seconda è quando i prigionieri debbono lavarsi. Lo fanno insieme, in un lavatoio. Non potrebbero parlare fra di loro, ma in qualche modo riescono a farlo, stando molto attenti che fra di loro non ci siano delle spie. Fontaine entra in contatto in particolare con due persone: un prete, che lo spinge alla fuga e lo rafforza in qualche momento di scoraggiamento e un altro prigioniero, Orsini, che è stato tradito e denunciato dalla moglie e che sta preparando un suo modo per evadere, in parallelo a quello su cui sta operando Fontaine.
La terza, è quando i prigionieri in fila debbono vuotare il bugliolo che ognuno ha in cella. Per Fontaine è un momento importante perché con la scusa del bugliolo riesce ad eliminare dei residui del suo lavorìo che altrimenti resterebbero in cella, sempre a rischio di ispezione.
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Quando a Fontaine si rompe il primo cucchiaio. A lui servono cucchiai di ferro, non di stagno, e ne trova uno uscendo un po' a caso dal lavatoio. Il cucchiaio quasi gli capita in mano.
Quando non sa più dove trovare stoffa per costruirsi le corde, e gli arriva un pacco dono della famiglia con dentro delle lenzuola.
Quando Orsini tenta la fuga, e Fontaine sa in che modo proverà. Orsini fallisce e viene fucilato, ma Fontaine capisce che il modo che ha adottato Ordini non va bene, e ne trova un altro, mentre prima stava per tentare l'evasione proprio col modo di Orsini.
Quando, proprio alla vigilia del tentativo di evasione, mettono in cella con lui Jost (Charles Le Clainche) un ragazzo di sedici anni che indossa una giubba da tedesco. A Fontaine sembra crollare il mondo. Pensa che Jost sia una spia, ma infine si decide a coinvolgerlo nell'evasione. E si accorgerà che se non erano in due, l'evasione non sarebbe riuscita. Da solo era impossibile riuscirci. Inserisco ora delle immagini in sequenza cronologica sull'evasione, a partire dalla preparazione delle corde in cui si vedono sia le mani di Fontaine che quelle di Jost. Le immagini si raccontano da sole, ma in questo caso inserisco dei brani di alcuni scrittori e registi che evidentemente hanno sentito profondamente la forza unica del modo rappresentativo di Bresson. Fra l'altro cercano di ribellarsi a Bresson, specie Truffaut, che è diviso fra ammirazione sconfinata e presa di distanza (perché era diversissimo da Bresson). Ma prevale l'ammirazione.
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"Il film di Bresson è puramente musicale, il ritmo è la sua ricchezza essenziale. Un film parte da un punto per arrivare a un altro. Ci sono quelli che fanno delle deviazioni, quelli che si fermano compiaciuti per il piacere di gustarsi una scena gradevole, quelli ai quali mancano dei pezzi, ma colui che imbocca la strada dritta fende la notte al ritmo di un tergicristallo: le dissolvenze incrociate spazzano regolarmente sullo schermo la pioggia delle immagini alla fine di ogni scena. Ecco uno di quei film di cui si può dire che non contengono una sola inquadratura inutile, non un’inquadratura che si possa spostare o raccorciare; in breve ecco il contrario di un film "fatto al tavolo di montaggio".
Un condamné à mort s’est échappé è tanto libero e poco sistematico quanto è rigoroso. Bresson non si è imposto che le unità di luogo e d’azione; non solo non ha cercato che il pubblico si identificasse con Leterrier, ma ha anche reso questa identificazione impossibile. Noi siamo con Leterrier, accanto a lui, ma non vediamo tutto quello che vede (solamente ciò che si riferisce al soggetto, vale a dire l’evasione), ma non vediamo mai più di quello che lui stesso vede".
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"Bresson si serve di attori non professionisti, ma li dirige con lo stesso rigore con cui dirigerebbe dei veri attori, facendoli provare cento volte prima di poter cogliere una espressione o un'intonazione, precise ma stilizzate. Caratterizza inoltre i suoi personaggi in un modo diverso dalla realtà: nonostante il passare delle settimane, il protagonista continua a indossare la stessa camicia sporca di sangue e la sua barba è sempre una barba di due giorni. "Ho evitato ogni effetto drammatico voluto - ha detto Bresson - nel senso della maggiore semplicità, affinché la commozione scaturisca dal movimento generale dell'azione più che dai particolari". Servendosi continuamente della litote, dicendo il meno possibile per esprimere il massimo, il film, con mezzi minimi, ha saputo rendere con verità rara l'atmosfera della Francia occupata e lo spirito della Resistenza, e soprattutto il rapporto metafisico d'un uomo con l'idea di libertà".
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"Noi vediamo soltanto un muro, o la porta, o il soffitto, o l’angolo del pagliericcio, o l’inferriata della finestra, ma mai la cella intera, di maniera che ogni gesto di quell’uomo, a cui la continua apprensione dà un’intensità quasi allucinata, ogni suo movimento finiscono per presentarsi con l’oppressiva angoscia dell’asfissia. Tutto è asfissiante nella sua quasi monomane precisione: il cucchiaio pazientemente affilato sul pavimento, il raspio lento, di giornate intere, per scalfire gli interstizi tra asse e asse della porta, la raccolta a una a una delle scheggette e dei minuzzoli, il lavoro infinito per turare le fessure e mimetizzare il legno, il meticoloso intrecciare le striscioline di stoffa che serviranno da corda. Viste là, in quella cieca segregazione, staccate da tutto il resto del mondo e senza nessun apparente addentellato con possibilità reali, tutte queste operazioni acquistano alla lunga l’automatismo della fissazione, la futile concentrazione innocente della pazzia.
E finirebbe per essere un unico, insistente, monocorde, monotono tema, se non fosse per i riflessi che arrivano dal mondo di fuori. Sono appena frammenti di immagini, voci interrotte, suoni sconnessi, ma è proprio la loro presenza, il modo profondo e poetico in cui sono intrecciati, e quasi si può dire orchestrati entro quell’unico tema, che fa l’inconfondibile vita e potenza del film".
Il film ha due autori. Basterebbe ed avanzerebbe uno, Robert Bresson. Ma ce n'è un altro, che non avrebbe mai immaginato che sarebbe esistito il cinema. Si tratta di Wolfgang Amadeus Mozart. L'unica musica che si sente nel film è sua: il Kyrie dalla Grande Messa in Do minore K427. Scelta impeccabile di Bresson, perché Le vent souffle où il veut. Chi non conosce il Kyrie di Mozart lo ascolti qui.
Fra i tanti commenti in YouTube ne ho trovato uno apparentemente ingenuo. Lo condivido.
"tears roll every time - and i dont even understand the words. i used to be an atheist - until i found mozart and understood true love. Something so truly perfectly beautiful can not be chance. The power of love is my god. Music is my love."
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1 commento:
Post esaurientissimo, didattico nel miglior senso del termine un po' abusato. Beato te che in parrocchia potevi vedere questi film! A noi propinavano improbabili polpettoni edificanti oppure ci terrorizzavano a morte con Marcellino pane e vino. So bene che qualcuno qui non la pensa così, ma io sono stata una bambina traumatizzata da quel film. Mi ha instillato la paura di morire da bambina e il ribrezzo per gli scorpioni :-(
Salutissimi, Annarita
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