venerdì 29 febbraio 2008

Marianna Ucrìa (2)

Marianna Ucrìa, di Roberto Faenza (1997) Dal romanzo di Dacia Maraini, Sceneggiatura di Roberto Faenza, Francesco Marcucci, Sandro Petraglia Con Emmanuelle Laborit, Eva Grieco, Bernard Giraudeau, Laura Morante, Philippe Noiret, Laura Betti, Leopoldo Trieste, Lorenzo Crespi, Roberto Herlitzka, Silvana Gasparini, Fabrizio Bentivoglio, Selvaggia Quattrini Musica: Ennio Morricone, Franco Piersanti Fotografia: Tonino Delli Colli Costumi: Danilo Donati (108 minuti) Rating IMDb: 5.4
Solimano
Ho suddiviso il post sul film Marianna Ucrìa in due parti, altrimenti sarebbe stato lungo come testo e folto di immagini. Il confine l'ho messo temporalmente nel passaggio di testimone fra le due interpreti: Eva Grieco ed Emmanuelle Laborit, che fanno Marianna in due periodi della sua esistenza. Metto qui una immagine del nonno (Philippe Noiret) nel lussuoso bordello uscendo dal quale sarà ucciso in un vicolo. Il nonno è uno dei due personaggi maschili di evidente positività -l'altro è il precettore Grass (Bernard Giraudeau) che però, allontanato dalla famiglia, è presente solo nella corrispondenza che si scambia con Marianna.

Il rischio in cui il film ogni tanto cade è quello della esemplarità della figura di Marianna, e credo che anche nel romanzo sia così. E' inevitabile che in storie del genere le scrittrici inseriscano un atteggiamento di révanche verso l'universo maschile, succedeva anche prima di Jane Austen ed è un segno non di strettezza mentale, ma di affermazione della centralità femminile tante volte affermata a parole e negata nei fatti. Per questo Marianna prende una decisione del tutto inconsueta nella famiglia, quella di allattare ed allevare lei i suoi figli.

In tal modo si ottiene l' esclusione cronica del padre, Pietro (Roberto Herlitzka) dal mondo della famiglia: lui vive a Palermo, Marianna ed i figli -quattro nel film- vivono in campagna. Pietro, che è il fratello della madre di Marianna (Laura Morante) , è un debole violento, un tristo mai amato nella sua vita, a partire da sua madre finendo alla famiglia che si è costruito forzosamente. Finirà per morire all'aperto raccontando di sé, perso nell'inseguire la capretta che da vecchio può finalmente tenere per sé, la madre da piccolo gliela aveva tolta. Un personaggio molto vero, anche per la recitazione giustamente dura di Roberto Herlitzka. Sono sempre esistite ed esistono tuttora figure maschili che celano sotto violenza ed arroganza l'incapacità di costruirsi una vita degna di essere vissuta.

Marianna insegna ai figli il linguaggio dei sordomuti

Marianna dà disposizioni nel feudo, con in mano la lavagnetta

Marianna ha saputo leggere e capire, non solo, riesce a trasmettere ciò che impara ai figli. Dopo la morte del marito assume con decisione la conduzione del feudo di famiglia, schiodando violenze secolari, vietando impiccagioni e liberando contadini incatenati in mezzo ai porci. L'aiutano in questo i due servi Fila (Selvaggia Quattrini) e Saro (Lorenzo Crespi), da cui si fa sempre accompagnare. Succede che Saro si innamora di lei e trova modo di rivelarsi. Marianna prende l'unica decisione che le è possibile: ordina a Saro di sposarsi, in modo da togliersi il problema, ma Fila, gelosa del fratello, di Marianna, della moglie del fratello, impazzisce, ed uccide il figlio neonato e la moglie di Saro. Sarà rinchiusa in un manicomio, in cui le violenze sui ricoverati e tra i ricoverati sono merce quotidiana. A quel punto Marianna cura Saro, rimasto ferito, e conoscerà finalmente che l'amore fisico non è solo la violenza bieca che aveva praticato con lei il marito. Scoprirà anche quale è la causa per cui non parla e non sente: una violenza infantile subita dallo zio Pietro, poi costretto dalla famiglia a sposarla. La madre glielo confermerà e le due finalmente si abbracceranno. Ci sarebbe da aspettarsi che il film finisca qui, nella raggiunta consapevolezza di Marianna e in una gestione felice della mente, dei sensi e degli affetti. Marianna prosegue invece il suo percorso conoscitivo, ed alla fine del film la si vede partire con Fila, che ha fatto uscire dal manicomio.

Marianna offre il seno a Saro ferito

Resterà nel feudo il deluso Saro e Marianna andrà in Francia, per vedere ciò di cui finora ha potuto solo leggere, nella strettezza dei condizionamenti allora insuperabili. Il suo, usando la terminologia a cui oggi siamo abituati, ed a cui Dacia Maraini ha sicuramente pensato, è la storia di un difficile processo di individuazione, che una volta intrapreso non ha una meta finale se non con la fine stessa della vita. Per questo trovo giusto che il finale sia aperto.
Il film è costellato di morti: l'impiccagione iniziale, il nonno ucciso nel vicolo, la morte desolatamente arida di Pietro, lo zio, violentatore e poi marito di Marianna, la follia di Fila, che uccide la moglie del fratello ed il neonato. Non solo, compaiono anche scene di gravità cimiteriale ossessiva, come gli scheletri rivestiti in pompa magna nelle tombe di famiglia. Si potrebbe dire: "Come al solito! Quando il tema è la Sicilia la presenza della morte pensata ed agita è inevitabile". Eppure nel film di Roberto Faenza non è così: la storia dura del film trasmette una sensazione di vitalità, malgrado i difetti di letterarietà, di troppa carne al fuoco, di esemplarità. Oltre che dalla capacità rappresentativa di Faenza (aiutato dai costumi di Donati e dalle musiche di Piersanti) credo che giochi anche che non c'è il consueto discorso, mille volte fatto, comprese le più sontuose, della Sicilia che è sempre quella, piena di intelligenza che sembra avere il solo scopo di perpetuarsi com'è. Qui si sente l'aria del nuovo che il Settecento portava, quando poteva incontrarsi con una persona come Marianna, capace di uscire dall'angolo della sofferenza e dell'isolamento per costruirsi una vita piena, non con la facile e inutile scorciatoia della ribellione sterile, ma cogliendo nella quotidianità accettata semi, fiori e frutti delle opportunità che ci stavano, bastava accorgersene. Aiuta anche il paesaggio, su cui forse tornerò: non avevo mai visto una Sicilia che esploda ogni tanto in ricchezza vegetale l'abituale secchezza, una Sicilia in cui di veda così il mare, fra rupi rocciose eppure verdeggianti, persino una Sicilia innevata: sta nevicando, quando parte la carrozza per il lungo viaggio all'estero, e Marianna e Fila si guardano e si capiscono.


P.S. E' del tutto evidente che Roberto Faenza, nella scena in cui Marianna offre il seno a Saro ferito, abbia ben presente un racconto di circa duemila anni fa: la storia di Cimone e di sua figlia Pero, poi denominata "Carità romana".
Scrive Valerio Massimo nel De pietate, che il vecchio Cimone era rinchiuso in carcere e che non gli davano da mangiare. La figlia Pero ottenne di visitarlo e di nascosto dai carcerieri lo nutriva col latte del suo seno. Questo tema -che aveva in sé anche dell'ambiguità, ma l'ambiguità chi vuole la trova dappertutto- ispirò molti artisti e qui metto due immagini tratte da Caravaggio e Rubens. Spesso erano opere con destinazione chiesastica, ad esempio il Caravaggio usa la storia di Cimone e Pero per rappresentare una delle sette opere di misericordia, il dar da mangiare agli affamati. L'opera del Caravaggio è tuttora nella Chiesa del Pio Monte della Misericordia di Napoli.
Sarebbe bene che qualcuno, afflitto da verecondia di tipo bigotto, si ricordasse o imparasse la grande storia delle immagini nel mito cristiano. Quattrocento anni fa, artisti come Caravaggio e Rubens, di religiosità diversa ma profonda, non si facevano nessuno scrupolo, erano anzi spronati a simili rappresentazioni.

Caravaggio: Sette opere di misericordia (part) 1607
Chiesa del Pio Monte della Misericordia, Napoli

Rubens: Carità romana 1625 Rijkmuseum, Amsterdam

giovedì 28 febbraio 2008

La storia di Agnes Browne


Agnes Browne, di Anjelica Huston (1999)Dal racconto "The Mammy" di Brendan O'Carroll, Sceneggiatura di John Goldsmith e Brendan O'Carrol Con Anjelika Huston, Marion O'Dwyer, Niall O'Shea, Ciaran Owens, Roxanna Williams, Carl Power, Mark Power, Ray Winstone, Ton Jones, Kate O'Toole, Olivia Tracey Musica: Paddy Moloney, Canzoni cantate da Tom Jones, The Chieftains, Montserrat Caballé, "Petite fleur" di Sidney Bechet Fotografia: Anthony B. Richmond (92 minuti) Rating IMDb: 6.2

Giulia sul suo blog Pensare in un'altra luce
La storia di Agnes Browne è un film che è bello vedere per molti motivi: perché parla della vita di una donna che deve lottare tutti i giorni per affrontare le difficoltà della vita, perché lo fa senza mai perdere la voglia di vivere e di lottare, perché anche nei momenti di disperazione cerca una strada per uscirne, perché ama i suoi sette figli e non li vede come un peso. E' bello vederlo perché ci insegna come le difficoltà, le tragedie della vita si affrontano meglio imparando a costruire intorno a noi una comunità solidale, costruendo rapporti di amicizia, quella vera fatta di poche parole, ma di molti fatti e complicità nel senso più bello del termine, sapendo condividere tutto senza chiusure e diffidenze, senza calcolare chi dà di più e chi dà di meno. Tutto nella semplicità più assoluta, quella semplicità che impedisce alla nostra mente di avvilupparsi in pensieri tortuosi che imprigionano la nostra genuinità.

E bisogna vederlo, perché si ride e si piange, ci si commuove e anche nei momenti più tragici, l’ironia e il senso dell’umorismo non vengono mai a mancare. E i personaggi sembrano non aver dimenticato di ridere quasi che con una bella risata il dolore si faccia sentire di meno.

Siamo nel 1967 a Dublino. Il marito di Agnes Browne muore all’improvviso lasciandola con sette figli. Agnes attraversa le strade del mercato altera e decisa verso la Chiesa che celebra i funerali del marito. I suoi sette figli la precedono silenziosi, con indosso i maglioncini nuovi avuti in beneficenza. Sarà dura per Agnes. I soldi sono pochi, le minacce dello strozzino Billy le tolgono il respiro, il lavoro scarseggia. Marion le trova un banchetto di frutta accanto al suo e si offre di accompagnarla verso una nuova vita che Agnes affronterà con forza e caparbietà. La sua vita è certamente difficile ma la protagonista non perderà mai un senso quasi giocoso dell’esistere, in cui c’è spazio per il lavoro, per i problemi adolescenziali dei suoi figli, per la scoperta della propria femminilità desiderosa ancora di passione, per un’amicizia che è al centro di ogni suo pensiero.

Ed è una conversazione tra amiche la scena più genuina ed esilarante del film, quando Marion fa ad Agnes la cronaca minuziosa di due inattesi e conquistati orgasmi - costringendo la vedova recente a a protestare con il defunto marito "Sette figli, e manco un orgasmo...". Per fortuna la vita sembra offrirle, al di là delle gioie della maternità, una seconda possibilità.Il film non è certamente un capolavoro, non è uno di quei film che rimarranno alla storia, a volte ci appare un po’ troppo costruito ed ingenuo specialmente nella parte finale, ma forse rimarrà ugualmente nei nostri cuori un po’ stanchi e disillusi.

Mi ha fatto pensare a mia mamma quando mi racconta il la guerra e che mi dice sempre:" di questo periodo non ho mai dimenticato quell’amicizia tra donne che ci sosteneva e ci aiutava ad affrontare giorno dopo giorno le difficoltà e le paure insieme ai nostri figli", una quotidianità vissuta insieme e che le dava tanto coraggio "e non credere - mi dice sempre - sapevamo anche divertirci, ridere anche se la morte era sempre presente nei nostri cuori".

Penso anche al clima di solidarietà che esiste ancora oggi tra gente anche poverissima, per esempio, nelle favelas del Brasile dove ho potuto vedere di persona come appunto ridere è una ricetta per sopravvivere che non manca mai, là dove la mafia non ha ancora guastato tutti i rapporti. Forse a volte noi ci perdiamo in un bicchier d’acqua e siamo così afflitti perché siamo troppo soli.

Il film è tratto dal libro dell’irlandese Brendan O’Carroll, Agnes Browne mamma, uscito nel 1994.
"Quando ho letto il famoso romanzo dell’irlandese Brendan O’Callol, dal titolo The Mammy, – ha detto la regista e protagonista del film, Angelica Huston - mi sono piaciuti gli archi di questa donna dal carattere forte che riesce a dare una seconda chance alla sua vita. Mi sono piaciuti gli alti e bassi cui il personaggio andava incontro. Questo credo dipenda proprio dal difficile passato di questo paese. I suoi abitanti, donne e uomini, per controbilanciare le difficoltà e le sofferenze ricorrono al senso dell’umorismo, ed è proprio questa strana combinazione tra riso e pianto, questa miscela di emozioni che ha attirato l’attrice che è dentro di me".


P.S. Ieri sera stavo cercando le immagini per il bel post di Giulia. Sono stato colpito come di questo film -che non ho ancora visto- fossero presenti immagini in cui si vede Anjelica Huston, la protagonista, insieme ad altre donne. Alla fine le ho privilegiate, le ho scelte quasi tutte così. Il tema non è l'amicizia, ma la solidarietà. Amicizia è spesso una parola ambigua, anche perché, che ci piaccia o no, non è generalmente vero che una amicizia è per sempre: si cambia nella vita, e non si trovano più argomenti comuni, si ripiega sul dobbiamo vederci, mentre dovremmo stare sul piacciamo vederci. Solidarietà è invece parola molto concreta, e le donne lo hanno sempre saputo: in certi momenti, la solidarietà fra donne è essenziale. Basta guardare con occhi attenti in tante chiese, senza immergersi subito nella lettura della guida turistica, magari competentissima. Guardiamo quello che succede su quella tela o tavola, o in quell'affresco. Ci sono almeno due grandi temi in cui la solidarietà fra donne è in primo piano: uno è la Visitazione, dell'altro scriverò fra un po' di tempo. La Visitazione è l'incontro fra due donne, entrambe incinte: Maria molto giovane ed Elisabetta molto anziana. Fra loro si capiscono e si aiutano, proprio come accade ad Agnes e Marion, o a Thelma e Louise. Cambiano tante cose, ma la sostanza della solidarietà rimane, laica o religiosa che sia. Per questo metto due opere note -forse non notissime- di grandi artisti in fondo nostri contemporanei, basta che ce ne accorgiamo. (s)

Piero di Cosimo: Visitazione con San Nicola e Sant'Antonio 1489-90
National Gallery of Art, Washington

Pontormo: Visitazione 1528-30
Pieve di San Michele a Carmignano (Firenze)

mercoledì 27 febbraio 2008

Quando volano le cicogne

Letyat zhuravli, di Mikhail Kalatozov (1957) Storia e sceneggiatura di Victor Rozov Con Tatyana Samoijlova, Aleksey Balatov, Vasili Merkuryev, Aleksandr Shvorin, Svetlana Karithonova, Kostantin Nikitin Musica: Moisey Vaynberg Fotografia: Sergei Urusevsky, Montaggio: Mariya Timofeyeva (97 minuti) Rating IMDb: 8.0

Gabrilu sul suo blog NonSoloProust
All'alba di una bellissima mattina degli anni '40 Vera e Boris, innamorati e felici, guardano volare nel cielo di Mosca uno stormo di uccelli migratori che preannunciano l'arrivo della primavera. Vengono loro in mente, e le ripetono più volte, le parole che noi sappiamo essere quelle di Masha nel secondo atto di Le tre sorelle di Cechov: "Gli uccelli migratori, le gru, volano, volano"

Vera e Boris sono i protagonisti di Letyat zhuravli, un film sovietico del 1957 -- Palma d'Oro al Festival di Cannes del 1958 -- il cui titolo è stato tradotto, in italiano, con Quando volano le cicogne. Gli uccelli migratori che i due innamorati guardano volare nel cielo di Mosca, però, non sono cicogne ma gru.

La trama di questo film del quale avevo un bellissimo ricordo e che ho rivisto in questi giorni non è particolarmente originale: due innamorati prossimi alle nozze vengono separati dalla guerra e dal destino. Messa così, la faccenda è quasi banale, eppure il film risulta ricco di emozioni e ci sono parecchi motivi per i quali può suscitare ancora oggi molto interesse.

Il contesto storico in cui venne realizzato, per esempio.

La morte di Stalin nel marzo del 1953 e la lotta per il potere che ne era seguita aveva portato al vertice, qualche anno dopo, Nikita Kruscev e con lui aveva avuto inzio la cosiddetta "destalinizzazione". Il film di Kalatozov assunse immediatamente un potente significato simbolico di quello che venne chiamato il "disgelo". E questo, perchè il film non era portatore di alcun messaggio ideologico, ma esprimeva soltanto un profondo desiderio di pace: raccontava infatti una storia privata nella Russia sovietica durante la seconda guerra mondiale, una storia in cui semplici ed intimi sentimenti di gente comune vengono annientati dalla mostruosa macchina bellica.


L'amore dei due giovani moscoviti è infatti tragicamente interrotto dalla seconda guerra mondiale.

Boris parte per il fronte e Vera, rimasta completamente sola dopo aver visto morire sotto le bombe il padre e la madre, viene accolta come una figlia nella casa dei parenti del suo ragazzo dove vive anche Mark, cugino di Boris e uomo di pochi scrupoli. Vera continua la sua esistenza nell'attesa di poter riabbracciare un giorno il suo amato del quale non ha notizie da molto tempo...
Kalatozov sceglie di mostrarci come un certo tipo di sentimenti e di sofferenze dell'animo umano può essere lo stesso sia in tempo di pace che di guerra. Per questo motivo, pur essendo il film ambientato in tempo di guerra sarebbe fuorviante incasellare Quando volano le cicogne nel genere "film di guerra". In realtà questo è un film d'amore e di emozioni. Non ci sono epiche scene di battaglia o nazisti che marciano verso l'URSS. Della battaglia di Stalingrado sentiamo solo qualche accenno da parte dei soldati ricoverati nell'ospedale di Mosca e in tutto il film c'è solo una sequenza, peraltro abbastanza breve, che ci mostra Boris sul campo di battaglia.

Kalatozov descrive il fronte interno senza retorica, con una protagonista molto umana e non priva di contraddizioni, ben lontana dalle eroine positive e tutte d'un pezzo alle quali il pubblico sovietico era abituato.

Quando volano le cicogne è, certo, un film molto romantico, perchè l'amore --- rappresentato come un assoluto --- viene esaltato dall'ardente, intensa interpretazione di Tatyana Samoijlova, dalle raffinate riprese di Kalatozov e dal sontuoso bianco e nero della fotografia di Sergej Urusevskij che alla Samoijlova dedica una serie di bellissimi primi piani.

E' un film che ad uno spettatore occidentale può apparire a tratti anche un po' melodrammatico ed ai limiti di un delirante virtuosismo ma, proprio per questo, esso rappresentava invece, per il tempo in cui fu realizzato, uno sconvolgimento dei grevi canoni fino ad allora imposti dal realismo socialista.

Sono molto contenta di aver rivisto questo film dopo tanti anni, e di aver ritrovate intatte le emozioni provate la prima volta. Ah, dimenticavo: ne Le tre sorelle di Cechov, Masha dice così:

"...fra un milione di anni la vita sarà sempre com'era una volta; non cambierà, resterà sempre uguale, seguendo le sue proprie leggi, che non riguardano lei, e che lei non potrà mai conoscere. Gli uccelli migratori, le gru, per esempio, volano, volano. E quali che siano i pensieri sublimi o meschini, che circolino nelle loro teste, voleranno sempre, senza sapere mai perché, né dove sono diretti."


martedì 26 febbraio 2008

Marianna Ucrìa (1)

Marianna Ucrìa (Eva Grieco)

Marianna Ucrìa, di Roberto Faenza (1997) Dal romanzo di Dacia Maraini, Sceneggiatura di Roberto Faenza, Francesco Marcucci, Sandro Petraglia Con Emmanuelle Laborit, Eva Grieco, Bernard Giraudeau, Laura Morante, Philippe Noiret, Laura Betti, Leopoldo Trieste, Lorenzo Crespi, Roberto Herlitzka, Silvana Gasparini, Fabrizio Bentivoglio, Selvaggia Quattrini Musica: Ennio Morricone, Franco Piersanti Fotografia: Tonino Delli Colli Costumi: Danilo Donati (108 minuti) Rating IMDb: 5.4
Solimano
Certi numeri hanno la testa dura, ed i numeri IMDb sono fra questi. Nel caso di Marianna Ucrìa di Roberto Faenza, ad impressionare non è tanto il basso rating: 5.4 è veramente poco, ma nei film in cui i votanti sono pochi bastano un po' di graffitari che votino 1/10 a scompigliare la classifica. Quello che veramente colpisce è il numero di votanti: 64 dal 1997 ad oggi, pochissimi. Scommetto che qualsiasi film storico francese fatto negli ultimi dieci anni qualche centinaio di voti se li è portati a casa.

Marianna gioca a scacchi col nonno

Che questo sia un film notevole, di molti pregi e pochi difetti racconto in seguito, ma mi faccio una domanda: perché succede così? Non vado in cerca di motivi strani, dico quello che a mio avviso è il principale: in Italia, per film di questo tipo manca il pubblico. Altro che zoccolo duro magari borghese ma acculturato, qui non c'è neppure lo zoccoletto, il battiscopa.
La mia risposta è un po' diversa da quella di Giuliano, che ritiene che la causa sia nella TV e nelle persone che così hanno voluto ed ottenuto che fosse, è che in Italia c'è quel fenomeno che ha definitivamente espresso tanti anni fa Fortebraccio sull'Unità. Scriveva -fra l'altro benissimo- i suoi brevi pezzi quotidiani, ed un giorno se la prese con Agostino Bignardi, un deputato liberale che di mestiere era agrario (come Malagodi) e le parole furono: "l'onorevole Bignardi è istruito ma non colto". Non era un caso isolato, è che storicamente la nostra borghesia è fatta in questo modo, basta che chi ha fatto il Liceo Classico rifletta su come erano generalmente i suoi compagni e le sue compagne di classe e su che cosa si leggesse nelle loro famiglie - ammesso che si leggesse qualcosa oltre ai necrologi sul giornale locale, nel caso della Gazzetta di Parma adornati di belle foto large size dei defunti.

Marianna e Fila

Un buon contributo l'ha dato l'intellighentsia, il cui motto non dichiarato ma praticato era "meno siamo meglio stiamo", con qualche tentativo velleitario che non modificava in nulla la situazione. Un esempio -so che Giuliano dissentirà- fu quello che fece Enzo Siciliano come presidente della RAI: mandare una sera in TV al posto del telegiornale la prima della Traviata alla Scala. Parrà strano, ma per il presente ed il futuro sono ottimista, ci sono azioni e risposte nelle direzioni giuste. Ma qui per il momento mi fermo, sottolineando solo che, nel suo piccolo ruolo, questo blog vorrebbe essere al tempo stesso popolare e colto -simul stabunt simul cadent- forse qualcuno se n'è accorto e ci tornerò.
Non ho letto il libro di Dacia Maraini, quindi sono esentato dai discorsi sulla fedeltà o meno del film al libro e sulle modifiche alla storia raccontata. E' una bella palla al piede, che un regista faccia un film tratto da un romanzo lungo: come fare a comprimere in due ore centinaia di pagine? Sembra una domanda ovvia, ma la risposta è in quello che accade: sono pochissimi i film memorabili tratti da romanzi lunghi, mentre ce ne sono molti di più tratti da racconti di qualche decina di pagine.
Ci sarebbe un altro sistema, che personalmente preferisco: quello di non fare il film su tutto il libro, ma concentrandosi su un episodio piuttosto breve. Un esempio forse piccolo ma non trascurabile è quello che ha fatto Francesca Comencini con Le parole di mio padre, tratto da due capitoli de La coscienza di Zeno. Con Marcel Proust è stato fatto qualcosa del genere con buoni risultati ed anche con Giacomo Casanova. Non parlo del film di Federico Fellini che fa storia a sé, parlo di alcuni film mirati, tratti dalle Memorie di Casanova o da un racconto di Schnitzler che a Casanova fa riferimento.

Marianna Ucrìa (Eva Grieco)

Come al solito, la regola è che non c'è regola, ma se riflettiamo su Joseph Conrad o su Graham Greene scopriamo che, fra i tanti film che ne hanno tratto, il meglio c'è quando il riferimento è ad un testo breve (Heart of Darkness, ad esempio), altrimenti si finisce per accumulare, e non va bene. Il che vorrebbe dire che i vecchi romanzi sceneggiati della TV erano nel giusto (specie se non c'era Anton Giulio Majano, quello che raccontava la fatica che gli toccava fare per togliere da Dostoevskij la psicologia...). Perfino film pregevoli, come Le relazioni pericolose di Stephen Frears e Ritratto di signora di Jane Campion soffrono di questo eccesso di offerta.
Così succede a Faenza col suo film, perché la storia è di anni su anni, piena di accadimenti di ogni genere, però ha la fortuna di avere una centralità obbligata sul personaggio di Marianna Ucrìa, impersonato da due attrici diverse come età, proprio per la durata: da ragazzina e giovane sposa e madre è Eva Grieco, da donna giovane e poi matura è Emmanuelle Laborit, entrambe benissimo in parte, anche se le lodi sono state maggiori per la giovanissima Eva Grieco. Emmanuelle Laborit, figlia di Henry, il grande biologo e scrittore, è effettivamente sordomuta, come il personaggio di Marianna Ucrìa.
Sto sulla prima parte, in cui troviamo Marianna ancora bambina. Il nonno (Philippe Noiret) la porta ad assistere ad una impiccagione per vedere se la scossa emotiva la costringe a parlare, ma il risultato sarà che Marianna prenderà volentieri come sua serva Fila (Selvaggia Quattrini), quasi sua coetanea, il cui padre è stato impiccato.

L'arrivo del precettore Grass accolto da Fila

Marianna è sveglia e capace, sa dipingere, gioca a scacchi col nonno e imparerà molto da un precettore francese, Grass (Bernard Giraudeau) che porta in Sicilia il vento illuminista e quello empirista e scettico dello scozzese David Hume, salvo essere poi mandato via per opera di un fratello prete -in ogni famiglia ci sono ecclesistici e cappelle di sepoltura con scheletri rivestiti e tutto il consueto armamentario.
Un giorno la madre (Laura Morante) le prospetta il matrimonio -ormai è ora, Marianna ha quasi quattordici anni- e le dice di sposare un suo fratello, lo zio Pietro (Roberto Herlitzka), più anziano che giovane. Marianna risponde con un bel No! sulla lavagnetta che l'accompagna sempre.

Marianna circondata dai parenti nel giorno di matrimonio

Ma si troverà a diciassette anni sposata con Pietro e già con tre figlie, con Pietro che anela ad avere finalmente un maschio. Ama le sue figlie, ma il marito le repugna specie a letto, Marianna quando può vive in campagna. E muore il nonno che l'amava, accoltellato di notte all'uscita del bordello che frequentava. Come era costume, c'è una bella lotta in famiglia sul testamento, perché il nonno aveva privilegiato Marianna, che ha un buon rapporto anche con la nonna (Laura Betti). Fila è praticamente cresciuta con Marianna, ora in casa c'è anche Saro (Lorenzo Crespi), il fratello di Fila.
(continua)

Marianna fa il ritratto alla famiglia

lunedì 25 febbraio 2008

Alberto Arbasino al cinema (2)

L'immorale (1967) di Pietro Germi

Solimano

Alberto Arbasino
Conversazione con Gabriele Pedullà (2)
Trovata sul sito Marcos y Marcos

Insomma aveva ragione Fitzgerald: per quanto dorate, si trattava pur sempre di miniere di sale…
Nelle miniere di sale ci vai se hai una famiglia da mantenere o dei debiti da pagare. Io sono sempre stato una persona frugale, vivevo con poco come faccio anche adesso, figuriamoci allora se vado alle miniere di sale: piuttosto me ne vado sull’albero di ciliegie, me ne vado.
In alcuni tuoi scritti degli anni Sessanta – penso soprattutto a Certi romanzi – la riflessione critica sulla questione del romanzo (che cosa è il romanzo, cosa l’antiromanzo, come si può e come si deve scrivere un’opera in prosa…) è sempre intrecciata, quando in modo più implicito, quando in modo più esplicito con la riflessione sul cinema. In particolare mi pare che la tua vicinanza con Fellini sia particolarmente significativa, per esempio nella tua recensione di Otto e mezzo per «Il Giorno».
Stavamo leggendo Musil e scoprivamo dei paralleli e dei procedimenti simili. E senza poter stabilire, né allora, né oggi, quanto ci fosse di Flaiano e quanto, invece, fosse proprio una intuizione sua.

Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli

Andando avanti negli anni Sessanta c’è sicuramente una svolta nel cinema italiano. Mi pare che tu apprezzi molto quello che fa Fellini (tanto più in rapporto ai film «sentimentali» del decennio precedente), mentre invece Visconti e Antonioni, che avevi molto amato negli anni Cinquanta (Senso e Le amiche soprattutto), ti sembrano imboccare delle strade morte. Con Visconti eravate pure abbastanza amici, se non sbaglio. Come prese la tua recensione de Il Gattopardo?
Malissimo! Arrabbiandosi. Tirando su il becco medievale. Dicendo a tanti amici in comune: «Se c’è quello lì, io non vengo». Ma la stessa cosa diceva Strehler a Giangiacomo Feltrinelli. Erano tutti e due molto alteri e pieni di sé. E ormai troppo assuefatti alla devozione e alla piaggeria. Non potevano tollerare di essere messi in discussione con un minimo di ironia – virtù che nessuno di loro ha mai posseduto. E quindi la loro reazione era di dire: «Ma chi è questo?», «Cosa sono queste cattive maniere?», «Uno che scrive queste cose non ha studiato!». Li avevano abituati ad essere giudicati dal superlativo assoluto in su.
Pasolini non è il solo scrittore che in quegli anni tenta il passaggio alla regia: oltre al caso di Soldati si possono ricordare almeno Malerba e Patroni Griffi. E se poi guardiamo alla Francia, alla Germania e all’Inghilterra ecco subito gli esempi della Duras, di Robbe-Grillet, di Klossowski, di Alexander Kluge e dello stesso Beckett. Tutto questo ci porta a parlare de La bella di Lodi, che tu hai co-diretto con Missiroli…
È che in quegli anni costava anche molto meno fare un film. La bella di Lodi veramente lo ha diretto Missiroli, nel senso che avevamo fatto insieme trattamento, sceneggiatura e tutto e che io stavo sul set con lui, ma, siccome Mario era stato assistente di Zurlini nei suoi film migliori, toccava a lui prendere tutte le decisioni finali sull’inquadratura e occuparsi delle questioni tecniche.
Comunque avevate discusso assieme le soluzioni formali del film anche da un punto di vista propriamente visivo…
Certo.

I magliari (1959) di Francesco Rosi

Come consideri questa esperienza? Un arricchimento? Una perdita di tempo? Un gioco?
Non una perdita di tempo e nemmeno un gioco. Mi ha interessato, mi ha divertito anche abbastanza, malgrado le grandi fatiche, trattandosi di un film fatto con grande economia di mezzi. Addirittura avevo pensato di scrivere un libro sul film, che era molto girato in esterni, tra Lodi e Modena, e quindi c’era la possibilità di raccontare anche gli incontri, la stagione… La sensazione che ho avuto è stata simile a quella che ho provato quando ho cercato di fare delle regie d’opera e di prosa (avevo fatto a Bologna la Carmen diretta da Pierre Dervaux con cantanti della Scala e La Traviata all’opera del Cairo con Franco Mannino, mentre qui a Roma, per lo Stabile di Roma, quando c’era Vito Pandolfi, avevo diretto Prova inammissibile di John Osborne). Da tutte queste esperienze ho ricavato l’impressione che per uno scrittore è molto difficile lavorare in équipe, soprattutto in équipe di spettacolo dove c’è una tale quantità di dati tecnici che non si possono stabilire con degli equivalenti verbali, dicendo per esempio: «Io voglio una luce così e così», perché quello ti risponde: «Metto il venti o il cinquanta?». Sono delle questioni tecniche come quelle che si affrontano in un’autofficina: «Mi consigli che pneumatico debbo mettere, li vorrei piuttosto larghi e fatti in questo modo…». Lo stesso vale per il teatro. I tecnici delle luci sono in attesa di parametri precisi. Se non si conosce bene la tecnica della respirazione e dell’emissione è inutile dire a un cantante: «Muova il braccio destro», perché quello ti risponde: «No, non posso» (anche se, a dire il vero, oggi i cantanti lirici sono più atletici, meno immobili di un tempo). Uno che ha fatto l’aiuto regista per tanti anni queste cose le sa. Uno scrittore no. Lo scrittore parte per forza dagli effetti.
Questo per l’aspetto tecnico della regia. Invece per l’aspetto umano del rapporto con gli attori, bisogna dire che sono persone di grande sensibilità istintiva e per ottenere degli effetti bisogna di volta in volta giocare con loro, come appunto fanno tutti i registi, di teatro e di cinema. Per prima cosa i registi di teatro e di cinema passano tutta la loro vita con gli attori. Cenano in compagnia tutte le sere, vanno in vacanza assieme, partecipano alla vita delle rispettive famiglie e quindi si stabilisce una fitta rete di intimità, di abitudini e di consuetudini. Con alcuni ci vuole Fellini che fa il gattone affettuoso, con altri Visconti che fa il signore cattivissimo e li intimorisce con i suoi ordini perentori e poi il giorno dopo per farsi perdonare gli manda un regalo di Bulgari (commento: «Che cattivo, però è un gran signore…»). Ognuno ha i suoi metodi. Se uno scrittore, che è abituato ad altri strumenti espressivi, invece di mostrargli con dei gesti o prendendolo a schiaffi o a forza di spintoni quello che cerca, dà a un attore o a un cantante delle indicazioni che con quelle stesse parole sarebbero chiarissime in una recensione (dove l’atmosfera viene spiegata in termini critici e il lettore ce l’ha davanti e comprende benissimo l’effetto), otterrà solo il cinque, dieci per cento di quello che si aspetta. Per cui, chi fa il regista di professione ha in mano quelli che in fondo sono strumenti semplicissimi, ma guai al profano che cerca di metterci le mani. È come quando si guasta la televisione: arriva il tecnico che la ripara in pochi istanti, mentre il critico d’arte magari in questi casi non sa neanche dove sta la spina… Anche La bella di Lodi, quando l’ho visto proiettato, era solo una pallida traccia di quello che avevo in mente. Sono state delle belle esperienze, ma i risultati non sono all’altezza del progetto.

Estate violenta (1959) di Valerio Zurlini

Tu in quegli stessi anni hai collaborato con Missiroli anche al musical Amate sponde…
Quello è bellissimo! Un piccolo musical con tre o quattro personaggi e masse colossali. È praticamente irrappresentabile, ma naturalmente era voluto. Le didascalie sono peggio di quelle di Schönberg nel Mosé e Aronne: «Arrivano diecimila massaie rurali». Oppure: «Entra l’Etiopia». Altro che Griffith e Cecil B. De Mille! Si pensava magari di fare delle proiezioni sullo sfondo.
Non lo hai mai riscritto?
Non si è mai presentata l’occasione. Ma è stata una collaborazione molto felice. Scrivevamo all’unisono: uno diceva una battuta e subito l’altro gli forniva la replica perfetta. Un po’ come quelle coppie leggendarie di sceneggiatori hollywoodiani. La sfida sarebbe stata quella di trovare dei vecchi film per proiettare le masse dell’Italia fascista in un palcoscenico da cabaret. Lo spettacolo ha avuto qualche rappresentazione che però non funzionava. Nel testo tutte le battute sono già fortemente caricaturali di per sé perché spostano i luoghi comuni del fascismo in un’altra situazione incongrua ma non meno fascista, rivelando per contrasto obiettivo la loro stronzaggine. Quando invece hanno provato a recitarlo, gli attori davano un’intonazione satirica alle battute. Un motto del Duce, se viene detto con l’intonazione del Duce in una situazione balorda, si svela per la stronzata che è; se invece viene detto in falsetto, facendo già delle irrisioni vocali, allora non è più la frase del duce. Ma è un problema in generale del teatro. Anche Shaw diceva: «recitatelo come è scritto! non metteteci nessuna intonazione! Be straight: e così troverete il significato».

Il Bell'Antonio (1960) di Mauro Bolognini

Queste due esperienze con Missiroli hanno in comune la ricerca di un confronto ironico con due forme di espressione tipicamente popolare che si rivolgono a un pubblico molto più vasto, come il musical e il cinema… Una finta popolarità che è il massimo della raffinatezza.
Il film La bella di Lodi aveva alle spalle l’omonimo racconto, mentre il romanzo è venuto soltanto dopo e in qualche modo ha preso il posto del libro che avevo pensato di scrivere sulla lavorazione del film (una sorta di Bella di Lodi al quadrato). Ma non era tanto la popolarità della forma ad attrarmi. Nel musical, la satira sul fascismo era addirittura violenta, perché bastava inserire dentro tutta una serie di reperti autentici d’epoca perché venisse fuori la tragedia che è stata. Invece nel film il progetto era di applicare il materialismo di Brecht (che allora era molto di moda) alla più convenzionale storia d’amore all’italiana: mostrare i motivi economici, il peso delle differenze sociali, i soldi che stanno dietro la parete del romanzo. Più che ironico, il film era imbevuto di brechtismo materialistico allo stato puro. Nella realizzazione, certo non veniva fuori così, anche per ragioni produttive. Molte cose sono state rese più popolari (popolari per davvero), ma contro la mia volontà, smussando gli elementi di critica più esplicita. Quello che volevo fare si avvicina molto a certi film di Fassbinder di alcuni anni dopo: portare alla luce il materialismo dei soldi che agisce dietro una storia apparentemente sentimentale.
Il film doveva finire con il bel ragazzo proletario (che è appena riuscito a sposare la bella ragazza di buona famiglia) che si va a schiantare sull’autostrada del sole proprio con l’auto che ha ricevuto in dono per il matrimonio. Nell’ultima scena il bel ragazzo proletario doveva andare in luna di miele a Venezia tutto ingessato: lei ha il giovanotto, lui la sua bella (una bella che ha anche i soldi), ma il film si chiude col viaggio di nozze di un invalido. Più Fassbinder di così… Dal libro si può ricostruire abbastanza bene l’intento con cui era stato pensato. È molto secco, duro, rapido, c’è un vero taglio cinematografico. In questo senso è davvero un romanzo brechtiano.

(...)

La bella di Lodi (1963) di Mario Missiroli

domenica 24 febbraio 2008

Parigi nel cinema: Quell'oscuro oggetto del desiderio (2)

Solimano
Abbiamo visto in azione a Parigi in Place des Vosges i due protagonisti di Quell'oscuro oggetto del desiderio (1977) di Luis Bunuel: Mathieu (Fernando Rey) e Conchita (Carole Bouquet o Angela Molina, a seconda dei casi), ma i due, sia quando vanno d'accordo che quando litigano, li troviamo in diverse altre zone di Parigi.
Anzitutto, dove abita Conchita? In un piccolo appartamento in un quartiere degradato: la strada è dissestata, il traffico disordinato e le case messe molto male. Sta arrivando la speculazione edilizia, si vedono i grattacelli che stanno sorgendo più in là. Mathieu finalmente è riuscito a sapere l'indirizzo di Conchita (in questo caso Angela Molina, immagine sopra il post) e la troverà, mentre balla il flamenco in cucina accompagnata dalla chitarra di un giovane che desterà i sospetti di Mathieu.


Nel film compare anche la facciata di una cappella bene identificata. La madre di Conchita (Ellen Bahl), che è molto religiosa, va a messa tutte le mattine, difatti la vediamo dopo la fine della messa pochi metri più in là, seguita da un'amica, ad aspettare un autobus su Les Champs Elysées. Si fermerà una macchina di lusso guidata dal cameriere di Mathieu (André Weber) che porterà la donna nell'ufficio, in cui Mathieu riuscirà a convincerla rapidamente -malgrado la religione- ad accettare dei soldi per convincere Conchita a vivere in una casa che lui mette a disposizione. E' l'episodio in cui c'è il topo preso in trappola. Ma Conchita -testa dura- non si farà convincere.


Compare anche Rue de Rivoli, ed affianco all'immagine del film una immagine d'epoca (albumen print o seppia, come la si preferisce chiamare), che ho preso nel sito inglese di cui ho già scritto e che ora trovate facilmente fra i nostri Siti consigliati. Sembra che il traffico fosse un po' minore dell'attuale.


Mathieu e Conchita (qui Carole Bouquet) camminano anche lungo la Senna, la zona non è centrale ma il quartiere è moderno, quasi avveniristico per i tempi. Conchita scatta una foto a Mathieu, poi è lei a guardare il fiume. Mathieu è impacciato dal sacco di iuta, di cui ho già scritto: stavolta è capitato a lui, e sarebbero proprio eleganti, a passeggiare insieme, solo che quel sacco in spalla a Mathieu, ne deforma un po' la configurazione alto-borghese.




Dopo tante traversie, sembra che la situazione sia ormai tranquilla: Mathieu e Conchita (ancora Carole Bouquet) camminano in un confortevole passaggio coperto, hanno evidentemente l'intenzione di fare un pomeriggio di acquisti. Elegantissimi entrambi, Mathieu le tiene leggermente il braccio, Conchita ha l'aria di stare un po' sulle sue, ma sembra tutto sommato contenta. Non ci sono sacchi di iuta tra di loro. Mathieu scorge il piccolo negozio di una ricamatrice che vende abiti da sposa; si ferma affascinato, ragionando sul fatto che sarebbe una bella idea sposarsi.


Ma Conchita, che ne sa una più del diavolo -forse è un diavolo!- si è accorta che nella vetrina, oltre alla ricamatrice ed agli abiti da sposa, c'è il solito sacco di iuta, e mentre Mathieu è quasi commosso dall'abito da sposa, lo guarda in tralice e sta sottraendo la sua mano per prendere le distanze (immagine qui sotto). Cominceranno come al solito a discutere camminando separati, li vedremo di spalle, ma in quel momento ci sarà l'episodio che conclude il film e che non racconto.