lunedì 30 giugno 2008

Tutti a casa

Tutti a casa, di Luigi Comencini (1960) Sceneggiatura di Agenore Incrocci, Furio Scarpelli, Luigi Comencini, Marcello Fondato Con Alberto Sordi, Eduardo De Filippo, Serge Reggiani, Martin Balsam, Alex Nicol, Carla Gravina, Didi Perego, Claudio Gora, Mario Feliciani, Jole Mauro, Mac Ronay, Nino Castelnuovo, Mino Doro, Silla Bettini, Mario Frera, Vincenzo Musolino Musica: Angelo Francesco Lavagnino Fotografia: Carlo Carlini (120 minuti) Rating IMDb: 7.4
Solimano
Di fronte ad un film come Tutti a casa non so se prevale la contentezza o il dispiacere.
Contentezza per l'importanza del tema, che inutilmente si cercava -e si cerca- di rimuovere, l'8 settembre.
Dispiacere perché il film non la dice tutta, procede un po' con il freno a mano tirato.
Nel rapporto con certe date c'è tutta la storia civile -e incivile- del nostro paese. Faccio alcuni esempi.
Primo maggio. Alcuni non sanno che la festa del primo maggio è nata negli Stati Uniti nel 1886 e credono che sia un residuo paleocomunista. Durante il fascismo, il primo maggio non si festeggiava e si cercò di sostituirlo con il 21 aprile, il Natale di Roma, chiamandola Festa del lavoro italiano. Ci fu successivamente un'altra operazione più sottile, ma che sento molto fastidiosa: nel 1955 il papa Pio XII istitui la Festa di San Giuseppe Artigiano e ne fissò la data al primo maggio. Si badi: artigiano, non lavoratore, non operaio. Ci trovo ipocrisia e indebita invasione di campo, una mancanza di rispetto verso chi la festa del primo maggio se l'era costruita nelle lotte, nelle tragedie, nelle difficoltà.
Venticinque aprile. E' la festa della Liberazione, quindi anche la festa della Resistenza, non viceversa. Anche qui ci vedo una appropriazione di tipo diverso.

Due giugno. Festa della Repubblica, ottenuta dopo un drammatico referendum fra Repubblica e Monarchia. E' diventata una festa in cui bisogna fare delle sfilate militari in via dei Fori Imperiali, una festa di cui si vantano proprio quelli che il 2 giugno dovrebbero andarsi a nascondere.
Venti settembre. La breccia di Porta Pia. E' una festa che non esiste, esistono soltanto ancora in molte città delle vie XX settembre, ma di nomi del genere probabilmente non se ne danno più. State boni, ragazzi. Cercate di non ricordare che per più di cinquant'anni, dopo il venti settembre, il Vaticano proibì ai cattolici qualsiasi attività politica, con il famoso non expedit. Di questo non parla nessuno. Ogni tanto si parla di Galileo e Giordano Bruno dicendo che sì, sono stati commessi degli errori, ma tutto sommato quei due se l'erano andata a cercare.
Quattro novembre. Per fortuna, questa festa è vicina alla festa dei morti. Così si evita di festeggiare e magari si pensa alla inutile strage della prima guerra mondiale, che si poteva evitare e che è stata la prima grande tragedia del novecento, da cui tutte le altre tragedie sono scaturite quasi matematicamente. In compenso, l'Italia è piena di monumenti alla Vittoria ed ai Caduti, in genere contadini che la guerra non la volevano proprio e che furono mandati a morire a centinaia di migliaia contro le mitragliatrici.
Di date ce ne sarebbero altre ma mi fermo qui. Istituirei il giorno di riflessione fissandolo all'8 settembre, perché in quel giorno vennero in chiaro tutti i secolari mali italiani, solo verniciati dalla retorica del ventennio. Ma la retorica è l'eterna scappatoia, e dell'8 settembre si cerca accuratamente di non parlare, per evitare di farci i conti nel qui e ora.

Che poteva fare, Luigi Comencini nel 1960? Aveva un produttore come De Laurentis, molto sensibile a quello che si voleva nei palazzi del potere democristiano e vaticano. Un protagonista come Alberto Sordi che ottenne che la seconda parte non fosse affidata a Nino Manfredi ma a Serge Reggiani perché voleva essere l'unico commediante in primo piano. Un ministro come Andreotti, che vietò il prestito di due carri armati (così li fecero di compensato).
Beh, Comencini riuscì a fare un bel film, proprio la presenza di Serge Reggiani aggiunse serietà. Me li vedo, come sarebbero stati i siparietti fra Sordi e Manfredi.


Ma tutta la parte con Eduardo De Filippo, lodatissima, sa di posticcio. Eduardo De Filippo fa il padre di Alberto Sordi, che è il sottotenente Alberto Innocenzi. Di fronte al figlio che torna a casa in una situazione di sfascio generale, sembra che l'unica soluzione per il figlio sia quella di arruolarsi nella RSI. Il figlio se ne va nella notte sussurrando un capoccione interiore che riguarda il padre. Ma quando mai. Era un tema drammatico da affrontare drammaticamente, nel contrasto, nella separatezza, ma prevalse l'idea di un cameo in cui per definizione Eduardo De Filippo doveva fare una parte simpatica.
I tedeschi compaiono come il male assoluto. Anche su questo non sono d'accordo. Il problema dell'8 settembre non fu che i tedeschi reagissero (non ci si poteva aspettare altro), ma che si trovassero di fronte allo sbandamento generale, ad un paese che collassò su se stesso, soprattutto l'esercito. Dopo la Liberazione ci sarebbe dovuta essere la corte marziale per il Re e per Badoglio, altro che referendum fra repubblica e monarchia.


Anche l'episodio della ragazza ebrea (Carla Gravina) che il contadino veneto Codegato (Nino Castelnuovo) cerca di salvare rimettendoci la vita sa un po' di santino edificante, ma la presenza benvenuta di Carla Gravina è mirabile.



Come sono mirabili tante rappresentazioni di una Italia distrutta dai bombardamenti e distrutta nell'animo delle persone, per cui privilegio le immagini dure, che furono girate soprattutto in posti di Livorno ancora completamente degradati nel 1960, più di quindici anni dopo gli eventi.


Molto credibile l'episodio con Didi Perego, ottima attrice che fa la borsara nera col camion pieno di sacchi di farina, abbandonando il marito nel letto con una gamba rotta e fuggendo con il sottotenente Innocenzi, ormai in borghese e che tocca il punto personale di massimo degrado. Il camion con la farina viene saccheggiato dalla gente, imbestiata dalla fame.
Naturalmente, i preti fanno bella figura: proteggono i fuggiaschi durante una funzione religiosa, occasione del siparietto di Alberto Sordi nascosto in un confessionale, a cui una vecchietta confessa i peccati attraverso la grata.

E' un film da vedere e rivedere, perché Comencini ha una sensibilità quasi unica nell'individuazione dei sentimenti e nel coglierli nei gesti più ancora che nelle parole. Quindi ammirazione, e tanta, perché non c'è un attimo di noia. Ma anche un giusto fastidio per il politicamente corretto in troppe direzioni: il Vaticano, l'inizio della Resistenza visto troppo moralisticamente, ma soprattutto un perdonismo verso i vizi italici che nell'8 settembre trovarono la prova del nove.
C'è sì, nel Capitano Passerini di Mario Feliciani la lucidità di chi per scampare ha dovuto subire l'onta di mettersi in borghese con vestiti d'accatto, ma che dall'esperienza trae la lucidità del capire che cosa si può fare (andare in montagna). Ma in Alberto Sordi, che recita in modo tecnicamente straordinario, vedi proprio lo stato d'animo, la coscienza morale che cambia a seconda del vestito che porta. A raccontare i nostri vizi, le nostre meschinità, riuscirono (anche se non sempre) Petri e Rosi, oltre al caso di Pontecorvo che fu una felice anomalia.
Più recentemente ci provò Bertolucci con risultati alterni ma indimenticabili (La strategia del ragno, Il conformista, Novecento) e di fronte alla verità dura di Bertolucci i giochi si scompigliarono: non erano film che fosse possibile farsi piacere se non si era d'accordo.

Comencini e Monicelli fecero ottimi film, come questo e La Grande Guerra, ma volevano forse più piacere che dispiacere: Totò e Carolina uscì due anni dopo essere stato realizzato ed indegnamente scorciato. Il sistema, con Andreotti in testa, era attentissimo a cosa succedesse, sapeva come muoversi, alternando lusinghe a censure, lavorando più sui produttori che sui registi. Così, a livello sceneggiatori e registi, divenne usuale una autocensura di tipo a volte inconscio: buttarla sull'episodietto ben condotto, sull'attrice vezzosa e scoperta, sul caratterista più che sul carattere, ma nella sostanza stando bene attenti a non affondare i colpi. Se almeno ogni cinque minuti non ci fosse stata una scena che facesse più ridere che sorridere non andava bene. I registi francesi ed americani si trovavano di fronte a società civili in cui il contrasto era il sale della crescita, in Italia non è mai stato così, e si vede ancora.

domenica 29 giugno 2008

Lolita (Adrian Lyne)

Lolita (1997) Regia: Adrian Lyne, Sceneggiatura: Stephen Schiff basata sul romanzo di Vladimir Nabokov, Fotografia: Howard Atherton, Scenografia: John Hutman, Costumi: Judianna Makovsky, Montaggio: Julie Monroe, Musica: Ennio Morricone
Interpreti: Jeremy Irons, Dominique Swain, Melanie Griffith, Frank Langella, Suzanne Shepherd, Keith Reddin, Erin J. Dean, Joan Glover, Pat Pierre Perkins, Ed Grady, Michael Goodwin, Angela Paton, Ben Silverstone, Emma Griffiths, Malin, Ronald Pickup, Michael Culkin, Annabelle Apsion, Don Brady, Trip Hamilton, Michael Dolan, Hallee Hirsh
USA - Francia, 1997, Durata: 2h. 17' Rating IMDb:6.7

Gabrilu sul suo blog NonSoloProust

Sollecitata ed incuriosita da un commento lasciato da Francesca (Galassia Libri), mi sono procurata ed ho visto Lolita diretto da Adrian Lyne.

Che dire? Gli attori principali sono tutti bravissimi: Jeremy Irons è un Humbert Humbert addirittura straziante, con il suo amour fou non ricambiato per Lolita. Melanie Griffith (Charlotte Haze, la madre di Lolita) è bella e brava come sempre. Dominique Swain è una Lolita strepitosa.
Ricostruzione ambientale, scenografie, fotografia, costumi, musica (di Ennio Moricone) perfetti.

La versione Lyne di Lolita dura ben 2 ore e 17 minuti ed è fedelissima al romanzo di Nabokov. Apparentemente molto più fedele di quanto lo fosse il film di Kubrick del 1962 e segue il testo capitolo per capitolo. All'inizio c'è, ad esempio, l'episodio dell' Humbert adolescente con Annabel, episodio che sta alle radici della sua predilezione per le ragazzine poco più che impuberi; il personaggio di Quilty occupa, in termini di durata di presenza scenica, lo stesso spazio (e cioè poco) che occupa nel romanzo di Nabokov e soprattutto Lyne non solo non taglia ma dedica molta cura a tutta la parte on the road del romanzo in cui Humbert e Lolita percorrono in macchina, per mesi, tutta l'America da un capo all'altro. Senza meta e alloggiando quasi sempre in motel e alberghi.

Insomma, tutto (quasi) ineccepibile.

E allora? Allora, il film di Lyne non mi ha convinta.

Dmitri Nabokov in una intervista ha dichiarato:
Trovo che la versione di Lyne sia molto più vicina a quello che è lo spirito originale del romanzo di mio padre. Non sono mai stato entusiasta della versione di Kubrick (alla quale collaborò anche Vladimir Nabokov, nda), anche se era un bellissimo film si allontanava troppo dai temi e dalle atmosfere originali del romanzo. Il film di Lyne mi soddisfa pienamente perché spiega il sottofondo psicologico che anima le azioni di Humbert: lui cerca di trovare in tutte le donne che osserva una ragazzina che amò durante l'adolescenza e che morì di tifo pochi giorni dopo il loro primo incontro. Per questo si innamora di Lolita, la sua non è pedofilia come noi possiamo intenderla oggi, ma un bisogno disperato di ritrovare quella parte di sé che gli fu strappata brutalmente dal destino e che in lei trova una sorta di surrogato.

Io invece mi permetto molto umilmente di dire che la Lolita di Lyne è un esempio da manuale di come si possa essere pedissequamente fedeli alla trama di un romanzo ma tradirne invece -- a mio modestissimo parere, si intende --- contenuto e spirito.

Il film -- patinato come una video clip -- è sicuramente confezionato molto bene e piacevole da vedere ma ahimè non basta la bravura degli attori e una fedeltà al testo che sebbene appaia totale è in realtà solo di facciata.

C'è una cosa la cui totale assenza stravolge il romanzo di Nabokov: dov'è infatti la micidiale ironia ed autoironia del monologo di Humbert? Dov'è la satira feroce di Nabokov? L'Humbert di Nabokov è personaggio complesso, è un manipolatore e, almeno all'inizio non è innamorato di Lolita. La sua è attrazione erotica e basta. E' un rapace. L'Humbert di Lynes nelle scene iniziali in casa Haze sembra quasi essere lui il sedotto piuttosto che il seduttore, si innamora subito perdutamente di Lolita e quello che emerge dal film è la drammatica e romanticissima figura di un uomo dal cuore spezzato. Non ci sono sfumature, non ci sono chiaroscuri. Humbert-Irons è un uomo innamorato e basta.

L'Humbert di Nabokov non concede mai sconti a se stesso: sa perfettamente, all'inizio della sua storia con Lolita, che la sua è un'ossessione erotica ed una delle cose che rende interessante e non banale il personaggio è la graduale presa di coscienza, da parte sua, che questa ossessione erotica si va mutando lentamente ma inesorabilmente in amore fino al momento in cui, dopo la fuga di Lolita, si rende conto di "volerle bene" (nel senso più autentico di "volere il suo bene") rendendosi conto infine di tutto il male che le ha fatto. Non dimentichiamo quando, nelle ultime pagine del romanzo, ammette con se stesso di avere "spezzato qualcosa dentro di lei"


Paradossalmente, la visione del film di Lyne mi ha fatto comprendere meglio il film di Kubrick: perchè alcune apparenti infedeltà al testo di Nabokov servono in realtà, a Kubrick, per esprimere con gli strumenti della cinematografia e con i suoi codici linguistici proprio l'ironia, il sarcasmo, il doppio registro del comportamento di Humbert che riesce a fare emergere dalla straordinaria mimica facciale di James Mason. L'Humbert di Mason-Kubrick pronuncia parole che sono contraddette dall'espressione del volto, abbiamo sempre l'impressione di trovarci di fronte ad un doppio livello di comunicazione ed è questo che lo rende interessante. I personaggi del film di Lyne sono invece quello che appaiono. C'è solo un testo, senza alcun sottotesto. C'è la banalizzazione al posto della complessità. L'illustrazione didascalica al posto della espressione artistica tradotta da una forma d'arte (la scrittura) ad un'altra (quella dell'immagine).
La versione di Kubrick, che poteva sembrare troppo libera e piena di tagli riusciva a fare una cosa importantissima: rendere sfuggenti e sottilmente sgradevoli tutti i personaggi della storia, proprio come essi sono nel libro di Nabokov.

Di tutto questo gli attori -- ripeto, bravissimi -- sono assolutamente incolpevoli. Loro fanno quello che viene imposto loro dal taglio, dalla chiave di lettura della storia decisi dal regista.

Come posso prendermela, ad esempio, con Melanie Griffith, se Lyne le ha fatto impersonare una Charlotte Haze troppo bella, troppo elegante, troppo raffinata, sciocca, si, ma sicuramente non insopportabile e che quindi non ha nulla a che spartire con la grassa e poco attraente Charlotte Haze di Nabokov? Quanti uomini darebbero della "mucca" a questa smagliante Charlotte-Griffith?


E a proposito della morte di Charlotte: approfondimento psicologico del comportamento di Humbert prima e immediatamente dopo la morte della moglie... zero. Ma posso mai prendermela con Jeremy Irons, se il copione prevedeva lo zero? Lui fa (benissimo) quello che gli è stato chiesto di fare.

Stendo un velo pietoso sulla sequenza finale dell'uccisione di Quilty da parte di Humbert: semplicemente disgustosa, inutilmente e stupidamente splatter. Se penso a come l'omicidio di Quilty-Peter Sellers da parte di Humbert-James Mason era stata affrontata e risolta da Kubrick mi viene solo da dire: "Signore e Signori, la classe non è acqua!".

Mi ha incantata invece la Lolita di Dominique Swain. Nella costruzione del suo personaggio Lyne ha dato a mio parere il meglio del film: gli innumerevoli primi piani per Lolita con l'apparecchio ai denti, Lolita imbrattata di rossetto, Lolita che mangia una mela, Lolita piangente e disperata, Lolita esterrefatta ed umiliata quando Humbert le molla uno schiaffo, Lolita e il suo continuo masticar chewing gum... Lolita con gli occhiali, Lolita sciatta e già vecchia a diciassette anni... Dominique Swain riesce ad essere maliziosa, ingenua, seduttiva, dolce ma anche volgare, irritante, insopportabile, tenerissima, rompiscatole... proprio come Lolita. Bravissima.

Ho letto che Lyne ha selezionato più di 2.500 ragazzine e secondo me l'ha proprio trovata, quella giusta. Dominique Swain era una quindicenne studentessa della Malibu High School : apparentemente una ragazzina come tante ma con una freschezza ed un fascino speciali, una vera ninfetta nel senso che questo termine dava Nabokov.

Ho letto anche che per il film Lyne (regista, ricordo, di Nove settimane e mezzo, Proposta Indecente, Attrazione Fatale, Flashdance) si è avvalso dei consigli del figlio di Nabokov, Dmitri. Prendo atto e mi genufletto. Detto questo, il fim continua a sembrarmi corretto ma insipido e descrittivo.

Mi piacerebbe molto leggere pareri di altre persone che oltre ad avere letto il romanzo di Nabokov abbiano anche visto sia la trasposizione cinematografica di Kubrick che quella di Lyne.

sabato 28 giugno 2008

Pronto... c'è una certa Giuliana per te

Pronto... c'è una certa Giuliana per te (1967) di Massimo Franciosa Dal romanzo Maturità classica di Gianfranco Ferrari Musiche di Mario Nascimbene Fotografia di Pasqualino De Sanctis Con Mita Medici, Gianni Dei, Paolo Ferrari, Marina Malfatti, Françoise Prévost, Caterina Boratto (97 minuti) Rating Imdb: n.d.

Roby
Con questo post intendo far concorrenza a Massimo in brevità e stringatezza.
Il fatto è che riemergo ora da settimane di studio matto e sconsiderato, a fianco della mi' figliola maturanda (anzi, maturata -spero- dopo l'esame orale di ieri!), e le mie dita rattrappite necessitano di un po' di riabilitazione prima di tornare a scorrere veloci sulla tastiera.
Così stanotte -in una casa finalmente sgombra di libri, vocabolari, appunti, tesine, amuleti e santini propiziatori- mi è tornato alla mente il titolo chilometrico di questo film giovanilistico di fine anni '60, visto in TV qualche tempo dopo, poco prima dei miei esami di maturità. Quel che non sapevo (e che ho scoperto stamattina in rete) è che fosse tratto da un romanzo di Gianfranco Ferrari (il Federico Moccia dell'epoca?), e che avesse vinto il Nastro D'Argento per le musiche di Nascimbene. Se a ciò si aggiunge che il direttore della fotografia è De Sanctis e che vi recitano Paolo Ferrari e la Malfatti, non doveva essere poi malaccio... specie se paragonato a certe cosucce di ambiente scolastico datate molto più recentemente!
Personalmente, a parte il naso spropositatamente lungo di Gianni Dei (il benestante Paolo) innamorato di Mita Medici (la bella ma povera Giuliana), ricordo solo la pila di quaderni d'appunti che la Giuliana del titolo ha davanti, il giorno prima degli esami: glieli ha prestati il diligente fianzato, e lei -carina ma poco studiosa- li scorre col dito, mormorando in tono desolato: "Filosofia... Italiano... Latino... Ma dove mi salvo, io?? Dove mi salvo? Giusto a storia dell'arte!!!"
Verrà infatti bocciata, ma l'amore trionferà comunque, a dispetto di professori e parenti ostili, accompagnando la giovane coppia in una spensierata fuga verso la felicità, sulle note un po' ruffiane dei successi discografici del tempo.



I modi di vedere: Per grazia ricevuta

Per grazia ricevuta, di Nino Manfredi (1971) Sceneggiatura di Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Luigi Magni, Nino Manfredi Con Nino Manfredi, Lionel Stander, Delia Boccardo, Paola Borboni, Mario Scaccia, Fausto Tozzi, Mariangela Melato, Tano Cimarosa, Gastone Pescucci, Paolo Armeni, Antonella Patti, Véronique Vendell, Rosita Torosh, Ugo Adinolfi, Gianni Rizzo, Enzo Cannavale Musica: Guido De Angelis Fotografia: Armando Nannuzzi Set Decoration: Danilo Donati (122 minuti) Rating IMDb: 7.0
Solimano
Con la vista logica I modi di vedere ho già detto che cerco di muovermi con cautela: di post ne ho scritti tre, ma ho in mente più di dieci film che vorrei inserire. Per sentirmi ragionevolmente sicuro del fatto mio, li lascio stagionare non so se nell'emisfero destro o in quello sinistro del cervello. Come al solito, ogni regola ha le sue eccezioni, qui c'è un film che ho rivisto oggi dopo tanti anni eppure lo mando in prima linea.
Per grazia ricevuta (1971) di Nino Manfredi non è un capolavoro: alcuni aspetti non mi sono piaciuti, e ne scriverò in un altro post. Ma nel film c'è un episodio singolare che mi ha del tutto convinto, proprio come modo di vedere: la festa processionale per il bambino Benedetto Parisi (Paolo Armeni) appena miracolato da Sant'Eusebio. Il merito è da spartire fra due persone: Nino Manfredi, il regista, che fa anche il personaggio di Benedetto Parisi adulto, e Danilo Donati, il responsabile del Set Decoration - termine abbastanza intraducibile perché vuol dire tante cose.

Vi risparmio la storia a monte dell'episodio salvo due particolari indispensabili.
Il parroco, preparando i bambini per la Prima Comunione, assegna ad ognuno un Celeste Protettore con relativo santino, ha un mazzetto di santini come fossero carte da gioco. Il bambino Benedetto desiderava San Giorgio, un guerriero, ma quando viene il suo turno gli tocca prendere Sant'Eusebio, un vescovo martirizzato sul fuoco. Gli secca un po', difatti fa un bel falò con uno spaventapasseri camuffato da Sant'Eusebio (immagine sopra il post).
Sempre Benedetto, correndo fuori dalla chiesa subito dopo la comunione, cade in un dirupo. Dall'alto lo vedono immobile faccia in giù, ma il bambino non si è fatto niente e se ne accogono quando lo girano (immagine in fondo al post). Allora Viva viva Sant'Eusebio (canzoncina cantata da Nino Manfredi) e nasce spontanea la processione per le vie strette del paese: il Santo ha fatto il miracolo!

Il personaggio più importante della processione è Sant'Eusebio, con un gran barbone, il vestito da vescovo e le fiamme su cui sta bruciando. Però lui non si lascia impressionare.

C'è anche una Madonna col Bambino, tutti e due con la corona in testa e con l'ornamento degli ex-voto per le grazie largamente concesse.

Queste bambine non si sono vestire apposta per la processione. In quel giorno hanno fatto la Prima Comunione e la Cresima (che non sempre si facevano nello stesso giorno) e quindi hanno il vestito della Cresima, per cui i genitori erano disposti a spendere anche più di quello che potevano.


Ci sono gli Angeli, e qui faccio una osservazione. Gli Angeli erano spesso di cartapesta molto colorata, ma accadeva anche che si vestissero i bambini a simulare Angeli e Santi (San Luigi Gonzaga e San Giovannino erano i più diffusi). L'Angelo più giovane vola più in alto, aiutato però da un palo che lo sostiene.

C'è un'altra Madonna, anch'essa incoronata ma meno imperativa della precedente. Gli occhi chiusi sono un cenno d'ironia lieve lieve, perché una delle bellezze dell'episodio è che la processione non è né naif, né bozzettistica, ma semplicemente di religiosità popolare. Sempre meglio, anche per i laci, degli oroscopi o chiromanti (sembra che ci vadano milioni di persone ogni anno!)

Le donne, tutte vestite di nero, cantano felici e commosse, assistendo al passaggio della processione. Tiene banco la zia di Benedetto (Antonella Patti), una mora piacente che ha fatto credere al bambino che l'uomo nascosto nell'armadio fosse Sant'Eusebio (non lo era, era un suo amico con la barba che si chiamava Giovanni).

Candele, tante candele belle grosse davanti al Bambinello trionfante, mica come le odierne lampade elettriche che metti la moneta e si accende per un po'.


Tutti, attraverso le vie strette, si ritrovano davanti alla chiesa, in cui c'è uno spiazzo un po' più grande. C'è solo un problema: riuscire a mettersi d'accordo come canti sacri (o canzoni?) da eseguire insieme. Prima cantavano separatamente.

A parte il Celeste Protettore Sant'Eusebio, c'è anche il bambino Benedetto, appena miracolato dal santo, che l'hanno già vestito da fraticello e che crescerà in convento. Ma di cose poi ne succederanno tante...

Tutto è raccontato e visto benissimo, col tono giusto, che è del tutto analogo fra laici e cattolici -faccio fatica a spiegarlo, ma è così. La grande cultura popolare della religione fattiva, realistica e diffusa ce l'abbiamo dentro tutti, anche se crediamo di averla rimossa. La fecondità di questa cultura non si è manifestata solo nei capolavori artistici, ma nelle cosiddette arti minori che erano amatissime dai fedeli.

Ognuna di queste arti minori aveva una sua funzione: acquasantiera, cartagloria, paliotto, pianeta, tarsia, confessionale. Basta aprire gli occhi nelle chiese scordando per un po' le guide del Touring. Una sola raccomandazione: niente atteggiamenti di tipo estetizzante, cercate di capire a che cosa servivano e perché erano lì. Si imparano cose importanti, se si assume l'atteggiamento giusto, che è quello di sentire anche un po' della nostra storia personale. E' assurdo rimuoverla. Qui sopra metto una immagine del Cenacolo di statue di legno colorate che sta nel Santuario della Beata Vergine di Saronno, a metà strada fra casa mia e casa di Giuliano. E' stato fatto da Andrea da Milano nel 1531. L'artista si ispira al Cenacolo di Leonardo. E' impressionante guardarlo stando in chiesa: sembra che gli Apostoli siano persone come noi, proprio quello che volevano questi artisti. A Saronno ci sono anche i capolavori di Bernardino Luini e di Gaudenzio Ferrari. Più di cento anni ci misero, a costruire e ad ampliare, aggiungendo ogni anno qualcosa che prima non c'era. Chi vuole andarci, telefoni prima: ci sono dei volontari che vi portano dappertutto, persino vicino agli affreschi in alto, quelli della cupola.

P.S. Lo splendido luogo in cui si svolge la processione del film è il paese di Fontana Liri, in provincia di Frosinone, il paese dove nacque Marcello Mastroianni.

giovedì 26 giugno 2008

I libri nel cinema: Daisy Miller (2)

Daisy Miller, di Peter Bogdanovich (1974) Dal racconto di Henry James, Sceneggiatura di Frederic Raphael Con Cybill Shepherd, Barry Brown, Cloris Leachman, Mildred Natwick, Eileen Brennan, Duilio Del Prete, James McMurtry, Nicholas Jones, George Morfogen Musiche: Bach, Boccherini, Haydn, Mozart, Schubert, Johann Strauss, Verdi (consulente musicale: Francesco Lavagnino) Fotografia: Alberto Spagnoli Production Design: Ferdinando Scarfiotti Costumi: Mariolina Bono, John Furniss (91 minuti) Rating IMDb: 5.7
Solimano
Il racconto Daisy Miller di Henry James (1843-1916), uscì in rivista nel 1878 e in volume nel 1879. I brani che seguono li ho tratti dall'edizione Einaudi del 1971, per la collana Centopagine. La traduzione è di Francesco Mei. La nota introduttiva al racconto è di Italo Calvino.

Le immagini di questo secondo post riguardano, nell'ordine:
- l'incontro teso fra Daisy Miller (Cybill Shepherd) e la signora Walker (Eileen Brennan) il giorno dopo la passeggiata al Pincio
- l'esibizione di Giovanelli (Duilio Del Prete) in casa della signora Walker
- Daisy e Giovanelli che cantano accompagnandosi col pianoforte nell'albergo dove alloggia Daisy
- la visita ad una chiesa di Daisy e Giovanelli
- l'incontro notturno al Colosseo fra Frederick Winterbourne (Barry Brown), Daisy e Giovanelli
- un colloquio fra la mamma di Daisy (Cloris Leachman) e Winterbourne
- il funerale di Daisy, morta per malaria perniciosa.

Daisy arrivò dopo le undici, ma non era il tipo di ragazza che per parlare aspetta che le rivolgano la parola gli altri. Avenzò nella sala, radiosa di bellezza, sorridendo e chiacchierando, con un grande mazzo di fiori in mano, al fianco di Giovanelli. Tutti tacquero, si volsero e la guardarono. Lei si diresse verso la signora Walker. - Ho paura che lei avrà pensato che non venivo più, così ho mandato avanti la mamma ad avvertirla. Volevo che Giovanelli provasse qualche motivo al pianoforte e vorrei che gli chiedeste di farlo. Ecco il signor Giovanelli, si ricorda che gliel'ho presentato? Ha una magnifica voce e sa delle canzoni incantevoli, gliele ho fatte provare apposta questa sera; ci siamo divertiti un mondo, in albergo -.


Questo signore si comportava secondo tutte le regole. Sorrideva, s'inchinava, e mostrava i suoi denti bianchissimi; si arricciava i baffi, roteava gli occhi, faceva insomma tutto quello che ci si aspetta da un italiano di bella presenza a un ricevimento. Cantò, con molta grazia, una mezza dozzina di canzoni, benché la signora Walker ripetesse poi che non era riuscita a sapere chi lo avesse pregato di farlo. L'invito apparentemente non era partito da Daisy. Daisy sedeva lontana dal pianoforte e, benché avesse dichiarato pubblicamente una grande ammirazione per il canto di lui, parlò, e in modo anche da farsi sentire, per tutto il tempo della esecuzione.

Poiché Winterbourne non poteva più incontrare Daisy dalla signora Walker, appena poteva andava a chiedere della signora Miller all'albergo. Le signore erano di rado in casa, ma quando le trovava, il devoto Giovanelli non mancava mai. Molto spesso l'elegante giovincello romano stava nel salotto solo con Daisy. La signora Miller doveva essere dell'opinione che la discrezione è l'elemento migliore per una buona vigilanza. In un primo tempo Winterbourne notò, con sorpresa, che Daisy in quelle occasioni non era mai imbarazzata o spiacente di vederlo entrare; ma ormai capiva che essa non riusciva più a stupirlo: nel suo comportamento l'imprevisto era l'unica cosa che ci si potesse aspettare.

Una domenica pomeriggio che era andato a San Pietro con la zia, Winterbourne scoperse Daisy che camminava nell'immensa chiesa con l'inevitabile Giovanelli. Indicò la ragazza e il suo cavaliere alla signora Costello, che li guardò un momento col suo occhialino, poi disse:
- Ecco cosa ti rende pensieroso in questi giorni,
- Non credevo di essere pensieroso, - disse il giovane.
- Sei molto preoccupato, si vede che pensi a qualcosa.
- E a che cosa mi accusi di pensare? - egli chiese.
- Alla tresca di quella signorina, Miss Baker, Miss Chandler, come si chiama? sì, insomma, Miss Miller, con quel piccolo garzone parrucchiere.


Si voltò per andarsene da dove era venuto, ma nel far così sentì di nuovo la voce di Daisy.
- Come! era Mr Winterbourne! Mi ha visto e mi volta le spalle!
Piccola canaglia, come simulava bene l'innocenza offesa! No, non le avrebbe voltato le spalle. Winterbourne avanzò di nuovo verso la grande croce. Daisy si era alzata: Giovanelli si levò il cappello. Winterbourne ora pensava solo al pericolo, dal punto di vista della salute, a cui una ragazza piuttosto delicata come Daisy si esponeva trattenendosi di sera in quel nido di malaria. Era una vera follia. Che importava se era davvero una piccola canaglia? Questa non era una buona ragione perché morisse di malaria perniciosa. - Da quanto tempo lei è qui? chiese, quasi brutalmente.
Daisy, bella nel romantico chiarore lunare, lo guardò un momento, e: - Tutta la sera, - rispose con dolcezza.- ... Non ho mai visto niente di più affascinante.

- Daisy parlava di lei l'altro giorno, - disse la signora Miller a Winterbourne. - Per lo più dice cose sconnesse, ma in quel momento credo che fosse abbastanza in sé. Mi ha dato un messaggio per lei. Mi ha raccomandato di dirle... di dirle che con quel bell'italiano, non è mai stata fidanzata.

Una settimana dopo la povera fanciulla moriva. Era stato un caso violento di febbre malarica. Daisy fu seppellita nel piccolo cimitero protestante, in un angolo delle mura di Roma imperiale, tra i cipressi e i rigogliosi fiori primaverili.


Accanto a lui c'era Giovanelli, che gli si avvicinò ancor di più, prima che Winterbourne se ne andasse. Giovanelli era pallidissimo e per la prima volta senza fiori all'occhiello. Sembrava che gli volesse dire qualcosa. Finalmente osservò: - Era la più bella ragazza che avessi mai visto, anche la più amabile, - poi, dopo un momento, aggiunse: - ed era la più innocente.

Harry W. McVickar: Illustrazione del frontespizio
della edizione del 1892 di Daisy Miller