venerdì 31 luglio 2009

I caratteri nel cinema: Manuel Fantoni (1)

Angelo Infanti (Cesare Cuticchia alias Manuel Fantoni)

Borotalco di Carlo Verdone (1982) Storia e sceneggiatura di Enrico Oldoini e Carlo Verdone Con Carlo Verdone (Sergio Benvenuti), Eleonora Giorgi (Nadia Vandelli), Christian De Sica (Marcello), Angelo Infanti (Cesare Cuticchia alias Manuel Fantoni), Enrico Papa (Cristiano), Roberta Manfredi (Rossella), Mario Brega (Augusto), Isabella Gallinelli (Valeria), Isabella De Bernardi (Agente di vendita), Moana Pozzi (Ragazza nuda in piscina) Musica: Fabio Liberatori, Stadio, "L'ultima luna" e "Cara" di Lucio Dalla (107 minuti) Rating IMDb: 6.8

Solimano

A ventisette anni dall'uscita del film "Borotalco" di Carlo Verdone (1982), gli studiosi non hanno ancora dato una risposta definitiva alla domanda cruciale: l'architetto Manuel Fantoni esiste o no? Perché si fa presto a dire che è solo un nom de plume assunto dal piccolo avventuriero Cesare Cuticchia (Angelo Infanti), ma l'andamento misterico del film lascia questioni ancora irrisolte. Verrebbero in mente i dieci avatar di Visnù (che era un piccolo dio, solo successivamente entrato nella Trimurti). E nei dieci avatar c'è di tutto: il nano, il cinghiale, la testuggine, l'uomo-leone. In alcune scritture gli avatar sono addirittura ventitrè e i nomi mille. E il greco Proteo da cui proteiforme. Culti antichissimi, ma c'è anche un culto moderno: Quelo, propalato da Corrado Guzzanti. Un pezzo di legno con dei chiodi, ma che dà delle risposte più criptiche di quelle dell'oracolo di Delfi: "La seconda che hai detto, solo che è sbagliata". Ho seguito il film nel suo dipanarsi ed ho trovato, prima della comparsa dell'architetto Manuel Fantoni, un indizio significativo.

Sergio Benvenuti (Carlo Verdone), il venditore porta a porta dell'enciclopedia "I Colossi della Musica", si piazza davanti ad una chiesa con un cartello in cui ha scritto: "La musica avvicina a Dio". Non vende lo stesso, ma è un indizio di ciò che succederà in seguito, cioè l'irrompere nella banalità quotidiana del sorprendente, dell'inatteso: Manuel Fantoni, appunto.
Dovevano andare in due dall'architetto, Sergio e la migliore venditrice del gruppo, Nadia Vandelli (Eleonora Giorgi) da cui Sergio vorrebbe apprendere i segreti del mestiere. Nadia arriva in ritardo, perché a Roma c'è Lucio Dalla per un concerto e lei cerca tutti i modi per conoscerlo, oltre a comprare i biglietti per il concerto. Un altro segno del destino, forse.



A Sergio apre la porta una giovane donna che indossa un accappatoio piuttosto corto e che lo conduce nello spazioso soggiorno dell'architetto. Un'altra donna (Moana Pozzi) nuota nuda in una piscina contigua al soggiorno, come se fosse in una vasca da pesci. Sergio non è abituato a questa promiscuità; è fidanzato con Rossella (Roberta Manfredi) la figlia del pizzicagnolo Augusto (Mario Brega), che può essere una minaccia, se il fidanzato della figlia non si comporta bene.


Manuel Fantoni (Angelo Infanti) sta parlando al telefono e Sergio ascolta: "La verità non esiste. La vita è un palcoscenico. Datti una smossa, ma uno come te con Laura non ce può fare", così Manuel Fantoni. E mentre un'altra donna lo massaggia, si accorge di Sergio: "Lei è della SIP?" "No, dei Colossi della Musica".



Sergio guarda ammirato i ritratti di artisti appesi alle pareti. Su ogni ritratto, oltre alla firma c'è una dedica personalizzata a Manuel, personaggio versatile, che sa passare dal quasi pecoreccio al drammatico spinto, al tragico addirittura:

"Raquel Welch non è più una bambina. Davanti non ha i seni, ma du' borracce. Al posto dei capezzoli ha dei chiodi a cui puoi attaccare un quadro"
"A casa eravamo sei fratelli. Mio padre fu ucciso dai tedeschi. Mia madre dovette scendere sul marciapiedi. Allora, ero bello come il sole".

Ed ecco la mazzata risolutiva:

"E così optai per il mare.
A Genova mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana. Feci due volte il giro del mondo. Non riuscii mai a capire cosa trasportasse quella nave. Ma un giorno lo capii: droga
" "Ma la Liberia è a nord o a sud?" chiede Sergio. "Boh!" risponde Manuel.
E intanto lascia accesa la segreteria telefonica:

"Manuel, amore, perché fai così? Perché ti nascondi?"
"Manuel, amore, non sei ancora tornato? Sono ancora io".

E che John Wayne è frocio... "Noooo!", fa Sergio, e che Richard Burton sbronzo ha vomitato sulla moquette del salotto e l'ha dovuto buttare fuori di casa, e che "Fu allora che mi dissi: Manuel, fatti da solo. E andai a Parigi a fare il cameriere"


Anche in cucina Manuel continua (Sergio fa da sguattero). Manuel ha le lacrime agli occhi, ma dice che è stata la cipolla.
Finché cambia registro:

"Non è vero niente, ti ho raccontato un sacco di fregnacce"
"Perché?"
"Mi annoio. Allora invento, sogno, divago".
"Ma le fotografie?"
"Avevo un ristorantino, e chi passava, lasciava la foto con la firma e du' parole".

E arriva la polizia, con un mandato di cattura per Cesare Cuticchia, che lascia le chiavi a Sergio perché pulisca i piatti in cucina altrimenti arrivano le formichine.



A quel punto, Sergio Benvenuti dovrebbe andarsene (dopo aver pulito i piatti) dicendosi: "Beh, mi sono anche divertito". E invece no. Questo è lo snodo del film: Manuel Fantoni risorge dalle sue ceneri, ed è Sergio Benvenuti a divenire Manuel Fantoni. Perché Cesare Cuticchia aveva detto che ci vuole il nome e il cognome giusto, Manuel Fantoni appoggia bene. Così, quando arriva Nadia Vandelli, non si trova di fronte l'imbranato Sergio Benvenuti, ma l'architetto Manuel Fantoni. Il colpo alla ragazza lo dà la fotografia di Lucio Dalla: "A Manuel con stima, amicizia e tanta simpatia. Lucio Dalla".




Il nuovo Manuel se è allenato davanti allo specchio col cargo liberiano, ma mette del suo fieno in cascina:

"Più che bella, la mia vita è stata un'odissea".
"Burt Lancaster? Com'è? Alcolizzato totale, poveraccio".

E commuove Nadia con la storia dolorosissima:

"Una bel giorno a Bombay incontro una ragazza mezza cinese mezza giapponese... " nascerà un figlio che a Manuel manca tanto, non glielo fanno vedere.
Nadia è talmente presa che fa una domanda intima;

"Di che segno sei?" "Scorpio!" "L'avrei giurato!"



Poi Nadia se ne va: "Potremmo anche sentirci qualche volta", solite cose che si dicono. Solo che Sergio si accorge che Nadia si è scordata l'agenda sul divano. Che strano, non sembrava per niente una ragazza distratta. Bisognerà fare in modo che recuperi l'agenda, fra l'altro ci scrive sopra anche delle robe intime. Chi fa questi pensieri, Manuel o Sergio? Lo vedremo.
(continua)

giovedì 30 luglio 2009

Bristow


Ermione

Bristow è nato in Inghilterra nel 1960 dalla matita del disegnatore Frank Dickens. All'inizio si trattò di un omino in bombetta che aspetta l'autobus insieme a tanti altri omini in bombetta, pronti per andare al lavoro: Dickens scrisse "Odio il lunedì" sopra ognuna delle loro teste. Poi il personaggio si è delineato autonomamente, ed ecco qua l'impiegato medio inglese, seguito all'interno del suo posto di lavoro, l'ufficio acquisti della mastodontica e monolitica ditta Chester Perry.
In Italia si è visto per la prima volta nel 1966, sulla rivista Linusestate, ed è stato poi pubblicato continuativamente su Linus per parecchi anni.



Svogliato, lavativo e perditempo, Bristow siede alla sua scrivania cercando di fare il meno possibile, fantasticando e meditando piccole rivolte che non attuerà mai; è fondamentalmente bonario e ottimista, pur sentendosi prigioniero della ditta, del suo capo ufficio Fudge, collerico e irascibile, e del potentissimo Sir Reginal Chester-Perry, che non vediamo mai di persona, ma solo dentro automobili lussuosissime ed infinite.



Mr. Fudge


Sir Reginald Chester-Perry.

Bristow non ama il suo lavoro, ma non potrebbe lasciarlo: tutto il suo mondo ruota intorno a questo universo chiuso che è la ditta, coi suoi personaggi di contorno: il collega Jones, la romantica dattilografa Miss Sunman, il giovane e ambizioso Hewitt, il consulente legale Mr.Cole, il ragazzo della posta, che si vocifera essere il nipote di sir Reginald, la donna del tè, Miss Purdy.



Le situazioni sono più o meno sempre le stesse: chiacchiere coi colleghi, galanterie verso le dattilografe, sotterfugi per sottrarsi al proprio lavoro, pause lunghissime, l'agognata uscita.






Frank Dickens è anche un bravissimo illustratore di libri per bambini, oltre che sceneggiatore radiofonico e televisivo, nonché di musical.

martedì 28 luglio 2009

Io non ho paura


Io non ho paura di Gabriele Salvatores (2003) Dal romanzo di Niccolò Ammaniti, Sceneggiatura di Niccolò Ammaniti, Francesca Marciano Con Giuseppe Cristiano (Michele), Mattia Di Pierro (Filippo), Adriana Conserva (Barbara), Fabio Tetta (Teschio), Giulia Matturo (Maria), Stefano Biase (Salvatore), Fabio Antonacci (Remo), Aitana Sánchez-Gijón (Anna), Dino Abbrescia (Pino), Giorgio Careccia (Felice), Antonella Stefanucci (Assunta), Riccardo Zinna (Pietro), Michele Vasca (Candela), Susi Sánchez (la madre di Filippo), Diego Abatantuono (Sergio) Musica: Ezio Bosso, Pepo Scherman Fotografia: Italo Petriccione (108 minuti) Rating IMDb: 7.6

Aurelio Tagliabue

LA DOLOROSA FINE DI UN’INFANZIA

Un romanzo di formazione
L’avventura estiva di un gruppo di ragazzini che per uno di loro, a sua insaputa, diventerà l’occasione per passare dall’ingenuità infantile ad un grado maggiore di consapevolezza della realtà, è la tematica principale del racconto di Stephen King Il corpo (Stand by me), ma anche del più recente romanzo di Niccolò Ammaniti Io non ho paura, che Gabriele Salvatores ha portato sul grande schermo, con la sceneggiatura dello stesso scrittore. Non c’è nessuna intenzione polemica in questa constatazione, semmai la volontà di evidenziare come l’ambientazione, i personaggi, il contesto che caratterizzano l’opera le assegnino una connotazione di originalità, benché siano riconoscibili in essa gli elementi tipici del romanzo di formazione, al quale appartiene anche il racconto di King. Infatti Michele, il giovane protagonista, si muove in mezzo a tanti falsi maestri, per poi realizzarsi grazie al contributo di un personaggio che, usando in senso lato la terminologia di Vladimir Propp, potremmo chiamare donatore: Filippo, un coetaneo rinchiuso in una buca scavata nel terreno dai suoi rapitori, uno dei quali è il padre di Michele stesso. Sarà dunque per mezzo di questo singolare incontro, che il protagonista potrà fare sua l’affermazione contenuta nel titolo del romanzo.

La trasposizione cinematografica nasce da un felice incontro: da una parte Ammaniti alla sua migliore prova come sceneggiatore , coadiuvato dall’esperta Francesca Marciano ; dall’altra Salvatores che, dopo pellicole poco convincenti, si ritrova particolarmente ispirato. Il regista milanese nel corso della sua carriera in una sola occasione aveva diretto un film tratto da un’opera letteraria , ma in questo caso non ha voluto occuparsi della sceneggiatura, concentrandosi sulla regia; forse è stata proprio questa scelta a favorire la riuscita del film. Per altro la vicenda che il romanzo racconta, contiene tematiche care al regista: il sud, l’incontro/scontro con le responsabilità della vita, il labile confine tra ciò che è legale e ciò che non lo è, l’inconscio e le sue paure… E se Salvatores ha dato il meglio di sé raccontando la propria generazione, Michele, che ha nove anni nel 1978, potrebbe essere il fratello minore che quella generazione guarda con affetto e forse un po’ di invidia.



Lo sguardo di un bambino
Era inevitabile, vista la presenza di Ammaniti fra gli sceneggiatori, che il film mantenesse una sostanziale fedeltà al romanzo. Eppure qualche modifica può essere notata nelle modalità della narrazione. Il narratore dell’opera letteraria è il protagonista stesso, che racconta i fatti a distanza di anni; anche in questo Io non ho paura ricorda The body, ma con la differenza che nel primo non troviamo nessuna traccia di nostalgia per l’epoca raccontata, semmai a caratterizzare la narrazione di Michele è una certa consapevolezza che solo a tratti affiora, in condivisione col lettore. Il punto di vista narrativo del film è invece affidato allo sguardo infantile del protagonista, lasciando allo spettatore la possibilità di intuire ciò che per lui è incomprensibile. Il 1978 è, nella memoria collettiva, l’anno dei tre papi, del rapimento e dell’uccisione di Moro, delle dimissioni del presidente Leone, ma nulla di tutto questo può appartenere alla vita di un bambino di nove anni di Acque Traverse, immaginaria località meridionale fatta di «quattro casette e una vecchia villa di campagna disperse nel grano» . Il film ci immerge nella sua realtà, fatta di gite in bicicletta, partite a pallone, giochi infantili, pomeriggi assolati in cui ci si annoia. Il resto del mondo non esiste: Michele non sa neppure cosa sia il rapimento di un bambino. La cifra stilistica di Salvatores è in questo senso semplice ed efficace, come egli stesso spiega: «La scelta di tenere la macchina da presa a un metro e trenta era necessaria per ritrovare lo sguardo di un bambino che guida il film».

Altre informazioni sono lasciate all’intuito del lettore ed alla sua capacità di interpretarle. Si pensi ad esempio all’ambientazione temporale. La vicenda si svolge, come si è detto, nell’estate del 1978 e nel romanzo lo scopriamo quasi subito. Nel film si può intuire il periodo dall’abbigliamento dei personaggi, da alcune battute, dal TG1 in bianco e nero condotto da Emilio Fede, dalle canzoni provenienti da una fonte sonora diegetica (una radio) e ancora da alcuni oggetti (le cinquecento lire di carta e i numeri dell’Intrepido) che potremmo quasi definire d’epoca.
Lo stesso discorso vale per l’ambientazione locale, mantenuta vaga nel romanzo e che anche nel film si può individuare in modo generico, tramite i dialetti e le targhe delle automobili. Le riprese sono state comunque effettuate nelle vicinanze di Melfi e i bambini che recitano sono originari della zona.
Ci sono infine situazioni in cui la macchina da presa, con un’apprezzabile invenzione di regia, sembra allontanarsi dal punto di vista del protagonista, per andare a cogliere a figura intera qualche insetto o qualche animaletto perduto tra il grano. Lo sguardo non è più quindi quello di Michele, ma è quello del regista che vuol comunicarci che quei paesaggi, quegli splendidi squarci naturali, le cui immagini sono spesso commentate da un tema musicale che ricorda il Canone a tre voci su un basso ostinato di Johann Pachelbel, nascondono numerose insidie. Sotto il bellissimo grano dorato c’è un pauroso buco nero, metafora di «come eravamo» afferma Salvatores «il giorno in cui dall’oro dell’infanzia, siamo dovuti passare al buio dell’età adulta».



Una fuga dalle illusioni
La crescita, il momento di passaggio sono resi evidenti da una serie di netti contrasti: il giorno e la notte, il buio e la luce, l’infanzia e l’età adulta, la paura e il coraggio. Michele si muove in un precario equilibrio, oscillando fra gli opposti o attraversandoli continuamente, come fa quando oltrepassa il filo spinato, per raggiungere il casolare dov’è imprigionato il suo coetaneo. Le prove a cui è continuamente sottoposto possono perciò essere interpretate come un lungo rito di iniziazione: la penitenza, la stanza da letto condivisa con uno sconosciuto, il tradimento di colui che considerava amico, la discesa nel buco-nascondiglio. Ma solo con la disobbedienza al padre, la coraggiosa fuga di notte e la liberazione del nuovo amico Michele perderà l’infanzia. In questo senso si è scelto per il film un finale meno aperto e più consolatorio.
Un elemento fondamentale del passaggio all’età adulta è la disillusione: film e romanzo si fermano prima che Michele possa realizzare di avere in casa l’uomo nero, ma nel romanzo l’occasione della disillusione è offerta dalla bicicletta nuova. Nel processo di sottrazione che quasi inevitabilmente accompagna ogni trasposizione cinematografica di un testo letterario, gli sceneggiatori hanno rinunciato a questa significativa circostanza. Michele possiede una vecchia e brutta bicicletta, ereditata dal padre, che è chiamata Scassona. Per cercare di distogliere il suo interesse verso la scoperta di Filippo, il ragazzo riceverà un regalo: «Era una bicicletta tutta rossa, con il manubrio che sembrava le corna di un toro. La ruota davanti piccola. Il cambio a tre marce. Le gomme con i tacchetti. Il sellino lungo che ci potevi andare in due…Sopra la canna c’era scritto in oro Red Dragon». Geloso ed entusiasta, Michele scoprirà ben presto che «Red Dragon era una fregatura. Non lo volevo ammettere ma era così. Se ti tiravi su, ti trovavi il manubrio in bocca e se cambiavi marcia, se ne usciva la catena». Conoscere la realtà significa abbandonare le illusioni: nella fuga notturna che metaforicamente lo allontana dall’infanzia, Michele userà la Scassona.


Con la precisione e la tenerezza con cui viene ricostruita l’epoca del film per la Scassona è stata utilizzata una Atala 2000, forse il modello meno efficiente nella storia di questo mezzo di locomozione, ma è un peccato che manchi ogni riferimento alla Red Dragon ed alla sua valenza simbolica.
Un’ultima annotazione riguarda il cast. La critica ha sottolineato pressoché all’unanimità la qualità della recitazione, a cominciare dai bambini, tutti esordienti ma spontanei e sempre credibili. Va apprezzata anche la felice scelta di aver affidato la parte di Sergio a Diego Abantatuono, che spicca in mezzo a tanti attori sconosciuti, proprio come Sergio si differenzia, per provenienza, esperienza ed autorevolezza, da tutti gli altri personaggi del romanzo.


domenica 26 luglio 2009

I caratteri nel cinema: Teresa Venerdì (2)

Adriana Benetti in "Teresa Venerdì" di Vittorio De Sica (1941)

Teresa Venerdì di Vittorio De Sica (1941) Da un racconto di Rezsö Török, Sceneggiatura di Aldo De Benedetti, Vittorio De Sica, Gherardo Gherardi, Margherita Maglione, Franco Riganti, Cesare Zavattini Con Vittorio De Sica (Il dottore Pietro Vignali), Adriana Benetti (Teresa Venerdì), Irasema Dilián (Lilli Passalacqua), Guglielmo Barnabò (Agostino Passalacqua), Olga Vittoria Gentilli (Rosa Passalacqua), Anna Magnani (Loletta Prima), Elvira Betrone (La direttrice dell'orfanotrofio), Giuditta Rissone (L'istitutrice Anna), Virgilio Riento (Antonio), Annibale Betrone ( Umberto Vignali), Nico Pepe (Il dottore Pasquale Grosso), Federico Collino (Vittorio, il regista di varietà ) Musica: Renzo Rossellini Fotografia: Vincenzo Seratrice (92 minuti) Rating IMDb: 7.0

Solimano

L'amica cattiva di Teresa Venerdì (Adriana Benetti) ha fatto in modo che le istitutrici dell'orfanotrofio di Santa Chiara vengano a sapere della recita di Giulietta e Romeo. Ed ora Teresa deve fare la sguattera in cucina, con la minaccia di andare in via definitiva a fare la serva dal macellaio, che sarebbe assai propenso ad avere Teresa come serva. I guai non finiscono qui, adesso l'aspirante infermiera la farà l'amica cattiva e spiona.


L'amica buona consola Teresa e l'aiuta tangibilmente, sbucciando con lei le patate. Teresa si vergogna, quando il dottor Pietro Vignali (Vittorio De Sica) torna in visita all'orfanotrofio e vede che adesso lei fa la sguattera, chissà cosa penserà!


Ma Pietro è giustamente attento all'igiene e si accorge che l'amica cattiva vorrebbe fare le iniezioni senza essersi preventivamente lavate la mani. Quindi, solo per ragioni di forza maggiore, Teresa non fa più la sguattera ma torna ad indossare il camice da infermiera. E' molto grata a Pietro e lo accompagna fino in strada. Pietro le fa una carezza sulla guancia (la vede un po' meno come ragazzina) e la guarda nello specchietto retrovisore dell'automobile. Teresa non si muove di lì finché la macchina non sparisce.


Le sciagure non sono finite: viene ritrovata una lettera d'amore indirizzata al dottor Pietro Vignali. Teresa viene accusata di aver scritto la lettera (cosa ben peggiore della faccenda di Giulietta e Romeo) e aspetta nel corridoio la decisone della direttrice. Non resiste alla tensione ed alla vergogna e fugge dall'orfanotrofio, senza avvertire nessuno. Gli eventi si sovrappongono: Teresa è fuggita facendo perdere le sue tracce proprio quando una istitutrice dotata di grandi capacità investigative fa una specie di prova finestra: detta all'amica cattiva una prase contenente la parola milioni e la ragazza scrive miglioni come nella lettera: è stata sicuramente lei, Teresa è innocente. Ma dove sarà Teresa?


Teresa è andata all'abitazione di Pietro per dirgli che lei non gli ha scritto nessuna lettera. Siccome piove un'acqua che Dio la manda, arriva bagnata fradicia, e Antonio (Virgilio Riento) il cameriere del dottore, la scambia per la sorella di Pietro. Quindi fa in modo che Teresa indossi un vestaglia del dottore finché gli abiti non si asciughino.
Teresa apprende fatti gravi della vita di Pietro: il tre signori nell'immagine sono i componenti del Comitato dei Creditori. Pietro è pieno di debiti: la cifra totale è di 38.972 lire e cinquanta centesimi, se Pietro non riuscità a rimborsarla perderà la casa.


Non basta: il dottor Pietro Vignali ha una doppia vita. Arriva alla casa del dottore la cantante Loletta Prima (Anna Magnani). E' l'amante di Pietro che da una telefonata ha dedotto che Pietro la tradisce. Dapprima se la prende con Teresa, ma quando sente che è la sorella di Pietro, cerca la sua alleanza. La vita del dottor Pietro Vignali non è doppia, ma tripla! Oltre all'amante che canta nel varietà, Pietro ha una fidanzata: Lilli (Irasema Dilián), figlia del ricchissimo industriale materassaio Agostino Passalacqua (Guglielmo Barnabò).


Teresa ha capito che Loletta è una teatrante, e prova, per conquistarne la simpatia, ad usare con lei qualche pezzo forte del suo repertorio: "Sì, o contessa, il freddo morde le nostre carni attraverso le vesti lacere. Se sapeste che strazio sentire i propri figli che chiedono pane e dover tacere...". Ma Loletta rimane perplessa perché il suo attuale repertorio si basa su una canzone che fa: "Qui nel cuor, qui nel cuor... qui nel sen, qui nel sen... ". Repertori un po' diversi.
A complicare le cose, ci si mette anche l'arrivo di Lilli Passalacqua, la figlia del materassaio, con un grande mazzo di fiori per il fidanzato Pietro, che per fortuna sua è assente mentre le tre donne discutono.


E' fatale che Loletta e Lilli giungano alla stessa conclusione: Teresa non è la sorella di Pietro, ma la nuova amante, quindi Loletta e Lilli se ne vanno entrambe sbattendo la porta. Loletta, di suo ci mette un "Ciao stella!", che dirà anche a Pietro quando lo incontrerà.


E' un groviglio, Teresa è talmente turbata da non accorgersi che la vestaglia, che non ha mai portato, fa lo scherzo di aprirsi davanti, se non ci si bada. Le istitutrici su questo argomento non hanno istruito la povera ragazza.
Arriva Passalacqua, il ricco materassaio. Vuole recuperare il dottor Pietro Vignali come fidanzato di sua figlia Lilli e, da uomo pratico, usa gli argomenti a cui è abituato: offrire dei soldi a Teresa perché sparisca dalla vita del dottore. Teresa si sdegna e dice no no no a tutti i rilanci di cifra, ma d'improvviso ha un'idea: "Ebbene sì! Io sparisco dalla vita del dottore, ma per farlo voglio 38.972 lire e cinquanta centesimi". Il Passalacqua le dà la somma totale, anche i cinquanta centesimi da cui voleva esimersi (ma Teresa s'impunta), poi se ne va contento, non sapendo ancora che Lilli, nel frattempo, si è fidanzata con un altro dottore: Pasquale Grosso (Nico Pepe). Teresa dà la somma così ottenuta ai tre creditori, che aspettano sempre in anticamera, poi sparisce di nuovo.

La direttrice dell'orfanotrofio di Santa Chiara sa benissimo dov'è andata Teresa: la trova nella cella frigorifera del macellaio, e se la riporta nell'orfanotrofio.



E' facile immaginare i pensieri ed i sentimenti del dottor Pietro Vignali, quando viene a sapere l'accaduto. Vediamo Pietro e Teresa uscire dall'orfanotrofio, insieme e per sempre.
Poi, in un ufficio postale, Pietro sta facendo un telegramma al suo ricco padre, che gli aveva tagliato gli alimenti perché mettesse la testa a posto. Il telegramma dice: "Urgono 40.000, in compenso accetto posto ospedale Teramo. Mi sposo".

Beh, è la storia di Cenerentola, raccontata tante volte anche nei film, ma di Cenerentole raccontate bene come Teresa Venerdì ce ne sono poche.