domenica 30 marzo 2008

I caratteri nel cinema: Il Maresciallo Carotenuto (2)

Il Maresciallo convince la Bersagliera a non fare più la soubrette

Solimano
Nel precedente post dedicato al Maresciallo Antonio Carotenuto (Vittorio De Sica) avevo fatto riferimento all'antico detto "Veritas filia temporis". Vediamola, questa verità oggi sempre più evidente. Dissero che il Maresciallo aveva tenuto un comportamento criticabile con una soubrette di passaggio quando Maria De Ritis, detta "La Bersagliera" (Gina Lollobrigida) per ragioni che chiarirò in altro contesto, decise anche lei di esibirsi come soubrette, suscitando scandalo nella famiglia e nell'intero paese. Vediamo cosa successe, è il momento di produrre prove irrefutabili.

Qui si vede un gruppo di teatranti in agitazione. Tranne una signora non freddolosa che ci volge le spalle e la schiena, tutti stanno guardando dalla stessa parte: sul palcoscenico del teatro allestito per la festa patronale si sta esibendo Maria De Ritis (la Bersagliera). Guardando con attenzione in secondo piano, si vede che stanno arrivando due persone: c'è la mamma della Bersagliera (Vittoria Crispo) al cui fianco cammina il Maresciallo Carotenuto, che conduce a mano il suo cavallo d'acciaio. La mamma della Bersagliera, sconvolta per la decisione della figlia, ha infatti messo a soqquadro il paese e il Maresciallo ha deciso di accompagnarla per risolvere il delicato problema.

I due sono arrivati e guardano sbalorditi l'esibizione della Bersagliera. Si nota che la soubrette (di cui non conosco il nome) dall'alto del suo sgabello ha già adocchiato il Maresciallo e non guarda più il palcoscenico.

Il Maresciallo, fra le tante doti, ha una capacità magnetica di sentire lo sguardo altrui - è una capacità utilissima ai fini investigativi. Si volge quindi a guardare la soubrette. Sfido chiunque a trovare nello sguardo del Maresciallo alcunché di non lecito.

La ragazza sorride, che deve fare il Maresciallo? Sorride anche lui, prima di tutto perché sotto l'uniforme è un uomo, poi perché è consapevole dell'effetto che fa alle donne l'aura spermatica che da lui promana ( Scuola Medica Salernitana, secolo XII). E la cosa finisce qui.

Dissero del Maresciallo che in fondo era un impiegato dello stato che doveva gestire il tran tran quotidiano di un paese tranquillo, quindi non lo si poteva paragonare ai famosi sceriffi del Far West, ma guardate la scioltezza dell'impugnatura di un fucile che ha appena sequestrato ad un cacciatore di frodo: Wyatt Earp (Henry Fonda), lo sceriffo di Tomsbtone, non saprebbe fare di meglio. C'è pure il cavallo, il Maresciallo Carotenuto quando il gioco si fa duro non si fa mancare nulla.

Il Maresciallo sa bene che per svolgere al meglio il suo lavoro deve tenersi aggiornato sui fatti quotidiani ed oltre ad ascoltare la radio trova tempo e modo di leggere gli articoli più importanti sul giornale. Dopo accurate ricerche -che potete fare anche voi cliccando sull'immagine- ho appurato che il giornale è diffuso ed autorevole: si tratta del Corriere dello Sport.
Il Maresciallo lo vedo un po' aggrondato, forse la Pro Sorrento ha perso.


Ma nella cultura una ciliegia tira l'altra: il Maresciallo, in attesa del pranzo, legge anche una rivista, e in questo momento sta guardando immagini riguardanti un argomento che gli sta molto a cuore. In secondo piano, si scorge la sua fedele ed autorevole domestica Caramella (Tina Pica) che l'ha seguito nei suoi vorticosi spostamenti di carriera: da Isernia a Lanciano, da Grottammare ad Ascoli Satriano.

Lo so, rimane la questione grossa, quella del ballo al matrimonio, ma non svicolo, prendo il toro per le corna. Prima di tutto, quel giorno il Maresciallo dovette presenziare a due matrimoni, non uno, altrimenti quelli del matrimonio snobbato avrebbero incrinato la loro fiducia nell'Arma. Ma fin qua passi. Gli toccò però mangiare -e bere- ad entrambi i matrimoni, non lasciando niente nel piatto e nel bicchiere. Si sentiva quindi appesantito nel corpo e nello spirito. Ma qui si vede la gagliardìa che sempre ha caratterizzato il Maresciallo: utilizzò il ballo come strumento per riprendere vigore. Del ballo, era mastro provetto fin dai tempi di Sorrento, specializzato in svizzere di lingua tedesca, ma nel paese non lo sapevano.


Dapprima eseguì qualche giro con una ragazza di quarant'anni -previa autorizzazione dello zio di lei- ma ci voleva altro, per risvegliare uno come Antonio Carotenuto. Era presente al matrimonio anche quella forosetta, sì, la Bersagliera! Il Maresciallo l'aveva convinta a non fare la soubrette ed a continuare a girare sull'asinello con gaudio sia dei carabinieri semplici che di quelli scelti. Proprio per questo pensava che non ci fosse nessun pettegolezzo.


Si trovò fra le braccia una giovane donna che riusciva a seguire i suoi passi più fantasiosi. Tutti i presenti erano ammirati per un sì gradevole spettacolo. Ma la Bersagliera ebbe un parziale mancamento che la costrinse ad appoggiare la testa sulla spalla del Maresciallo.

Alla fine del ballo il Maresciallo e la Bersagliera si trovarono di fronte la Levatrice Annarella Mirziano (Marisa Merlini) e Paoletta , la nipote del parroco (Maria Pia Casilio). L'innocenza del Maresciallo è appalesata dal sorriso schietto, quella della Bersagliera dal suo toccarsi la testa come una che stia per svenire. Ma non ci fu nulla da fare: la Levatrice fece una scenata, subornata da quella serpe di Paoletta.

La Bersagliera assunse a ragione un'aria da virtù offesa come neppure le sante del Dolci e del Cigoli, poi la cosa si sistemò, sapete come.

Un'ultima soddisfazione debbo prendermela con i sarcastici che asseriscono che dopotutto Antonio Carotenuto è uno sconfitto: la Levatrice si sposa con il Forestale, padre del figlio della colpa, la Bersagliera parte per il Trentino col fidanzato, il carabiniere scelto Pietro Stelluti (Roberto Risso) più la mamma e i sei fratelli, e il Maresciallo è solo alla Stazione, non gli rimane che prendere la corriera.
Ma sulla corriera sente che c'è una donna che lo guarda. Si guardano prima seri, poi si sorridono, l'aura spermatica ha colpito ancora. La donna è la Nuova Levatrice (Yvonne Sanson): per il Maresciallo Antonio Carotenuto domani è sempre un altro giorno!


sabato 29 marzo 2008

Orfeo

Orfeo (Jean Marais)

Orphée, 1950, (dedicato a Christian Bérard) Regia di Jean Cocteau, sceneggiatura e dialoghi di Jean Cocteau, con Jean Marais (Orphée), François Périer (Heurtebise), María Casares (La Principessa - Morte), Marie Déa (Eurydice) , Henri Crémieux (l'editore), Juliette Gréco (Aglaonice), Roger Blin (il poeta), Edouard Dermithe (Jacques Cégeste), René Worms, Raymond Faure, Pierre Bertin, Jacques Varennes.
Musiche originali di Heorges Auric, scenografie Albert Volper, Costumi Marcel Escoffier, fotografia Nicolas Hayer, 112 min., produzione: André Paulvé / Films du Palais-Royal; Francia 1950 Rating IMDb: 8.0

Gabrilu sul suo blog NonSoloProust

Inizio del film, voce fuori campo di Cocteau:

"La leggenda di Orfeo è ben conosciuta. Nella mitologia greca, Orfeo era un cantore della Tracia. Il suo canto affascinava anche gli animali ma lo distraeva dalla moglie Euridice. La Morte gliela tolse. Lui discese agli Inferi ed usò il suo canto per ottenere di ricondurre Euridice nel mondo dei vivi. A condizione di non guardarla. Ma lui la guardò e venne fatto a pezzi dalle Baccanti.
Dove si svolge la nostra storia, ed in quale epoca? E' privilegio della leggenda essere senza tempo.
Fate come volete. Interpretate come volete
..."

Ecco come lui, Cocteau, interpreta questa leggenda nel suo film.

Parigi, anni cinquanta. Durante una rissa al Café des Poètes, luogo di raduno di giovani artisti e scrittori, il celebre poeta Orfeo (Jean Marais) assiste ad un incidente nel corso del quale il diciottenne poeta Cégeste (Edouard Dhermitte) muore, investito da due motociclisti.

La Principessa (Maria Casarès) in compagnia della quale Cégeste era arrivato fa mettere il corpo sulla sua Rolls Royce guidata da Heuterbise (François Périer) e vi fa salire anche Orfeo.

Giungono ad una casa abbandonata, dove li aspettano i due motociclisti che hanno ucciso Cégeste ed Orfeo capisce che essi agiscono secondo gli ordini della Principessa.

La Principessa rianima Cégeste e quando lei gli chiede:"Sai chi sono io?" il giovane risponde: "Si, la mia Morte" e giura che le obbedirà in tutto.
Entrambi subito dopo scompaiono attraversando uno specchio, sotto lo sguardo stupefatto di Orfeo che non riesce a seguirli e sviene.

La Principessa (Maria Casares) e Cégeste (Edouard Dhermitte)

Quando l'indomani Orfeo rinviene si ritrova in un deserto. La casa non c'è più. Ad attenderlo trova però la Rolls Royce che, guidata da Heuterbise, lo riporta a casa.
La moglie di Orfeo, Euridice (Marie Déa), incinta, nonostante Orfeo sia tornato è molto preoccupata per la scomparsa del marito e per il suo strano comportamento.

Euridice (Marie Déa) ed Heuterbise (François Périer)

Orfeo infatti è nervoso, insolitamente scortese, e trascorre il suo tempo all'interno della Rolls intento a captare sulle onde corte strani messaggi poetici. Euridice -- nonostante Heuterbise cerchi di metterla in guardia -- decide di uscire per andare a cercare Aglaonice (Juliette Gréco) e viene, a sua volta, investita dai due motociclisti. La Principessa penetra nella sua stanza attraverso lo specchio e la porta con se nel regno dei morti. Heuterbise protesta, l'accusa di avere agito senza esserne stata autorizzata e perchè si è innamorata di Orfeo. Aiuta poi lo stesso Orfeo ad attraversare lo specchio perchè egli possa recarsi nell'aldilà a testimoniare dinanzi al tribunale del mondo dei morti. I giudici condannano la Principessa ed autorizzano Orfeo a riportare Euridice tra i viventi, a condizione però che egli non la guardi mai più.

Non è facile seguire questa regola nella vita quotidiana della coppia; Orfeo è sempre più irritabile, ricomincia ad ascoltare i messaggi radio della Rolls Royce, senza rendersi conto che sono composizioni poetiche di Cégeste. Ma Euridice incrocia incidentalmente lo sguardo di Orfeo nello specchietto retrovisore della macchina e viene subito ricacciata nel regno dei morti.
Un gruppo di artisti, trascinati dalle Baccanti (Juliette Gréco e Anne-Marie Cazalis) fa nello stesso tempo irruzione a casa di Orfeo accusandolo di essersi appropriato delle opere di Cégeste. Orfeo viene mortalmente ferito durante lo scontro e si ritrova tra i morti assieme ad Euridice.
Orfeo è affascinato dalla Principessa-Morte ma questa, che si è innamorata di lui, si mette d'accordo con Heuterbise per rinviarlo tra i vivi: "Davanti al Poeta, la Morte deve sacrificarsi", dice.

Orfeo, tornato a casa, ritrova la sua Euridice. Entrambi sono convinti che sia stato tutto un brutto sogno. Un incubo.

Heuterbise, a sua volta innamorato di Euridice, e la Principessa, vengono infine condannati dal tribunale dell'aldilà per alto tradimento.

Orphée è un dramma metafisico e fa parte di una trilogia, assieme a Le sang d'un poète (1930) e a Le testament d'Orphée (1960). In esso, Jean Cocteau riprende il soggetto da una sua opera drammatica del 1925 e trasporta il mito agli anni Cinquanta.

L'Orfeo di Cocteau non finisce tragicamente. La Morte, innamorata del Poeta, lo risparmia. L'epilogo non ha nulla di eroico: Orfeo si ricongiunge alla moglie Euridice in una promessa di tranquillo e duraturo amore coniugale.

Il mito greco, nella versione moderna pensata e realizzata da Cocteau può apparire, per il suo felice epilogo, come "demitizzato". L'ambientazione in una metropoli contemporanea, il Café des Poètes che richiama il Café Flore, le Baccanti che non sono altro che un Club letterario presieduto da Aglaonice e la Principessa-Morte che si muove su una Rolls Royce, contribuiscono a fare di Orfeo non un eroe tragico ma un moderno intellettuale borghese.

La caratteristica del film è una estetica della fascinazione con la quale Cocteau riesce a realizzare una suspense degna di un grande noir.
Lo schematico riassunto che ho fatto della storia non può in alcun modo rendere l'idea del fascino del film.

L'uniforme dei due assistenti motociclisti, i guanti di caucciù che permettono di passare attraverso lo specchio, i blocchi di pietra che rappresentano l'inferno (o la Zona, come piuttosto la chiama Cocteau), le rovine della casa abbandonata ed altre mille stupefacenti idee di scenografia come la superficie degli specchi che si trasformano in acqua al semplice contatto delle mani, la Rolls che cammina in un paesaggio fotografato al negativo, le false prospettive, il trompe-l'oeil, l'inesistenza della legge di gravità nel mondo dei morti contribuiscono a creare un alto grado di fusione poetica.

Il tema dell'amore e della morte è esplorato nelle sue implicazioni culturali (teatro greco, romanticismo tedesco, espressionismo) e psicologiche. Ma Cocteau gioca anche con l'estetica del romanzo popolare e dei feuilletons. Il risultato è un vero e proprio... realismo dell'irreale.

La Principessa - La Morte (Maria Casares)

Aglaonice (Juliette Gréco)

Ritornano qui tematiche già presenti in Le Sang d'un poète: il rapporto del poeta con il tempo e con la morte e la sua funzione di raccordo tra il mondo reale e quello dello spirito. Soprattutto, ritroviamo anche qui il narcisismo e la presenza ossessiva degli specchi, che permettono il passaggio nel mondo dell'aldilà (e quindi dell'immaginazione).

"Vi rivelo il segreto dei segreti" dichiara Heuterbise ad Orfeo"gli specchi sono le porte attraverso le quali la morte viene e va. Del resto, guardatevi tutta la vita in uno specchio e vedrete la morte lavorare come api in un alveare di vetro".
Lo specchio registra "la morte al lavoro", ma per Cocteau la modulazione attiva e violenta di questo motivo conferisce lo straordinario potere di operare le traversate, le metamorfosi e le resurrezioni per quanto eretiche, per quanto tormentate. Gli specchi di Cocteau aprono un oltre-mondo segreto, fantasmatico, interdetto.

Orphée è un poeta ufficiale in lite con l'avanguardia rappresentata dai giovani Cégeste e Aglaonice, ma è anche un uomo alla ricerca di un'identità.
Per ottenere la ricchezza dei tanti simboli presenti nel film e che sono riconducibili da un lato alla mitologia classica, dall'altro al mondo poetico personale di Cocteau, le immagini di gusto un po' barocco e per trasportare nelle inquadrature le avventure fantastiche di Orphée sono stati necessari molti effetti speciali. Lo specchio attraverso cui passano la Principessa-Morte, i suoi due assistenti motociclisti e poi anche Heuterbise ed Orfeo era costituito, ad esempio, da una vasca di mercurio in cui si immergevano gli attori.

Qualche parola sul cast. La parte del poeta era interpretata dall'attore preferito di Cocteau, Jean Marais. Con lui Cocteau ha lavorato anche per La Belle et la Bête del 1946 e L'Aigle aux deux têtes del 1947. Personalmente, Jean Marais mi è sempre sembrato espressivo quanto un armadio, ma Cocteau evidentemente la pensava in modo diverso.

Maria Casarès era invece una grande attrice. Interprete teatrale di Shakespeare, Strindberg, Brecht, Racine e indimenticabile protagonista, al cinema, di Les enfants du Paradis di Marcel Carné (1943) e di Les dames du bois de Boulogne di Robert Bresson (1944) dà qui, nel ruolo della Principessa-Morte una delle prove migliori della sua carriera cinematografica.

Edouard Dhermitte era un ex minatore, giardiniere di Cocteau a Milly-la-Fôret a cui Cocteau si era molto legato e che impose anche a Melville per il ruolo di Paul quando si trattò di trasporre sullo schermo Les enfants terribles. Tra gli esperti della vita e delle opere di Cocteau c'è chi vede, nel personaggio del poeta adolescente Cégeste --- che muore ma i cui versi arrivano a Orfeo dall'aldilà --- il ricordo di Raymond Radiguet, il giovane autore di Le diable au corps e grande amore di Cocteau. La morte di Radiguet, avvenuta quando aveva appena vent'anni (come il Cégeste del film) aveva gettato lo scrittore nella disperazione e nel baratro dell'oppio. Affidando al suo nuovo giovane pupillo Dhermitte il ruolo di Cégeste, Cocteau rendeva omaggio a Radiguet, da lui mai dimenticato.

Il ruolo di Aglaonice, la giovane Baccante, non a caso venne affidato a Juliette Gréco, musa degli esistenzialisti e regina delle caves della rive gauche.

Le musiche originali di Orphée, sono anche questa volta di Georges Auric, uno dei componenti del gruppo Les Six.

Una curiosità: nel film compaiono anche in minuscole particine il regista Jean Pierre Melville (nel ruolo del direttore dell'hotel) e lo scrittore Claude Mauriac che impersona uno dei giudici dell'oltretomba.

Cocteau dedicò questo film a Christian Bérard, l'amico con cui aveva lavorato all'epoca di La Belle et la Bête e che proprio prima della sua morte, aveva cominciato a disegnare gli abbozzi per la scenografia ed i costumi di Orphée. I costumi vennero poi creati da Marcel Escoffier.


L'Orphée di Philip Glass

Fa parte del trittico che negli anni tra il 1993 ed il 1996 Glass compose basandosi sulla prosa e sui film di Jean Cocteau: Orphée (1949), La Belle et la Bête (1946) ed il racconto Les Enfants Terribles (1929). L'opera è anche un omaggio musicale ai Les Six, il gruppo di compositori francesi associati a Cocteau. Orphée è sia concettualmente che musicalmente ispirata all'opera Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck.

Syriana

Syriana, di Stephen Gaghan (2500) Dal libro di Robert Baer, Sceneggiatura di Stephen Gaghan Con Kayvan Novak, George Clooney, Amr Waked, Christopher Plummer, Jeffrey Wright, Chris Cooper, Robert Foxworth, Nicky Henson, Nicholas Art, Matt Damon, Amanda Peet, Steven Hinkle, Daisy Tormé Musica: Alexandre Desplat Fotografia: Robert Elswit (126 minuti) Rating IMDb: 7,2
Nicola
Due gruppi petroliferi statunitensi si fondono. Un agente della CIA fallisce nel tentativo di assassinare un principe arabo riformista che vuole vendere il petrolio ai migliori offerenti (i cinesi). Un operaio pachistano che lavora nel Golfo, dopo aver perduto il lavoro, si avvicina a un gruppo terrorista fondamentalista. Questi sono i faldoni principali di Syriana, un film-dossier di argomento petrolifero che, col barile sopra i 100 dollari, ha un interesse ancor maggiore.

Il film è americano, fortemente voluto dal protagonista Clooney, che fu anche coproduttore, costò 50 milioni di dollari e fu distribuito dalla Warner: si tratta di un film tutt'altro che di nicchia o "indipendente". Eppure si tratta di un film che viola le due regole fondamentali del film di cassetta: avere una trama, avere al proprio centro almeno un personaggio che faccia scattare nello spettatore medio americano la molla dell'autoidentificazione (un personaggio avente "quasi" queste caratteristiche c'è, ma è periferico e le verifica solo in parte).

I tre temi apparentemente slegati che costituiscono gran parte del film hanno tutti a che fare con la compagnia petrolifera americana e con la strategia di CIA e Dipartimento di Stato in Medio Oriente. Alcuni personaggi, perlopiù non centrali, fanno da legante. La tesi del film non è nuova, ed è probabilmente vera: gli Stati Uniti preferiscono nel Golfo monarchie retrograde, ma corruttibili, a regimi liberali, ma capaci di difendere i propri interessi.Più che la tesi, però, mi hanno interessato alcune scelte cinematografiche, più e meno riuscite, tutt'altro che banali e politicamente non neutre.Di film "a faldoni" a me vengono in mente altri due esempi, entrambi italiani: La Battaglia di Algeri di Pontecorvo e Le Mani sulla Città di Rosi. Si tratta di film il cui scopo è di dare una "sensazione di realtà", rinunciando a tutto un complesso e sapiente armamentario retorico-artistico. La sensazione di realtà si ottiene giustapponendo diverse informazioni, senza esplicite istruzioni su come metterli insieme (le istruzioni, ovviamente, ci sono; ma richiedono uno sforzo mentale da parte dello spettatore). I personaggi vengono quanto più si può privati di quelle caratteristiche che fanno scattare la repulsione o, al contrario, il desiderio di emulazione: si crea così l'ilusione di un luogo aperto a ogni possibilità, dove è lo spettatore a dover decidere, mentre il regista si mantiene -per così dire- neutro.

Ora, è vero che regista e sceneggiatori NON POSSONO restare neutrali, ed è altrettanto vero che c'è SEMPRE un'economia della simpatia che avvantaggia la tesi del film contro la sua antitesi; è altrettanto vero che l'appello al ragionamento da parte dello spettatore è reale, e che una volta avviato, non è detto che il ragionamento risparmi la tesi stessa del film (mi avranno detto tutto?, dove posso informarmi meglio?). Si tratta di una maniera di procedere cinematograficamente assai diversa dall'appello, pompieristico o eroico che sia, alle emozioni immediate.

Un'altra possibilità che viene aperta da questa maniera di procedere ragionante è quella di rappresentare con sincerità, se non con verità, l'altro da sé. In soldoni, possiamo vedere la storia di un operaio pachistano del Golfo senza che ad aiutarci ci sia il solito impiegato americano che lo aiuta, lo interroga, cerca di rapportarsi con lui. Il nostro giovane (e bello) operaio è un personaggio che esiste in sé, non perchè noi si ha con lui un qualche tipo di relazione. In Syriana questo ragazzo, che vorrebbe essere normalmente e pachistanamente responsabile e spensierato, scende quasi impercettibilmente i gradini che lo portano nei sotterranei del terrorismo saalafita. Un altro esempio è dato dal principe riformista: un personaggio che esiste in sè, per cui la relazione con un occidentale (il giovane consulente finanziario) non è essenziale ai fini dell'esistenza. Altri personaggi minori (lo sceicco di Hezbollah, il doppiogiochista terrorista...) hanno la stessa irriducibie realtà, il che costituisce per me uno degli aspetti più interessanti del film, soprattutto in tempi di scontro di civiltà.

Va anche detto che questo film non è riducibile a Rosi e Pontecorvo. C'è dietro tutta la lezione del cinema spionistico americano "progressista" e cospiratorio (I Tre Giorni del Condor, per esempio). C'è la sperimentazione di nuove maniere di concepire il realismo visivo di cui i serial americani sono da sempre maestri (la camera a spalla, le immagini "sporche", il montaggio quasi casuale, le frequenti ellissi...). Una lezione che non sempre migliora il film: a volte il ragionamento richiesto è quello di ricostruire i fatti in sè (perchè diavolo quella macchina è esplosa?), piuttosto che le motivazioni profonde o le complesse dinamiche geo-economiche.
Nel pre-finale, il regista non resiste alla tentazione di unire personaggi che dovevano stare divisi e di drammatizzare -sia pur con misura- una tardiva, quanto inutile redenzione.

venerdì 28 marzo 2008

Come inguaiammo il cinema italiano

Come inguaiammo il cinema italiano - La vera storia di Franco e Ciccio Sceneggiatura e regia di Daniele Ciprì e Franco Maresco Con Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Lando Buzzanca, Pino Caruso, Tony Bruno, Antonietta Scalisi Bonetti, Gregorio Napoli, Tatti Sanguineti, Giuseppe Ciprì Musica: Salvatore Bonafede Editorial Department: Mauro Vicentini (100 minuti) Rating IMDb: 7.1
Solimano
Cos'è, un film o un documentario? L'uno e l'altro, più approfondito di molti documentari, più coinvolgente di molti film. Chi è interessato al cinema in generale, al meccanismo del riso in particolare ed alla sempre drammatica storia degli artisti comici è bene che lo veda. Si ride, più ancora che per gli spezzoni a volte mirabili di Franco e Ciccio, per il modo definito surreale e cinico di Ciprì e Maresco, che mi lascia spesso incantato, mi fa pensare e ridere, il massimo. Di loro, mi piacque un altro documentario: Enzo, domani a Palermo!

Una premessa doverosa. Io Franco e Ciccio li ho visti solo nei film che non c'entrano niente con i 150 film che hanno fatto, li ho visti nel Pinocchio di Comencini, in Amarcord di Fellini e in Kaos dei fratelli Taviani. Uno dei loro primissimi film lo vidi, ma fu una storia strana. Ero lontano dalla mia città per lavoro e una sera, con altri colleghi, andammo insieme al cinema. Il film lo scelse un napoletano, il titolo non lo ricordo. Il collega era normalissimo sul lavoro, sveglio e intelligente, ma quella sera mi sorprese. Appena appariva uno dei due, o Franco o Ciccio (ma generalmente erano sempre insieme), cominciava a ridere, ma a ridere a gola piena ed a bocca aperta, che sicuramente lo sentivano tutte le trenta file davanti. Appena se ne andavano, smetteva di ridere, probabilmente per prendere fiato. A me non facevano ridere, li trovavo banali e volgari, e il mio divertimento della serata fu seguire il decorso del collega, che non solo rideva, ma si staccava con la schiena dal sedile, per essere ancora più vicino ai suoi due eroi. E quindi, i 150 film non li ho visti e neppure li guardavo alla televisione.

Ciprì e Maresco non esaltano né denigrano, picchiano duro, a volte drammatici, a volte teneri, sempre spiritosi, soprattutto quando chiedono pareri a critici di cinema: Kezich, Fofi, Napoli. Fra i registi ricordo soprattutto Monicelli, Wertmuller e Bertolucci, preoccupato che Ultimo tango a Zagarol (1973), capitale opera di Nando Cicero, entri nella storia del cinema al posto del suo Ultimo tango a Parigi (1972). Franco Franchi -al posto di Marlon Brando- utilizza il burro per metterlo su un paninazzo! Il massimo gastronomico della depravazione...

Qui c'è da fare un discorso che cerco di tenere corto. Vorrei vedere nelle librerie Anobii, oggi così popolari in rete, quanti sono i Cervantes, Rabelais, Folengo, Porta, Belli. Anche Aristofane e Tito Maccio Plauto. E quanti, fra le più importanti e belle opere di Shakespeare, si ricordano di mettere la storia inglese Enrico IV, in cui c'è il vero e prodigioso Falstaff. Ma che c'entra Falstaff con Ciccio e Franco? Nulla, tranne la talentuosità iniziale, però le strade sono state ben altre, per tanti motivi, anche per responsabilità di ogni tipo di Franchi e Ingrassia. Quando qualcuno gli ha offerto una occasione: Comencini, Fellini, i Taviani, Petri, quei due (o Ingrassia da solo) l'hanno colta bene. Si cita Peter Sellers più per la parte in Lolita che per Hollywood Party (che è più importante nella storia del cinema di Lolita, persino Giuliano sarebbe d'accordo). A chi fa ridere bisogna storicamente fargliela pagare, ci sarebbe stato meno can can di critiche se avessero dato il Nobel a Patroni Griffi che a Dario Fo, e Nanni Moretti viene chiamato guitto perché ogni tanto fa anche ridere (meno di una volta, mi dispiace). E' la vecchia storia della separazione dei generi: stile umile, stile medio, stile alto, che sotto svariate forme si ripresenta anche nei blog, che pure si atteggiano a mondo nuovo.

Il film scava sulla storia delle famiglie dei due, entrambi strapelati e nati nei vicoli di Palermo. Il più malmesso era Franco (per ironia della sorte, il cognome vero era Benenato), che perse dei fratelli per malnutrizione e per anni fece il comico di strada, ma anche Ciccio non scherzava, era un buon riparatore di tomaie.
Ci sono spezzoni di film, di apparizioni teatrali o in TV, con interviste a critici, registi ed attori da una parte, dall'altra a parenti, fratelli e figli soprattutto. Tre apparizioni di un fratello e due sorelle di Franco sono veramente spassose, il talento era di famiglia.

Le due signorine sono le gemelle svedesi Mia e Pia Genberg

Così appare il peggio (probabilmente nell'anno in cui fecero diciassette film) ed il meglio, spesso degli spettacoli iniziali e poi di Pinocchio, Amarcord , Kaos e Todo modo. Ci sono degli spezzoni in cui non ne sbagliano una, come Stanlio ed Ollio con un dippiù di acrobazia. Per dare l'idea dell'ambiente, racconto due episodi del film.
Quello in cui accadde che dopo il successo di Rinaldo in Campo fecero alcune richieste piccole, e la moglie di Modugno gli mandò a dire che suo marito, come li aveva tirati su, ci metteva un niente a buttarli giù.
L'altro episodio, è Pippo Baudo che lo racconta di persona. Una sera era a tavola al ristorante col giro De Lullo, Rossella Falk etc e nel ristorante entrò Franco Franchi col suo gruppo. Niente saluti, si ignoravano a vicenda. Ma dopo un po' si sente per tutto il ristorante la voce robusta di Franco: "Pippo, vieni qui, ti offriamo noi il pranzo. Cosa stai lì a fare? E' con noi che ti diverti!" Silenzio di gelo, Baudo confessa che non sapeva che fare, perché quelli del suo tavolo gli facevano capire che doveva mandare al diavolo gli scalzacani. E' patetico il racconto di Baudo perché appare come è: uno che vuol piacere a tutti e che rischia quindi di non piacere a nessuno.

Durante gli anni del grande successo, il dramma: i due cominciano a litigare, probabilmente non ne potevano più l'uno dell'altro. Riappacificazioni farlocche ed un rancore di fondo. Qui il tono è drammatico perché -racconta Monicelli- quando doveva trattare con Franco e Ciccio per un film che poi non si fece, si presentarono in quattro: loro due più gli avvocati, che si parlavano l'un l'altro, loro due no. Ma ancor peggio durante gli spettacoli: si sedevano a dieci metri di distanza senza neppure guardarsi in faccia, salvo fare i soliti numeri da amiconi appena sul palcoscenico.

Anche per questo cominciarono a perdere pubblico nei cinema, ma il colpo duro lo diede il filone erotico-boccaccesco, che imperversò con gli stessi registi che avevano lavorato con loro. Infine, l'approdo in TV, ed è la parte più dolorosa del film. Franco e Ciccio rifanno per la millesima volta gli stessi sketch, ma soprattutto è impressionante il pubblico televisivo durante le false dirette, quelli cha applaudono quando si accende la scritta "applausi". Avrebbero avuto bisogno di persone che ridessero come rideva il mio collega napoletano, quello con cui vidi l'unico loro film.

Per Franco Franchi, ci fu anche l'accusa di frequentazioni mafiose: per lui, ragazzetto cresciuto nei vicoli, che lo chiamasse alle feste un Michele Greco era il raggiungimento di uno status symbol. Franco scomparve nel 1992 e Ciccio nel 2003. L'impressione, sentendo parlare la figlia di Franco ed il figlio di Ciccio è che abbiano avuto una vita familiare che li ha aiutati negli anni dei dispiaceri, perché fare 150 film tutti dello stesso genere e con le stesse mosse (salvo qualche variazione ogni tanto) fa pensare a molto rumore per nulla, un destino frequente nel cinema. Furono certamente felici negli anni della crescita, potendo rilanciare sempre davanti a sé la palla frenetica della speranza, che però si sgonfia senza avvertirci, così ce la troviamo moscia fra i piedi. Il film è duro e affettuoso, spiritoso ma anche drammatico, lucido e pieno di vita. Riserva pietà agli artisti, perché tali nativamente erano, e irrisione sarcastica a quel mondo, che adesso si è spostato quasi tutto in TV. Regole apparentemente più soffici, ma siamo sempre lì: li usano poi li gettano.

Una delle sorelle di Franco

mercoledì 26 marzo 2008

La pittura nel cinema: Siamo donne

Isa Miranda nel film Hotel Imperial (1939)

Solimano
Nel 1953 fu girato il film Siamo donne, che ebbe una storia strana, come succedeva quasi sempre quando di mezzo c'era Cesare Zavattini. L'idea di Zavattini fu di fare un film in cui quattro celebri attrici si raccontassero, interpretando un episodio vero della loro vita. Facile a dirsi, meno facile a farsi, anche perché due delle attrici dovevano essere Ingrid Bergman e Anna Magnani, i cui rapporti non erano rose e fiori, come noto a tutti. Il problema fu risolto facendo sì che i registi fossero quattro, uno per ogni attrice, così Roberto Rossellini diresse Ingrid Bergman e Luchino Visconti diresse Anna Magnani. Le altre due attrici furono Alida Valli (diretta da Gianni Franciolini) e Isa Miranda (diretta da Luigi Zampa).
Il film ha diversi motivi di interesse, ne scriverò fra un po' di tempo. Qui racconto l'inizio dell'episodio di Isa Miranda perché si svolge in modo curioso, come si vede dalle immagini che inserisco.

L'attrice si sofferma per alcuni minuti a descriverci la sua casa, che era a Roma sulla Nomentana. Più che la casa, ci fa vedere le sue collezioni di fotografie, di premi, di sceneggiature, di ogni cosa a cui teneva. Ma soprattutto ci mostra la collezione a cui era più affezionata: i ritratti che le avevano fatto molti pittori. Allora ne aveva quaranta, probabilmente crebbero ancora nel tempo perché la carriera cinematografica di Isa Miranda era quasi finita e il farsi ritrarre era una inevitabile compensazione del narcisismo insoddisfatto. Negli attori il narcisismo è indispensabile, il problema è gestirlo bene. Ma credo che noi tutti ce l'abbiamo, secondo le immortali parole di Nanni Moretti: "Mi si nota di più se ci sono o se non ci sono?"



Quello che però mi ha sorpreso sono gli otto nomi di pittori che ci dice Isa Miranda: Mafai, De Pisis, Pirandello, Savinio, De Chirico, Scialoja, Guttuso, Bartoli. Il che significa che la sua collezione non era una accozzaglia di ritratti fatti da ammiratori volonterosi, era una cosa molto seria. Le immagini sono tratte dal film, nella prima c'è una specie di parete introduttiva, in cui ci sono dei ritratti fotografici della Miranda, nella seconda immagine la collezione di vede in un grande specchio, nelle altre immagini si susseguono i quadri, salvo una immagine centrale che è tratta di un episodio del film: Isa Miranda ha portato all'ospedale un bambino che si è ferito per lo scoppio di un barattolo di carburo e sta cercando di confortarlo.

Isa Miranda nel film Siamo donne (1953)

Avevo un'idea ambiziosa: trovare alcune riproduzioni a colori dei quadri ed inserirle qui, ma per in momento non ci sono riuscito. Però ho appreso alcune cose che non sapevo e che mi hanno fatto capire meglio il perché delle scelte di Isa Miranda. Era molto amica di Cesare Zavattini, che abitava nello stesso palazzo sulla Nomentana. Zavattini era un personaggio vulcanico, era anche pittore e quei pittori li conosceva tutti.



Non solo, sempre negli anni Cinquanta organizzò una mostra a Firenze della "Collezione Isa Miranda", esponendo questi quadri (quaranta, o sessanta che fossero divenuti nel frattempo).
Poi... silenzio.
Isa Miranda è scomparsa nel 1982, dopo essere stata sola per mesi in ospedale, un anno dopo la morte del marito Alfredo Guarini, che era stato il produttore di Siamo donne.
Dove sarà la sua collezione di ritratti? Dispersa oppure ancora integra da qualche parte? Mi piacerebbe che questo post fosse aperto a modifiche, vorrei saperne di più, e c'è un motivo che riguarda il film. L'episodio di Isa Miranda non è il meglio del film, ma è la parte più vera. Mentre le altre attrici hanno risolto il problema raccontando di sé dei fatterelli gradevoli, Isa Miranda, che era nata nel 1905, nel film racconta una sua sofferenza: il rimpianto di non avere avuto un figlio.

Isa Miranda in una foto di studio