lunedì 25 febbraio 2008

Alberto Arbasino al cinema (2)

L'immorale (1967) di Pietro Germi

Solimano

Alberto Arbasino
Conversazione con Gabriele Pedullà (2)
Trovata sul sito Marcos y Marcos

Insomma aveva ragione Fitzgerald: per quanto dorate, si trattava pur sempre di miniere di sale…
Nelle miniere di sale ci vai se hai una famiglia da mantenere o dei debiti da pagare. Io sono sempre stato una persona frugale, vivevo con poco come faccio anche adesso, figuriamoci allora se vado alle miniere di sale: piuttosto me ne vado sull’albero di ciliegie, me ne vado.
In alcuni tuoi scritti degli anni Sessanta – penso soprattutto a Certi romanzi – la riflessione critica sulla questione del romanzo (che cosa è il romanzo, cosa l’antiromanzo, come si può e come si deve scrivere un’opera in prosa…) è sempre intrecciata, quando in modo più implicito, quando in modo più esplicito con la riflessione sul cinema. In particolare mi pare che la tua vicinanza con Fellini sia particolarmente significativa, per esempio nella tua recensione di Otto e mezzo per «Il Giorno».
Stavamo leggendo Musil e scoprivamo dei paralleli e dei procedimenti simili. E senza poter stabilire, né allora, né oggi, quanto ci fosse di Flaiano e quanto, invece, fosse proprio una intuizione sua.

Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli

Andando avanti negli anni Sessanta c’è sicuramente una svolta nel cinema italiano. Mi pare che tu apprezzi molto quello che fa Fellini (tanto più in rapporto ai film «sentimentali» del decennio precedente), mentre invece Visconti e Antonioni, che avevi molto amato negli anni Cinquanta (Senso e Le amiche soprattutto), ti sembrano imboccare delle strade morte. Con Visconti eravate pure abbastanza amici, se non sbaglio. Come prese la tua recensione de Il Gattopardo?
Malissimo! Arrabbiandosi. Tirando su il becco medievale. Dicendo a tanti amici in comune: «Se c’è quello lì, io non vengo». Ma la stessa cosa diceva Strehler a Giangiacomo Feltrinelli. Erano tutti e due molto alteri e pieni di sé. E ormai troppo assuefatti alla devozione e alla piaggeria. Non potevano tollerare di essere messi in discussione con un minimo di ironia – virtù che nessuno di loro ha mai posseduto. E quindi la loro reazione era di dire: «Ma chi è questo?», «Cosa sono queste cattive maniere?», «Uno che scrive queste cose non ha studiato!». Li avevano abituati ad essere giudicati dal superlativo assoluto in su.
Pasolini non è il solo scrittore che in quegli anni tenta il passaggio alla regia: oltre al caso di Soldati si possono ricordare almeno Malerba e Patroni Griffi. E se poi guardiamo alla Francia, alla Germania e all’Inghilterra ecco subito gli esempi della Duras, di Robbe-Grillet, di Klossowski, di Alexander Kluge e dello stesso Beckett. Tutto questo ci porta a parlare de La bella di Lodi, che tu hai co-diretto con Missiroli…
È che in quegli anni costava anche molto meno fare un film. La bella di Lodi veramente lo ha diretto Missiroli, nel senso che avevamo fatto insieme trattamento, sceneggiatura e tutto e che io stavo sul set con lui, ma, siccome Mario era stato assistente di Zurlini nei suoi film migliori, toccava a lui prendere tutte le decisioni finali sull’inquadratura e occuparsi delle questioni tecniche.
Comunque avevate discusso assieme le soluzioni formali del film anche da un punto di vista propriamente visivo…
Certo.

I magliari (1959) di Francesco Rosi

Come consideri questa esperienza? Un arricchimento? Una perdita di tempo? Un gioco?
Non una perdita di tempo e nemmeno un gioco. Mi ha interessato, mi ha divertito anche abbastanza, malgrado le grandi fatiche, trattandosi di un film fatto con grande economia di mezzi. Addirittura avevo pensato di scrivere un libro sul film, che era molto girato in esterni, tra Lodi e Modena, e quindi c’era la possibilità di raccontare anche gli incontri, la stagione… La sensazione che ho avuto è stata simile a quella che ho provato quando ho cercato di fare delle regie d’opera e di prosa (avevo fatto a Bologna la Carmen diretta da Pierre Dervaux con cantanti della Scala e La Traviata all’opera del Cairo con Franco Mannino, mentre qui a Roma, per lo Stabile di Roma, quando c’era Vito Pandolfi, avevo diretto Prova inammissibile di John Osborne). Da tutte queste esperienze ho ricavato l’impressione che per uno scrittore è molto difficile lavorare in équipe, soprattutto in équipe di spettacolo dove c’è una tale quantità di dati tecnici che non si possono stabilire con degli equivalenti verbali, dicendo per esempio: «Io voglio una luce così e così», perché quello ti risponde: «Metto il venti o il cinquanta?». Sono delle questioni tecniche come quelle che si affrontano in un’autofficina: «Mi consigli che pneumatico debbo mettere, li vorrei piuttosto larghi e fatti in questo modo…». Lo stesso vale per il teatro. I tecnici delle luci sono in attesa di parametri precisi. Se non si conosce bene la tecnica della respirazione e dell’emissione è inutile dire a un cantante: «Muova il braccio destro», perché quello ti risponde: «No, non posso» (anche se, a dire il vero, oggi i cantanti lirici sono più atletici, meno immobili di un tempo). Uno che ha fatto l’aiuto regista per tanti anni queste cose le sa. Uno scrittore no. Lo scrittore parte per forza dagli effetti.
Questo per l’aspetto tecnico della regia. Invece per l’aspetto umano del rapporto con gli attori, bisogna dire che sono persone di grande sensibilità istintiva e per ottenere degli effetti bisogna di volta in volta giocare con loro, come appunto fanno tutti i registi, di teatro e di cinema. Per prima cosa i registi di teatro e di cinema passano tutta la loro vita con gli attori. Cenano in compagnia tutte le sere, vanno in vacanza assieme, partecipano alla vita delle rispettive famiglie e quindi si stabilisce una fitta rete di intimità, di abitudini e di consuetudini. Con alcuni ci vuole Fellini che fa il gattone affettuoso, con altri Visconti che fa il signore cattivissimo e li intimorisce con i suoi ordini perentori e poi il giorno dopo per farsi perdonare gli manda un regalo di Bulgari (commento: «Che cattivo, però è un gran signore…»). Ognuno ha i suoi metodi. Se uno scrittore, che è abituato ad altri strumenti espressivi, invece di mostrargli con dei gesti o prendendolo a schiaffi o a forza di spintoni quello che cerca, dà a un attore o a un cantante delle indicazioni che con quelle stesse parole sarebbero chiarissime in una recensione (dove l’atmosfera viene spiegata in termini critici e il lettore ce l’ha davanti e comprende benissimo l’effetto), otterrà solo il cinque, dieci per cento di quello che si aspetta. Per cui, chi fa il regista di professione ha in mano quelli che in fondo sono strumenti semplicissimi, ma guai al profano che cerca di metterci le mani. È come quando si guasta la televisione: arriva il tecnico che la ripara in pochi istanti, mentre il critico d’arte magari in questi casi non sa neanche dove sta la spina… Anche La bella di Lodi, quando l’ho visto proiettato, era solo una pallida traccia di quello che avevo in mente. Sono state delle belle esperienze, ma i risultati non sono all’altezza del progetto.

Estate violenta (1959) di Valerio Zurlini

Tu in quegli stessi anni hai collaborato con Missiroli anche al musical Amate sponde…
Quello è bellissimo! Un piccolo musical con tre o quattro personaggi e masse colossali. È praticamente irrappresentabile, ma naturalmente era voluto. Le didascalie sono peggio di quelle di Schönberg nel Mosé e Aronne: «Arrivano diecimila massaie rurali». Oppure: «Entra l’Etiopia». Altro che Griffith e Cecil B. De Mille! Si pensava magari di fare delle proiezioni sullo sfondo.
Non lo hai mai riscritto?
Non si è mai presentata l’occasione. Ma è stata una collaborazione molto felice. Scrivevamo all’unisono: uno diceva una battuta e subito l’altro gli forniva la replica perfetta. Un po’ come quelle coppie leggendarie di sceneggiatori hollywoodiani. La sfida sarebbe stata quella di trovare dei vecchi film per proiettare le masse dell’Italia fascista in un palcoscenico da cabaret. Lo spettacolo ha avuto qualche rappresentazione che però non funzionava. Nel testo tutte le battute sono già fortemente caricaturali di per sé perché spostano i luoghi comuni del fascismo in un’altra situazione incongrua ma non meno fascista, rivelando per contrasto obiettivo la loro stronzaggine. Quando invece hanno provato a recitarlo, gli attori davano un’intonazione satirica alle battute. Un motto del Duce, se viene detto con l’intonazione del Duce in una situazione balorda, si svela per la stronzata che è; se invece viene detto in falsetto, facendo già delle irrisioni vocali, allora non è più la frase del duce. Ma è un problema in generale del teatro. Anche Shaw diceva: «recitatelo come è scritto! non metteteci nessuna intonazione! Be straight: e così troverete il significato».

Il Bell'Antonio (1960) di Mauro Bolognini

Queste due esperienze con Missiroli hanno in comune la ricerca di un confronto ironico con due forme di espressione tipicamente popolare che si rivolgono a un pubblico molto più vasto, come il musical e il cinema… Una finta popolarità che è il massimo della raffinatezza.
Il film La bella di Lodi aveva alle spalle l’omonimo racconto, mentre il romanzo è venuto soltanto dopo e in qualche modo ha preso il posto del libro che avevo pensato di scrivere sulla lavorazione del film (una sorta di Bella di Lodi al quadrato). Ma non era tanto la popolarità della forma ad attrarmi. Nel musical, la satira sul fascismo era addirittura violenta, perché bastava inserire dentro tutta una serie di reperti autentici d’epoca perché venisse fuori la tragedia che è stata. Invece nel film il progetto era di applicare il materialismo di Brecht (che allora era molto di moda) alla più convenzionale storia d’amore all’italiana: mostrare i motivi economici, il peso delle differenze sociali, i soldi che stanno dietro la parete del romanzo. Più che ironico, il film era imbevuto di brechtismo materialistico allo stato puro. Nella realizzazione, certo non veniva fuori così, anche per ragioni produttive. Molte cose sono state rese più popolari (popolari per davvero), ma contro la mia volontà, smussando gli elementi di critica più esplicita. Quello che volevo fare si avvicina molto a certi film di Fassbinder di alcuni anni dopo: portare alla luce il materialismo dei soldi che agisce dietro una storia apparentemente sentimentale.
Il film doveva finire con il bel ragazzo proletario (che è appena riuscito a sposare la bella ragazza di buona famiglia) che si va a schiantare sull’autostrada del sole proprio con l’auto che ha ricevuto in dono per il matrimonio. Nell’ultima scena il bel ragazzo proletario doveva andare in luna di miele a Venezia tutto ingessato: lei ha il giovanotto, lui la sua bella (una bella che ha anche i soldi), ma il film si chiude col viaggio di nozze di un invalido. Più Fassbinder di così… Dal libro si può ricostruire abbastanza bene l’intento con cui era stato pensato. È molto secco, duro, rapido, c’è un vero taglio cinematografico. In questo senso è davvero un romanzo brechtiano.

(...)

La bella di Lodi (1963) di Mario Missiroli

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