sabato 30 giugno 2007

Un dollaro d'onore (2)

Rio Bravo, di Howard Hawks (1959) Sceneggiatura di B.H.McCampbell, Jules Furthman, Leigh Brackett Con John Wayne, Dean Martin, Ricky Nelson, Angie Dickinson, Walter Brennan Fotografia di Russell Harlan, Musica di Dimitri Tiomkin (141 minuti) Rating IMDb 7,9
Lodes
Essendo stato chiamato immeritatamente in causa su questo film mi permetto di intervenire aprendo un nuovo post.
Un dollaro d’onore l’ho visto al cinema quando uscì e rivisto enne volte in tv e mai una volta che il piacere sia venuto meno. Un film perfetto. Perfetto nella storia, nei personaggi, nella recitazione (tutti gli attori concorrono in egual misura in una competizione espressiva di alta qualità), nell’ambientazione. Non è un western dei grandi spazi, di cavalcate, è un film che intreccia sapientemente la psicologia dei singoli personaggi in una trama anomala descrittiva della saga western. Anomala per l’ironia che lo attraversa, ma in cui contorni classici del western non necessitano di alcuna narrazione. Tutto è predefinito e lo spettatore lo sa: quello che conta è la storia è l’intreccio delle psicologie. Gli stereotipi western sono racchiusi in un vaso di fiori dai mille colori: c’è la cittadina ai confini con Messico in cui la legge del più forte resiste all’avanzata della “giustizia/stato” che però è ancora lontana diversi giorni di cavallo, c’è lo sceriffo che presidia una legalità scevra da fronzoli che non ammette cedimenti nemmeno quando il male sembra più forte e vincente. Tutto questo non ha necessità di descrizioni: lo spettatore lo sa già e rivolge l’attenzione allo svolgersi degli eventi. Eventi racchiusi in un microcosmo che ha bisogno solo di alcune scenografie confezionate in studio: la strada principale, il saloon, l’albergo, l’ OK. Corrall, tutto il pathos del film nasce cresce e trova la conclusione qui dentro. Il film appartiene al periodo maturo del western, qui non c’è la narrazione del mito della frontiera, non c’è la narrazione della conquista, della nascita di una nazione, c’è appunto l’ironica narrazione degli stereotipi del western e per certi versi la sua messa in discussione. John Wayne che apparentemente reinterpreta l’ennesimo personaggio del giustiziere che tutto sistema in realtà gioca a smontare se stesso. E per la prima volta lo vediamo innamorato di una donna reale in carne ed ossa, innamorato come un qualsiasi uomo e che combatte una battaglia già persa in partenza con una donna. E’ qui che sbaglia Manuela, in realtà questo è il sovvertimento dello stereotipo. Certo l’omosessualità latente attraversa tutta la cinematografia western e qui Howard Hawks non si sottrae affatto, anzi. Incastra i personaggi in modo tale da creare appunto un grumo di “amicizie particolari” da cui le donne sono escluse: Chance si fa picchiare da Borachon senza reagire ed è disposto a cedere al cattivo pur di salvarlo. Salvarlo dalle donne e dal disonore. Il vecchio Stumpy gode nel sopportare ogni (presunta più che reale) angheria da parte degli amici pur di poterli (da vecchia checca) coccolarli. Poi c’è Colorado che non resiste al fascino di questi uomini e smette di stare a guardare rinunciando alla vita normale di un giovane che dovrebbe coltivare ben altre amicizie. Non si può non vedere questa omosessualità esibita, ma il risultato è eccezionale e proprio nella narrazione di questo intreccio raggiunge le punte più alte: come il bacio di Chance sulla testa di Stumpy, o il litigio tra lo Stesso Stumpy e Borachon, ma il culmine è raggiunto nella scena in cui i quattro, baraccati dentro la prigione, si mettono a cantare Rio Bravo. Assolutamente perfetta. Sarebbero tanti altri gli stereotipi di cui parlare ma è bene che mi fermi qui.
Dunque, per finire, stereotipi rivisti reinterpretati per parlarci di un genere western che ormai ha poco da aggiungere e da dire. Il mito si fa intreccio ironico, si fa narrazione di se stesso, quasi ad annunciare una fine molto vicina. Infatti l’inquadratura finale si chiude sulle calze di Feathers che gettate dalla finestra perché Chance ha capitolato e lo sceriffo sarà come tutti gli altri: un uomo inscimunito dall’amore. Dude 'Borachón' e Stumpy che raccolgono la calza se ne vanno con una risata. Appunto all’America non rimane che ridere di se stessa: l’età della conquista è finita, c’è altro a cui pensare.

Hawks, Dickinson e Wayne in una foto di scena di Rio Bravo

La musica al cinema: Stanley Kubrick

Giuliano
A Stanley Kubrick devo tutto. Tutto quello che so sulla musica, anzi: sulla Musica.
Quando uscì “Arancia Meccanica” io non avevo l’età per vedere il film (e non l’avrei capito, perché è davvero un film per adulti – e non solo come età), però circolava dappertutto la “marcia turca” dall’ultimo movimento della Sinfonia n.9 di Ludwig van Beethoven.
Circolava soprattutto nella versione “addomesticata” di Walter Carlos, uno dei pionieri della musica computerizzata; una versione distorta, ma non molto distante dal vero Beethoven.
A casa mia nessuno si interessava di musica, circolavano solo le canzoni che trasmetteva la radio; ma c’era una grande fortuna, il Terzo Canale della Rai. La radio, ovviamente: alla tv c’erano ancora solo due canali. Ancora oggi devo moltissimo al terzo canale (oggi Radiotre), e spero che continui a trasmettere così come è (e che anzi magari torni un po’ di più a com’era allora); ma senza Kubrick ad indicarmi la strada penso proprio che mi sarei fermato al rock e al jazz, e della musica mi sarei perso la parte migliore.
Qualche anno dopo tornò sugli schermi l’altro capolavoro di Kubrick, “2001 odissea nello spazio”: e qui fu festa grande, perché questo film è pieno di musica. Avevo già ascoltato altre volte il Danubio blu, e mi era sembrato poco interessante: fu Kubrick a farmi capire cosa c’era dietro. Fu Kubrick ad aprirmi gli occhi sulla musica del Novecento: il viaggio verso Giove dell’astronauta Bowman è sorretto dalle musiche dell’ungherese Ligeti.
Seguirà Barry Lyndon (quando uscì io andavo per i diciotto), con la musica di Henry Purcell e le meraviglie del Trio op. 100 per violino, violoncello e pianoforte di Franz Schubert.
C’era abbastanza materiale per cominciare ad andare avanti da solo: Kubrick mi aveva fatto da guida, e ora potevo affrontare i grandi passi alpini e perfino l’Himalaya. La lista sarebbe lunghissima: le ouvertures di Rossini in “Arancia meccanica”; Khachaturian, Richard Strauss e Johann Strauss in “Odissea nello spazio”; la Sarabanda di Haendel, tratta dalla Suite XI per clavicembalo, in “Barry Lyndon”; e, nell’ultimo film di Kubrick, una musica che finalmente avevo scovato da solo: il valzer dalla “Suites per orchestra jazz” di Dimitri Shostakovic: ma avevo già quarant’anni, potevo ormai inchinarmi quasi alla pari davanti alla sapienza del maestro. L’attenzione di Kubrick era rivolta anche alle canzoni: Singing in the rain, sempre in “Arancia meccanica”, la bella musica da jazz band anni 30 di “Shining”, o “Paint it black” dei Rolling Stones, che chiude – subito dopo la marcia di Topolino – “Full metal jacket”.
Ci si potrebbe scrivere un saggio, o una tesi di laurea; preferisco chiudere soffermandomi su un particolare che non viene quasi mai sottolineato: in “Arancia meccanica”, nelle sequenze in cui il giovane Alex esercita la violenza, non è mai Beethoven quello che si sente nella colonna sonora: è l’arrangiamento computerizzato di Walter Carlos.

Nuovo, nuovissimo, anzi archeologico (3)

Roby
La parte razionale del mio cervello me lo sta ripetendo da ore, da quando stamattina mi sono svegliata con in testa quest'idea balzana: "Roby, pensaci bene... stai andando fuori tema: come si fa a proporre in un blog sul cinema le pitture rupestri di Lascaux e le impronte di mani lasciate 7000 (settemila) anni fa nelle cuevas della Patagonia? Su, smettila, e pensa piuttosto al sugo per il pranzo!!!".
Ebbene, ci ho riflettuto, ed ho concluso che il sugo può aspettare.
Mi piace troppo l'idea che quelle mani così vive e vitali, se fossero "nate" oggi, apparterrebbero probabilmente a registi, cineasti, direttori della fotografia di chiara fama.
E mi intriga ancor di più immaginare, davanti al lungo film "pietrificato" sulle pareti della grotta, un pubblico attento di giovani e vecchi guerrieri vestiti di pelli, di donne con neonati appesi al seno come i piccoli dei primati, di sciamani concentrati nelle loro cantilene propiziatorie, nella luce incerta di torce fumose, mentre fuori il vento ulula e la tigre dai denti a sciabola ruggisce minacciosa...
"Roby!!! E' finito il pane, manca la pasta e non c'è più olio: che ci mangiamo oggi? Mouse in umido???? Certo che tu, quando prendi una fittonata, non ti scolli proprio più!!!"

Il lavoro nel cinema: Sesso, bugie e videotape

Solimano
Cynthia (Laura San Giacomo) è l'unica a doversi veramente misurare ogni giorno con problemi di soldi, e fa la barista in un locale un po' di passaggio. Sua sorella Ann (Andie MacDowell) fa la signora un po' triste in una bella casa a cui accudisce con scrupolo, mentre Cynthia vive in un appartamento piccolo che cerca di rendere creativo, ma le sedie si sfondano. Ann ha sposato John (Peter Gallagher), un avvocato in carriera, uno che piace, difatti Cynthia - donna libera - ogni tanto ci va insieme, senza che Ann lo sappia. Cynthia non lo fa per sfregio alla sorella, ma perché è eroticamente vivace. Però è anche controllata, ogni giorno respinge con un sorriso deciso gli approcci dei clienti. Arriva Graham (James Spader), un tipo strano a suo tempo amico di John, e Cynthia, curiosa come una biscia, si racconta in uno dei suoi videotape. Succederà il patatrac, nel bene e nel male: Cynthia taglia di netto con John, capendo che è un mentitore abituale, Ann viene a sapere che John andava con Cynthia, e anche lei si racconta a Graham, John se la prende un po' con tutti, tranne che con se stesso ed ha problemi anche sul lavoro. L'unica dei quattro che mantiene la testa sulle spalle è proprio Cynthia, la sventata: ha l'esperienza di chi per necessità deve andare a bottega tutte le mattine, gli altri no. Ora Ann e Graham si stanno innamorando, bella cosa, ma per trovare casa e lavoro è bene che si rivolgano a Cynthia, una che le cose le sa.


venerdì 29 giugno 2007

Il vento e il leone

The wind and the lion di John Milius (1975) Soggetto e sceneggiatura di John Milius Con Sean Connery, Candice Bergen, Brian Keith, John Huston Fotografia di Billy Williams Musica di Jerry Goldsmith (119 minuti) Rating IMDb: 7.0
Roby
Il manifesto del film mette giustamente spalla a spalla Sean Connery (El Raisuli Il Magnifico) e Candice Bergen (Mrs Eden Pedecaris), rendendo così omaggio alle due colonne su cui poggia tutta la storia, ambientata nel Marocco del 1904. Persino io, di solito accecata dalla sconfinata passione per SEAN, devo riconoscere che la Bergen qui è straordinaria nel tener testa al co-protagonista, sia come attrice che come donna. Ed è superfluo precisare che darei qualche anno di vita per essere al suo posto, a giocare a scacchi con l'affascinante califfo nella penombra della tenda berbera: ma sono sicura che anche il cuore dell'impettita signora americana, alla fine della vicenda, batta più forte -sotto le stecche di balena- per i begli occhi profondi del capo ribelle. Certo, lui non si è comportato bene, sequestrandola con un blitz piuttosto violento nella magnifica villa dove alloggiava con i figli, tra uno stuolo di servitori in livrea. Il suo, però, è uno scopo quasi nobile: ottenere dal governo americano non soltanto armi ed oro, ma anche la condanna del sultano del Marocco, asservito alle mire colonialiste di Francia e Germania. Inoltre, El Raisuli ha sommo rispetto per lo "sceicco" statunitense Teddy Roosevelt (un Brian Keith straordinario). Il loro è un incontro-scontro fra pari, malgrado il macroscopico disequilibrio di forze in campo: sintomatica, in questo senso, la lettera indirizzata al Presidente che El Raisuli detta alla signora Pedecaris, con una fierezza ed una lucidità da far invidia a più di un politico: "Tu sei come il vento, e io come il leone. Io ruggisco, e ti sfido, ma tu non mi senti. Eppure io, come il leone, devo stare al mio posto. Tu, come il vento, sei condannato a vagare ovunque, perché non sai qual è il tuo posto". Nelle mie peregrinazioni su Internet ho trovato notizia della base storica cui il film sarebbe ispirato (il rapimento di un cittadino americano, Ion H. Perdicaris, da parte del brigante marocchino Raizuli, nel maggio 1904): il che tuttavia non pregiudica minimamente -ai miei occhi ed al mio cuore- il fascino, il mistero, l'esotica attrazione di una storia ben congegnata, ben diretta e recitata ancor meglio.

La musica al cinema: Modest Mussorgsky

Mussorgsky da soldato
Solimano
Modest Mussorgky ha nei film una modesta ma sicura rendita di posizione. In anni lontani compariva poco, danneggiato - o favorito? - dal non avere il pezzo-tormentone, cioè quel brano in partenza bellissimo che però ti ritrovi decine e decine di volte nei film o nella pubblicità finché ne sei propriamente stufo e rischi di non apprezzare più. Mussorgsky è partito tardi: col Mago di Oz (1939) e con Fantasia (1940) in entrambi i casi in ottima compagnia, perché di musicisti in quei film ce n'erano tanti. Di suo c'è "Una notte sul monte Calvo", e ci sarà anche ne La febbre del sabato sera e in Natural Born Killer di Oliver Stone, che pareggia i conti mettendo i "Quadri di una esposizione" in un film più recente, Any Given Sunday, però l'anno prima (1998) ci avevano già pensato i fratelli Coen, col Grande Lebowsky. Mussorgsky è un esempio di quanto fosse arretrato negli anni '30 il gusto del mondo del cinema riguardo la cosiddetta musica classica , ma la situazione - salvo eccezioni - è proseguita fin quasi agli anni '70. Dopo, c'è stato un graduale liberi tutti: la grande musica della seconda metà dell'Ottocento e un po' anche del Novecento cominciò ad entrate in orecchie che non se lo sarebbero mai aspettato. Così Mussorgsky, pian piano, è arrivato a circa venti presenze, che non sono poi pochissime, l'ha utilizzato anche Woody Allen, ma qui metto la Julianne Moore del Grande Lebowsky. Ho escluso una decina di film musicali tratti dal Boris (qualcuno dalla Kovancina), magari buoni, perché voglio mettere solo la musica a cui si aprono porte di per sé non sue, e così farò negli altri casi.

L'uomo che volle farsi re

The Man Who Would Be King di John Huston (1975) Dal romanzo di Rudyard Kipling, Sceneggiatura di Gladys Hill, John Huston Con Sean Connery, Michael Caine, Chistopher Plummer, Saeed Jaffrey, Albert Moses Musica: Maurice Jarre Fotografia: Oswald Morris (129 minuti) Rating IMDb: 8.0
Giuliano
C’è qualcosa di straordinario in questo film, ed è l’incontro di due dei narratori più grandi della storia: Rudyard Kipling e John Huston. Ci sono stati scrittori più grandi di Kipling, e registi più piacevoli di Huston, ma la questione del saper narrare è unica. Non si diventa narratori, ci si nasce: alcuni di noi raccontano storie e gli altri li stanno ad ascoltare, magari a bocca aperta, anche se la storia non è delle più avvincenti. Ma, se il narratore non è all’altezza, anche la più bella delle storie diventerà noiosa.
Qui si racconta la storia di Alessandro Magno, che giunse fino in Kashmir e in Afghanistan: la si racconta attraverso le gesta di due soldati dell’esercito coloniale inglese, due cialtroni dotati di abbastanza coraggio e incoscienza da gettarsi nell’impresa di recuperare un tesoro di cui soltanto si favoleggia, fra tribù selvagge e valli inesplorate. Una storia che si poteva immaginare solo nell’Ottocento: oggi ci sono ancora le tribù selvagge nell’Afghanistan, ma hanno il kalashnikov e non guardano più in faccia a nessuno.
Una scommessa che riesce, e alla grande, per merito di Kipling e di Huston ma anche dei due protagonisti, l’inglese Michael Caine e lo scozzese Sean Connery. Due degli attori più fascinosi della storia del cinema, ed è guardando questo film – più che i vari James Bond – che si capisce come mai Connery sia ancora oggi, a 70 anni compiuti e passati, uno degli uomini che più piacciono alle donne di tutto il mondo e di tutte le età.

Il lavoro nel cinema: La fornaia di Monceau

Solimano
Jacqueline (Claudine Soubrier) fa la fornaia - o meglio, la commessa - a Parigi, in via Lebuteux vicino al Parco Monceau. E' di famiglia modesta, graziosa più che bella, non alta di statura ed ha 18 anni, che non sono poi tanti, visto che siamo nel 1963. Non si trova bene sul lavoro: la padrona non è cordiale ed è peggio quando non le dice niente che quando la rimprovera. I clienti vanno e vengono, ma Jacqueline si sente abbastanza sola e meno male che alla sera ogni tanto ha una sua compagnia - ragazze e ragazzi - con cui andare al cinema o a mangiare una pizza. Forse l'assumeranno ai Magazzini Lafayette, e ne sarebbe molto contenta: avrebbe colleghe e colleghi giovani e le ore di lavoro trascorrerebbero più rapidamente. Qui a Monceau i clienti si somigliano tutti, salvo un giovane alto (Barbet Schroeder) vestito bene, giacca e cravatta, chiaramente uno studente, che capita ogni giorno, sempre con un'aria un po' assorta. Prende una pasta - un sublis in genere - a volte anche due. E' di poche parole, ma gentile. Jacqueline lo vede ripetere lo stesso gesto: lasciar cadere il tovagliolo di carta nell'acqua corrente fra marciapiedi e strada dopo aver finito il sublis. Negli ultimi giorni però il giovane ho cominciato a guardarla negli occhi e quando non c'è la padrona una cosa o due gliele dice, sta cominciando a farle la corte in un suo modo scarno, non invadente ma deciso, e questo le piace. Finché un giorno lo incontra per strada vicino alla bottega e si mettono a parlare sotto un voltone. Lui le chiede di uscire insieme quella sera e di trovarsi alle otto al caffè in fondo alla strada. Jacqueline esita, ma è tentata. Lui, sempre deciso - le ha anche sfiorato la guancia ed una spalla - non insiste, dice che nel pomeriggio verrà in bottega e chiederà una pasta, se Jacqueline gliene darà due vorrà dire che ha accettato l'appuntamento e che alle otto si troveranno al caffé. Glielo fa anche ripetere, per vedere se ha capito bene, ma Jacqueline è sveglia, ha capito subito. Nel pomeriggio, invece di dargli una pasta gliene darà due, solo che la sera al caffé Jacqueline lo aspetterà inutilmente. Seccata, si prepara a dirgliene quattro in bottega il giorno dopo, ma il giovane non comparirà più. Per fortuna i Magazzini Lafayette le hanno fatto sapere che è assunta, e il dispiacere passerà abbastanza presto. Che strano però, non l'avrebbe mai detto, sembrava tutto tranne che un maleducato del genere. Che gli avrà preso?
Claudine Soubrier non ha avuto una lunga carriera cinematografica, ha fatto solo questo film che dura 23 minuti, ma la sua Fornaia di Monceau è presente in tutte le antologie del cinema. Spero che al Lafayette si sia trovata bene.

giovedì 28 giugno 2007

Fahrenheit 451

Fahrenheit 451, di François Truffaut (1966), Tratto dal romanzo di Ray Bradbury Sceneggiatura di Jean Louis Richard Con Julie Christie, Oskar Werner, Cyril Cusak Fotografia di Nicolas Roeg Musiche di Bernard Herrmann ( 112 minuti) Rating IMDb 7,1
Roby
Ricordo bene anch'io, come Giuliano, il primo passaggio di questo film in tv. Credo, anzi, di non averlo più rivisto da allora: e -a pensarci bene- non sono in grado di riferire la trama esatta, nè di elencare i nomi degli interpreti senza l'aiuto di un motore di ricerca. Per questo, credo di essere la persona meno adatta di questo blog per parlarne nella maniera più esauriente. Ma Giuliano, nel suo post su L'uomo che visse nel futuro ha citato gli uomini-libro di Fahrenheit 451, aprendo di scatto uno dei cassetti più polverosi e più riposti della mia banca-dati cerebrale... perciò è tutta colpa sua se adesso state leggendo queste righe, frettolosamente scritte da una spettatrice impreparata. Il fatto è che la figura dei ribelli al sistema che imparano a memoria ognuno un libro diverso, perchè non se ne perda il ricordo, mi colpì talmente, da ragazzina, da farmi rimuginare per settimane. Un libro intero -pensavo- da imparare come una poesia di Carducci... come il 5 maggio di Manzoni... come una canzone... Pagine e pagine da ripetere ossessivamente, fino ad assimilarle, facendole proprie, sapendo che gli altri contano su di te per salvaguardare quel bene prezioso, destinato altrimenti a dissolversi nel nulla dell'appiattimento, nel fuoco fatuo della non-cultura... Se fosse toccato a me, quale libro avrei scelto io per quel sovrumano sforzo mnemonico? Un romanzo breve -come Il fantasma di Canterville di Oscar Wilde- per essere sicura di farcela? O qualcosa di più impegnativo, come Oliver Twist di Dickens, che mamma e papà mi avevano regalato a Natale, ritenendola -forse ingannati dalla musicalità del titolo- una storia spensierata? E poi, c'erano i grandi classici, come i Promessi Sposi e l'Odissea, di cui avevo visto la trasposizione televisiva in sceneggiati (non si parlava di fiction, allora!) : oddio -pensavo, fra l'atterrito e il perplesso- come si può mandare a mente una massa letteraria così gigantesca e compatta??? L'impresa era quasi disperata. Eppure, concludevo ogni volta le mie elucubrazioni con la certezza che, se quel libro fosse stato "condannato a morte" dall'ottusità del potere, io avrei provato davvero a "salvarlo", sorretta dall'ingenuo entusiasmo di un'adolescenza che annoverava tra i più fedeli compagni di avventura Tom Sawyer, Giamburrasca, la Jo March di Piccole donne e il Buck del Richiamo della foresta. I cui nomi, tra parentesi, sono ancora tutti nella mia rubrica più preziosa, quella a cui ricorro nei momenti in cui ho bisogno di amici veri.
NB: una photo-gallery del film è su IMDb

Leonardo e Tarkovskij

Leonardo (attr.) Ginevra de' Benci 1474-76 Washington, Nat. Gallery of Art
Giuliano
Nei film di Tarkovskij ci sono tre costanti: Johann Sebastian Bach, Leonardo, e l’icona della Trinità di Andrej Rubliov.
E’ una vera e propria firma, un po’ come le brevi apparizioni di Hitchcock nei suoi film. Capita spesso di vedere un bambino che prende in mano un libro con riproduzioni d’arte, per esempio: in “L’infanzia di Ivan” il regista russo riesce nell’impresa di mettere in mano un libro d’arte, molto grande e molto bello, a un bambino in tempo di guerra, tra i soldati, e per di più a ridosso della prima linea; e “Andrej Rubliov” è tutto dedicato al maggior pittore di icone della storia russa – e viene da chiedersi come sia stato possibile girare e far uscire un film simile in Unione Sovietica, nel 1965...
Ma è in “Lo specchio” che Tarkovskij si abbandona in pieno alla sua vocazione pittorica. E’ Leonardo a far da guida, più o meno sotterranea, per tutto il film; e a un certo punto la vena sotterranea viene resa esplicita, e il volto della madre di Tarkovskij, interpretata dall’attrice Margareta Terechova, si fonde con un volto leonardesco, il ritratto di Ginevra de’ Benci ( il mio libro, pignolo, specifica: “attribuito a Leonardo”).
In “L’infanzia di Ivan” era invece un’incisione di Dürer, “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, la pagina su cui si soffermava il ragazzo protagonista. Un’immagine dura, spigolosa, terrificante: l’immagine della guerra. E prima c’era stata una sequenza (un vero “fermo immagine”, una sottolineatura per chi non vuol capire) dove in quel che restava di una casa bombardata, su un muro, si intravvede un’icona dipinta; e il primo piano del Capitano è posto tra l’icona (subito dietro, alla nostra destra) e una croce di ferro (davanti, alla nostra destra).
Non si possono contare le apparizioni leonardesche, nel cinema di Tarkovskij: sono troppe, nei paesaggi e nei volti. Posso però portare qui uno dei dialoghi più misteriosi di Tarkovskij, che si svolge sull’isola di Faro, (la casa di Ingmar Bergman), all’inizio del suo ultimo film, “Sacrificatio”:
Otto: (indica la parete) : Cos’è quello?
Alexander: Che cosa?
Otto: Quelle figure, là sul muro: che cosa sono? Non riesco a distinguerle, c’è sopra quel vetro e sono terribilmente scure...
Alexander.: E’ l’Adorazione dei Magi, di Leonardo. Una riproduzione, si capisce.
Otto: Lo trovo terribilmente sinistro.... ho sempre provato un gran terrore davanti a Leonardo.
“Preferisco Piero della Francesca”, dirà più tardi Otto. Ma l’Adorazione dei Magi, cioè l’Epifania, la befana, rimanda al rapporto con le religioni prima di Cristo. I Magi, che provengono dalla Persia, sono zoroastriani, orientali: e rendono omaggio al Bambino appena nato. E anche Piero della Francesca sa essere terribile e ultraterreno, come Leonardo e anche di più. E’ questo forse il vero tema, più o meno nascosto, di Tarkovskij: il soprannaturale (soprattutto nella figura di Cristo) e il nostro rapporto con le religioni precedenti al cristianesimo, che il regista russo sente particolarmente – forse proprio in quanto russo.

Andrei Rubliov: Trinità c.1411 Mosca, Galleria Tretyakov

Un cuore in inverno

Un coeur en hiver di Claude Sautet (1992) Dal racconto "La principessina Mary" di Michail Lermontov, Sceneggiatura di Claude Sautet, Jacques Fieschi, Jérome Tonnerre Con Daniel Auteil, Emmanuelle Béart, André Dussolier, Elisabeth Bourgine, Brigitte Catillon, Myriam Boyer Musica: Maurice Ravel (Trio per pianoforte ed archi) Fotografia: Yves Angelo (105 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
Lermontov è lo spunto a cui il film conserva una strana fedeltà, ma sono passati 170 anni, e la tragedia di Lermontov si muta in elegia.
Stéphane (Daniel Auteil) vive monacalmente con l'apprendista, che ad una certa ora se ne va a morosa. Stéphane dorme vicino al laboratorio. E' il più bravo di tutti. Maxime (André Dussolier) è più uomo d'affari che liutaio, procura i clienti, ma è Stéphane che fa veramente le cose.
Il mondo di Stéphane è fatto dal laboratorio, dalla famiglia, dalle persone con cui è cresciuto - in mezzo alla foresta. Sarà lui a praticare l'eutanasia al vecchio maestro.
Ed il film è l'eutanasia di un amore. La libraia spera in Stéphane, ma quando si accorge di come è lui, fa un matrimonio di convenienza. Maxime è più semplice, più apparentemente pulito. Per lui Camille (Emmanuelle Béart) - con cui è dolce e gentile - è la realtà del suo successo. Non conoscerà mai il grande amore. Potrà, sì, prendere a schiaffi Stéphane, non gli verrà mai di abbracciarlo.

Il grande amore, non finito come per certi Tiziano, è quello fra Stéphane e Camille. La sublimità, l'orgasmo totale è quando Stéphane va a vedere Camille mentre incide e poi insieme vanno al bar. Piove a dirotto, lui si leva la giacca per coprirla e rimane completamente bagnato. Non se ne accorgono, come è giusto non accorgersene, ma quello è il momento dell'accensione panica, dell'invasione del dio.
E poi... l'ultimo sguardo di Camille a Stéphane, mentre parte la macchina guidata da Maxime.
In quello sguardo c'è compassione, dedizione, disperazione, orgoglio di saper provare tutto questo.
E comprensione per la sofferenza di lui, sola superiore alla sua.

L'uomo che visse nel futuro

The Time Machine di George Pal (1960) Dal romanzo di H.G. Wells, Sceneggiatura di David Duncan Con Rod Taylor, Alan Young, Yvette Mimieux, Sebastian Cabot, Tom Helmore, Whit Bissell Musica: Russell Garcia Fotografia: Paul Vogel (103 minuti) Rating IMDb: 7.5
Giuliano
La mattina dopo la prima trasmissione in tv di "Fahrenheit 451", il film di Truffaut tratto dal romanzo di Ray Bradbury, un mio compagno di classe (non dei peggiori) lo commentava così, parlandone con gli altri:- Oh, hai visto che roba? Bruciavano tutti i libri! Che bello... magari fosse vero!
Io facevo le medie, e me lo ricordo ancora. Come battuta poteva anche starci, soprattutto a scuola; ma a me non era piaciuta per niente. A me piaceva leggere, e l'immagine dei libri bruciati mi aveva angosciato. Più che altro, di quel film mi aveva colpito molto l'idea degli "uomini-libro", cioè delle persone (messe ai margini della società e considerate pericolose, nel romanzo di Bradbury e nel film) che prendevano come missione della propria vita l'imparare a memoria un libro, anche lungo come "Guerra e Pace". Io non ne sarei mai stato capace, pensavo; e di questo mi sarebbe piaciuto parlare, la mattina dopo. Invece mi toccò di stare zitto, e forse anche far finta di essermi divertito alla battuta.
Nella mia memoria, le immagini di quel film - dove è vietato possedere libri, e averne in casa è grave delitto - fanno il paio con un altro caro film della mia infanzia che ( una volta ) era famoso.Il film è "L'uomo che visse nel futuro" di George Pal, tratto da "La macchina del tempo" di H.G.Wells. Il protagonista, proiettato in un futuro molto lontano, trova un mondo dove l'umanità è divisa in due: in superficie vive una popolazione di giovani molto belli e gentili, ma anche un po' idioti; sottoterra ci sono i terribili Morlock, che fanno un uso poco raccontabile degli umani di superficie. Il protagonista, viaggiatore nel tempo, non ci si raccapezza e chiede ad una ragazza "di sopra" se ci sono dei libri che gli possano raccontare la storia. "Libri?" chiede la ragazza un po' stupita "Ah, sì, mi pare che ce ne siano, di là". E, infatti, di là i libri ci sono: ma sono così vecchi e abbandonati che, appena il protagonista ne prende in mano uno, il libro si sbriciola; e la stessa fine tocca a tutti gli altri, ormai inservibili.Queste due sequenze molto forti, quella del rogo dei libri e quella dei libri che si sbriciolano perché inutili, mi tornano spesso alla mente. Non è una mia ossessione personale, di quelle da appassionato, o almeno lo credo: forse la mia unica colpa è quella di accendere la tv e di guardarla. Una volta, quando facevo le medie e soprattutto prima, in tv ci andavano solo esperti e professori, e forse si esagerava; oggi siamo caduti nell'eccesso opposto. Oggi, radio e tv sembrano la saga del deficiente; i videogames la fanno da padroni e non sono sempre raccomandabili; e forse già i Morlock stanno cominciando a scavare le loro tane sotto di noi, e ci guardano con un certo appetito. Speriamo che qualcosa cambi, ma molto dipenderà da noi (noi che viviamo oggi) e non sono sicuro che le nostre mani siano le migliori...

mercoledì 27 giugno 2007

Il mestiere delle armi

Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi (2001) Con Christo Jivkov, Delislava Tenekedjeva, Sandra Ceccarelli, Sasa Vulicevic, Sergio Grammatico, Dimitar Ratchov, Aldo Toscano, Fabio Giubbani Musica: Fabio Vacchi Fotografia: Fabio Olmi (100 minuti) Rating IMDb: 7.0
Solimano
L'Orlando Furioso fu scritto non molti anni prima del fatale 1526 in cui Joanni de' Medici perse la vita per un colpo di falconetto, un'arma da fuoco che era stata fabbricata proprio a Ferrara.
Nel Canto nono del Furioso, Orlando sconfigge ed uccide Cimosco, benché questi fosse dotato di un'arma da fuoco. A cose fatte, così procede il Paladino:
...
Non volse porre ad altra cosa mano,
fra tante e tante guadagnate spoglie,
se non a quel tormento che abbiàn detto
che al fulmine assimiglia in ogni effetto.

L'intenzion non già, perché lo tolle,
fu per voglia d'usarlo in sua difesa;
che sempre atto stimò d'animo molle
gir con vantaggio in qualsivoglia impresa:
ma per gittarlo in parte, onde non volle
che mai potesse ad uom più fare offesa:
e la polve e le palle e tutto il resto
seco portò, che apparteneva a questo.

E così, poi che fuor de la marea
nel più profondo mar si vide uscito,
sì che segno lontan non si vedea
del destro più né del sinistro lito;
lo tolse, e disse: - Acciò più non istea
mai cavallier per te d'esser ardito,
né quanto il buono val, mai più si vanti
il rio per te valer, qui giù rimanti.

O maladetto, o abominoso ordigno,
che fabricato nel tartareo fondo
fosti per man di Belzebù maligno
che ruinar per te disegnò il mondo,
all'inferno, onde uscisti, ti rasigno.
-Così dicendo, lo gittò in profondo.
Il vento intanto le gonfiate vele
spinge alla via de l'isola crudele.
(Orlando Furioso, Canto IX 88-91)

C'è stato un recensore - poveretto - che ha tacciato Ermanno Olmi di arrogante per aver fatto - e in quel modo - Il mestiere delle armi. Ma seguiamolo pure, l'incauto, che trasuda invidia e fastidio, giustificatissimi, visto che in Italia una serietà così coerente si è vista di rado, anche nei più grandi registi. Il fastidio parte dal titolo, che è fiero, non riduttivo: per secoli e secoli è stato un gran mestiere, che fecero Eschilo, Sofocle, Cervantes, Ignazio de Loyola e tanti altri fino ad arrivare ai più recenti Choderlos de Laclos, Lermontov, Tolstoij e poi ancora Slataper, Saint-Exupery (sì, proprio quello de Le Petit Prince!), Charles de Foucault (sì, quello dei Piccoli Fratelli!). Il figlio maggiore riceveva la proprietà, fra i minori, quello sveglio faceva il soldato, quello smorto il prete. Poi c'erano i figli naturali, che chiamavano tranquillamente bastardi: Giovanni d'Austria, Bastardo di Carlo V, che comandò a Lepanto e, in Shakespeare, il Bastardo Faulconbridge, grandioso personaggio del Re Giovanni, una storia inglese poco letta.
Quando l'Ariosto scrive così, esprime il dramma di chi aveva fatto del coraggio e del valore personale un sistema di vita, e che si trovava esposto alla palla di un archibugio o di un falconetto inviata da un signor nessuno, non come titoli, ma come virtù. Drammatica, in Guerra e Pace, la pagina in cui il reparto del principe Andrea è fermo fuori dal campo di battaglia. Sono tutti a cavallo, e ogni tanto arriva un proietto e qualcuno stramazza. In Barry Lyndon di Kubrick, i soldati vestiti di rosso sgargiante avanzano affiancati, scavalcando i corpi dei compagni colpiti e stando stretti l'uno all'altro per reggere la paura, compresi i tamburini.
Olmi parte anche di qui, e sceglie come suo eroe un violento naturale come Joanni de Medici (aveva dodici anni quando uccise per la prima volta) che percorse, ben guidato, un suo itinerario di conversione della violenza in forza - la forza serve nella vita anche oggi, e servirà domani. Il suo personaggio assume così una dignità analoga a quella che avrebbe assunto da frate (Joanni lo dice nel film), ma il coraggio personale, l'autorità autorevole che ha con i suoi sono esposte al falconetto che, mentre lui guerreggia abilmente, stanno costruendo a Ferrara e poi trasporteranno sul Po: gli Estensi e i Gonzaga hanno scelto di dare una mano al Frunsberg, sostenendo solo di facciata le ragioni del Papa. Joanni vive con pienezza la sua vita - breve - in cui c'è posto anche per la moglie e per l'amante mantovana. Il mondo non l'ha fatto lui, si è trovato ad essere scelto, più che scegliere. Nulla di agiografico in Olmi, anche se il suo Joanni somiglia al Cristo di Pasolini e si chiama Christo Jivkov. Molto rispetto ammirato invece, per uno che fino all'ultimo giorno (sono lunghi, i cinque giorni di agonia!) sta attaccato al coraggio del suo mestiere di vivere e di morire. Nell'Arena di Villa Ghirlanda, affollata in quella sera estiva, c'era un silenzio affaticato - è un film impegnativo - ma anche il più incolto, il più ragazzaccio, il più TV dipendente avvertiva la grandezza di quel film, ancora di più la grandezza di chi aveva avuto il coraggio di fare un film così, con le musiche contemporanee di Fabio Vacchi e le parole antiche delle lettere del Cinquecento. Arroganza? Forse sì, avercene di arroganti come Ermanno Olmi. Staremmo meglio tutti.

Exotica

Exotica di Atom Egoyan (1994) Con David Hemblen, Mia Kirshner, Calvin Green, Elias Koteas, Bruce Greenwood, Arsinée Khanjian, Sarah Polley, Victor Graber Musica: Mychael Danna, Leonard Cohen, Franz Schubert, Sergei Prokofiev Fotografia: Paul Sarossy (103 minuti) Rating IMDb: 7.0
Giuliano
“Exotica” di Atom Egoyan è la storia di un uomo a cui è stata uccisa la figlia adolescente, e che è stato incolpato e incarcerato ingiustamente per quel delitto, prima che la polizia trovasse il colpevole. “Exotica” è anche il nome del locale dove si svolge il film: un locale di lap dance decisamente ambiguo, dove si esibiscono ragazze molto giovani al suono di Everybody knows, di Leonard Cohen (“tutti quanti lo sanno”...).
Egoyan è un autore canadese, di origine armena; e “Atom” è proprio il suo nome di battesimo, scelto da genitori particolarmente inventivi. E’ autore di film belli e strani, decisamente fuori dal comune, che hanno avuto una circolazione molto limitata; ma forse qualcuno si ricorderà di un thriller come “Il viaggio di Felicia”, con Bob Hoskins (1999), o “Il dolce domani”, la tragica storia del pullmann che dal burrone e dell’avvocato che cerca di trarre guadagno dal dolore delle vittime (1997, con Ian Holm).
A volte è difficile capire cosa passa per la testa di Egoyan quando scrive i suoi film, e di certo le sue storie hanno confini molto ambigui, soprattutto visivamente. Egoyan, ricercatore di ambienti e di atmosfere (forse di aure) passa con disinvoltura dalle chiese armene di “Calendar” (1992) a un locale di lap dance, e ingarbuglia un po' troppo le storie dei protagonisti: ma è un artista da seguire con attenzione, anche se qua e là fa un po' il furbo. Il rapporto del protagonista, che è un uomo giovane, con la giovanissima "ballerina" del locale, e l'incontro-abbraccio finale con l'uomo che ritrovò il corpo della ragazza uccisa, sono di grande impatto emotivo. Ma per capire cosa succede veramente bisogna vedere il film fino alla fine, e non è che si possa chiedere a tutti la pazienza che ho avuto io, perché per tre quarti d’ora il filo del racconto sembra andare in tutt’altra direzione. Affronto questo discorso perché uno spettatore normale può ben alzarsi e andare via, se il film non gli piace (a me è piaciuto moltissimo, perché l’ho visto tutto), ma il critico che ne riferisce ed è pagato per farlo avrebbe l’obbligo di guardare tutto e di informarsi – perché poi deve spiegarlo a noi. Perciò mi stupisce che la critica ufficiale liquidi Exotica come "adatto per chi dice di comperare playboy per leggere gli articoli e le interviste". (M. Persivale, corriere della sera, 1997). Se il critico avesse visto almeno l'ultimo quarto d'ora del film non parlerebbe così, ed è questo il dubbio atroce che mi assale quando leggo molte critiche, sia di libri che di dischi che di film: ma il critico ha visto tutto il film o se ne è andato dopo dieci minuti perché aveva di meglio da fare?

Ennio Flaiano al cinema

Solimano
Il 27 gennaio 1940 usciva su Cine Illustrato una recensione di Ennio Flaiano su Ombre rosse; l'ho trovata sul sito Mymovies e qui di seguito la riporto. E' una recensione a caldo, e si sente:

"Nel cinema americano la tradizione del western non accenna a spegnersi: anzi non perde occasione per affermarsi sempre viva e brillante. Con gli ultimi tempi, quella attenzione – diciamo affettuosa e primitiva – verso i ricordi della storia nazionale, che si trovava in tutti i film a carattere avventuroso, si è nobilitata da un gusto nuovo, che scava in profondità.
Pur rispettando la buona retorica dell’aria aperta, si sono aggiunte ai film recenti, delle intenzioni più sostanziose. Chiamiamole pure letterarie se non c’è altro affettivo che indichi quel contributo di sale dato alle storie e se così vanno indicate le prospettive profonde che queste acquistano, prospettive che una volta non toccavano un tal genere di cinematografo e entravano soltanto nel giuoco dei romanzieri.
Romanzo, senza dubbio, con tutti i suoi caratteri di ricerca psicologica e letteraria, può dirsi Ombre rosse, il nuovo film di John Ford. Eccoci davanti a un film in cui l’ombra di de Maupassant si sposa a quella di un Murnau (per parlare di trapassati) o, meglio, a un film in cui allo stile di uno Stephen Roberts si aggiunte quello di un Vidor. Sposalizio felice, diciamolo subito: tanto felice che vien voglia di togliersi il cappello.Naturalmente per Ombre rosse si è ricordato I cavalieri del Texas, Buffalo Bill eccetera: forse col desiderio di fissare il film nei limiti dell’evocativo avventuroso. Per conto nostro i nomi da fare sono ben più grossi. Si può cominciare con il narratore francese già citato, de Maupassant, del quale «rivediamo» in Ombre rosse la più tipica delle figure. Boule de suif la donna di facili costumi, che è disprezzata dai compagni di viaggio e che salva poi tutti col suo sacrificio; e si potrebbe finire col citare Anderson (quello di Solitudine) e persino Wilder, se si tien conto che in Ombre rosse la ricerca più sentita dal regista è quella che si svolge intorno alle sei persone che viaggiano nella carrozza di posta. Una ricerca che indaga nel loro passato, nei «fatti umani».
Su una diligenza che fa servizio tra due località del West americano s’imbarcano: 1) la moglie di un ufficiale dell’esercito; 2) una donna che la lega della morale dichiara «indesiderabile»; 3) un dottore ubriacone, scacciato dalla padrona di casa; 4) un commesso viaggiatore in liquori (che subito diventa docile vittima del n. 2); 5) un gentiluomo rovinato dal giuoco.
Durante il viaggio saliranno anche un cassiere che fugge con la cassa e un giovane evaso dal carcere, che si arrende alla scorta armata della diligenza.
La corriera inizia il suo viaggio nel deserto, in un’atmosfera di pericolo imminente, poiché una tribù di indiani si è ribellata.
La prima parte del viaggio è dedicata alla conoscenza di questi personaggi, li vediamo come sono, alcuni impariamo ad amarli, altri a tenerli in sospetto. Un tenero amore, frattanto, s’intreccia tra la donna «indesiderabile» e il giovane evaso. Ma costui ha un dovere da compiere: vendicarsi degli assassini di suo padre, gli stessi che con una falsa testimonianza l’hanno fatto mettere in prigione.
Questo giovane dagli occhi azzurri, dalla bocca chiusa e secca, alto e lento, vi piacerà subito: c’è qualcosa di indefinito nella sua persona, che sembra spinta da un piccolo destino da tragedia verso la sua avventura.
Ma intanto le cose di complicano. La moglie dell’ufficiale mette alla luce una bambina, curata proprio da quel dottore sulla cui abilità nessuno avrebbe puntato un soldo: e notizie sempre più gravi giungono ai viaggiatori circa l’attività degli indiani.
La situazione precipita con l’inseguimento della carrozza da parte di questi ribelli. È l’andante mosso del film, una travolgente cavalcata che si chiude con la vittoria dei nostri.Come se nulla fosse successo, il film, dopo questa precipitosa parentesi (che in altri tempi avrebbe segnato la fine dell’avventura) riprende il suo racconto. I viaggiatori vanno ancora osservati. Uno soltanto è morto, il gentiluomo rovinato, quello che era salito in carrozza per un atto di galante donchisciottismo, per difendere in caso d’attacco degli indiani la moglie dell’ufficiale. Gli altri avranno ognuno la sua sorte.Coraggiosa conclusione questa di John Ford. Il giovane evaso, ammazzerà i tre avversari, la donna di facili costumi si sposerà (è facile immaginare con chi), il bravo dottore seguiterà a ubriacarsi. Finalmente un lieto fine che non delude. Se il giovane avesse rinunciato ad ammazzare i suoi rivali o se il dottore avesse deciso di esser sobrio in avvenire il pubblico dal canto suo avrebbe staccato le poltrone in segno di protesta.
Per la prima volta in un film americano non si lasciano a Dio le cure della vendetta morale. Ognuno fa quel che può, se la cava come gli detta il cuore. Ed è questa «intonazione» la più giusta, la più apprezzabile del film.Non ci stancheremmo di parlar bene di queste Ombre rosse, anche perché arrivano dopo tante ombre pallide ed evanescenti, ombre di filmetti, di commediole, di rifriggiture. È un film di quelli che si rivedono; John Ford è il regista di Il traditore e di La pattuglia perduta, due film precisi e allucinanti. Ma è anche il regista di un vecchio westem, Il cavallo d’acciaio. Chi ricorda questo «colosso» del ’24, in cui per la prima volta appariva George O’ Brien? Lo spettatore non più giovane confronti i due film, osservi come il nuovo è una perfezione dell’antico, come certe audacie di quello si sono conservate e accresciute nel frattempo.
Una parola sulla fotografia che è perfetta, tenuta secondo il costume di Ford a contrasti di luce e ombre e sempre campeggiante su passaggi straordinari, lunari. Il fotografo è Bert Glennon; il montaggio di Walter Reynolds. È il soggetto di Ernest Haycox.
Parlerò degli attori? Ce ne sarà bisogno? Sono John Wayne (l’evaso), Claire Trevor (la mondana), John Carradine, Louise Platt. E, nuova conoscenza, Thomas Mitchell, il buon dottore ubriacone, un personaggio i cui cari sorrisi e l’aria affettuosa non si dimenticano subito".

martedì 26 giugno 2007

Wutki al cinema

Giuliano
- Lo schema in questa pagina nasconde i nomi di almeno 65 registi di cinema per ognuno dei quali fornisco il titolo di un film:
La villeggiatura - La battaglia di Algeri - Il mostro di Dusseldorf - Il clan dei Barker - La torta in cielo - Piccoli omicidi - Brutti sporchi e cattivi - M.A.S.H. - Novecento - Uomini in guerra - Mr.Klein – Quarto potere - Il corvo - Salomé - Antonio das Mortes - Tempi moderni - La terra promessa - Cordura - Bronte: cronaca di un massacro - Mattatoio numero 5 - Viridiana - Treni strettamente sorvegliati - Decameron - Missouri - Salvatore Giuliano - Cronache di poveri amanti - I soliti ignoti - Westfront 1918 - Banditi a Orgosolo - Ombre rosse - Fahreneit 451 - Provaci ancora Sam - Casanova - Frankenstein junior - Fantozzi - Professione reporter - L'inverno ti farà tornare - Pianeta Venere - Sulle vie di Damasco - Ladri di biciclette - Terza liceo - Todo modo – La cerimonia - La ragazza con la valigia - Corpo d'amore - L'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale - Un cappello di paglia di Firenze - Il delitto perfetto - Operazione Cicero - Il trono di sangue - Divorzio all'italiana - Mouchette - Roma città aperta - Hombre - Un giorno da leoni - Una finestra sul lunapark - Dies Irae - Zero in condotta - Fino all'ultimo respiro - Quel pomeriggio d'un giorno da cani - La dea - Diario di una schizofrenica - I migliori anni della nostra vita - Il compromesso - Monsieur Taxi.
Roberto Gerbi, Asti
- Caro Gerbi, che cosa si fa ad Asti nelle lunghe, fredde notti d'inverno?
(Wutki – da “Linus” aprile 1977)

Wutki restò per molti anni una sigla misteriosa, misteriosa e piacevole. Il magico Wutki, autore di una delle più belle rubriche nella storia del giornalismo italiano, si chiamava Sergio Morando ed era un dirigente della Bompiani. Wutki non c’è più da tanti anni, e ci manca molto. Si è occupato di letteratura, di limericks, di giochi, di giochi di parole, dei tre giovani principi di Serendip, e di tante cose strane e divertenti che altrimenti non avremmo mai conosciuto: pochissimo di cinema, purtroppo – forse perché la carta stampata si prestava male a giochini sul cinema. Ma il piacere di tornare a dire il suo nome è troppo grande, gli rendiamo omaggio meglio che possiamo, e buon divertimento per chi vuole risolvere il gioco. (Un pensiero anche al lettore Roberto Gerbi, se qualcuno lo conosce ce lo saluti e lo ringrazi di cuore)

Il lavoro nel cinema: Ma nuit chez Maud

Solimano
Jean-Louis (Jean-Louis Trintignant) è ingegnere, ed ha passato diversi anni per lavoro nel Sudamerica. Ora è tornato nella sua città, Clermont-Ferrand, perché ha trovato un lavoro che lo soddisfa alla Michelin. Jean-Louis è convintamente cattolico, va a messa nella cattedrale, ed ha notato una giovane bionda - imparerà poi che si chiama Françoise (Marie-Christine Barrault) - che gli piace per l'aspetto ed il modo. Non l'ha ancora conosciuta ma sa che prima o poi accadrà (Jean-Louis sa pianificarsi), anche se la cosa è resa difficile dal fatto che Marie-Christine gira per la città in ciclomotore e quindi è difficile accostarla per camminare insieme. Durante la messa, Jean-Louis alza ogni tanto gli occhi dal messale per guardarla e sa che anche lei l'ha notato. Una sera incontra Vidal (Antoine Vitez), un vecchio amico che lavora all'università e viene invitato ad andare a cena con lui da Maud (Françoise Fabian), una amica di Vidal che ha da poco divorziato da un medico. Maud è molto bella e molto libera, e durante la cena segue con interesse un po' ironico la discussione fra Jean-Louis e Vidal, che è un intellettuale marxista molto à la page. Jean-Louis sta sulla palla delle sue convinzioni e del suo lavoro, parlando molto meno di Vidal, che cerca di sfotterlo riguardo alla fedeltà nel rapporto amoroso: Jean-Louis risponde imperturbabile con scarna sodezza ingegneresca, interessando Maud, non abituata ad una serietà del genere. Vidal se ne andrà, e Jean-Louis e Maud passeranno la notte insieme -complice una improvvisa nevicata - nel senso che Maud dormirà nel suo letto e Jean-Louis (a cui Maud piace molto) dormirà su un divano nella stessa camera. Poi il film andrà avanti, e lo racconterò un'altra volta, qui dico solo che Jean-Louis conoscerà finalmente Françoise e tutto si svolgerà nel modo che lui aveva pensato, anzi progettato durante le messe a cui assistevano senza ancora conoscersi. La serietà non bigotta ma realizzatrice dell'ingegnere Jean-Louis è ammirevole per tutto il film, ma viene messa a dura prova alcuni anni dopo, quando, risalendo da una spiaggia con Françoise e il figlio piccolo, incontreranno Maud, e Jean-Louis si accorgerà che le due donne si conoscevano. Capirà una cosa che per tutto il film non ha potuto - o voluto - capire, una cosa importante. Ma anche in questo momento è soccorso dalla sua progettualità e sceglie immediatamente fra varie alternative la reazione più opportuna. Non deve essere stato facile per lui, ma è l'unico modo per ottenere che le cose continuino ad andare bene fra lui e Françoise.

Il lavoro nel cinema: Heimat

Giuliano: Avere un senso
All’inizio di “Heimat”, il film di Edgar Reitz, un giovane soldato torna dalla Grande Guerra. Appena arrivato a casa, nel villaggio dove è nato, incontra suo padre: ma, prima ancora di parlargli e di abbracciarlo, prende in mano gli strumenti di lavoro e ricomincia con lui il suo lavoro di fabbro. Non c’è bisogno di parlare: senza dire una parola, con gesti antichi e sempre uguali, il figlio aiuta il padre a cerchiare una ruota, e a montarla sul carro.
Il pensiero mi è corso subito a una cosa che avevo letto pochi giorni fa, detta dal comboniano padre Cesare Mazzolari dal Sudan:
- Si sente ricco?
« In Africa hai la percezione fortissima di riempire un bisogno vero. Il medico, l’ingegnere, il prete, sono essenziali: non sono un optional. Ricevi una formidabile conferma della tua vocazione, ti accorgi della grandezza di essere cristiano.»
(Repubblica 24.11.2006, intervista di Paolo Rumiz)
Una volta, anche da noi il mestiere che si faceva aveva un senso. Essere un fabbro, o un contadino, o un prete, era davvero qualcosa. Il che non stava a significare un mondo fermo, immobile: il giovane figlio del fabbro, andando avanti in Heimat, si costruirà da solo una radio, che lo metterà in contatto con il mondo. Siamo agli inizi del Novecento, l’inizio vero della nostra storia e del distacco, dapprima graduale poi sempre più netto, dalle nostre origini millenarie. Da allora il tempo comincerà a correre in maniera diversa. Non è il caso di essere nostalgici, e come diceva la vecchia battuta è meglio vivere oggi che nei secoli passati perché se ti viene il mal di denti, eccetera. Però è vero, oggi si lavora e non si sa più perché, tranne che per il dettaglio particolare dell’essere pagati per farlo. Il privilegio di “avere un mestiere”, ormai, è riservato a pochi; perfino gli artisti non sanno più chi sono, avendo tagliato da un pezzo il rapporto con l’artigianato e il lavoro manuale, con la dura pratica quotidiana. E’ il mondo d’oggi, insomma, e anch’io non so più cosa sono e cosa faccio, e soprattutto non so cosa farci né come porvi rimedio. Mi siedo anch’io in un angolo e aspetto, qualcosa succederà.

lunedì 25 giugno 2007

Il grande silenzio

Die grosse Stille, di Philip Groening (2005), Documentario, Scritto e diretto da Philip Groening, (169 minuti), Rating IMDb 7,2
Roby
Quando ho seguito il mio legittimo coniuge al cinema per vedere questo film sapevo, naturalmente, che si trattava di una sorta di documentario sulla vita dei monaci della Grande Chartreuse, fra le montagne vicino a Grenoble: ma supponevo che il silenzio del titolo alludesse soprattutto alla pace interiore ed all'assenza di devastanti passioni terrene, più che ad una oggettiva mancanza di suoni. Quanto mi ingannavo! Oltre che uno sbaglio, lo confesso, per me l'intera pellicola è stata un unico grande sbadiglio. Mentre il fortunato mortale che può fregiarsi del titolo di mio consorte prorompeva in continue esclamazioni tipo: "Ma come ca... ha fatto questo a trovare una luce così???", oppure "Che meraviglia!!! Guarda, guarda che inquadratura... che taglio... che purezza formale...", io annuivo stancamente, cercando la posizione più comoda per schiacciare un sano pisolino post-prandiale. Certo, bisogna capirlo: la fotografia è la passione di tutta la sua vita, trasformatasi addirittura nel suo lavoro, per cui solo uno come lui poteva andare in visibilio davanti all'inquadratura -della durata di circa 5 minuti- in cui la telecamera fissa (sic) riprende un ragno (sic) intento a tessere la sua tela (sic) in un tranquillo angolino del sonnolento monastero. Posso benissimo ammettere che il regista abbia fatto miracoli, considerato che gli inflessibili fraticelli gli avevano categoricamente proibito l'uso di luci artificiali, spot, pannelli riflettenti, ecc. ecc. Posso anche riconoscere l'estrema poesia e l'indiscusso fascino di alcuni scorci del monastero, specialmente d'inverno. Posso, infine, aver trovato divertente la scena dei monaci che ridono e scherzano, rotolando sulla neve fresca. Ma non posso, tuttavia, fare a meno di chiedermi perchè trarre da tutto ciò una pellicola di ben due ore e quaranta minuti (doppio sic) abbondanti, quando la metà -per non dire un terzo- del tempo sarebbe stato più che sufficiente, almeno per tanti comuni mortali come me, non intenzionati a prendere i voti nè malati di arte fotografica, nè tanto meno dediti alla meditazione trascendentale. E' appunto nella speranza di ottenere risposta che pubblico questo post e attendo -in perfetto silenzio- illuminanti commenti. Augurandomi, francamente, di non dovere aspettare circa 19 (diciannove) anni, ossia il tempo impiegato dal padre rettore del convento per dare a Groening il sospirato ok alle riprese.

NB: per gli interessati, il sito ufficiale del film (con molte belle immagini) è http://www.diegrossestille.de/

Cane di paglia

Straw Dogs di Sam Peckinpah (1971) Racconto di Gordon Williams, Sceneggiatura di David Zelag Goodman, Sam Peckinpah Con Dustin Hoffman, Susan George, Peter Vaughan, T.P. McKenna, Sally Thomsett, Peter Arne, Del Henney, Jim Norton Musica: Jerry Fielding Fotografia: John Coquillon (118 minuti) Rating IMDb: 7.6
Solimano
Questo film non è certo il più bello o il più importante di Peckinpah, ma mi preme parlarne perché ancora adesso (e sono passati più di trentacinque anni!) è un po' nell'occhio del ciclone e al centro dell'attenzione. C'è un sito abbastanza ricco di belle immagini, che per Straw Dogs ne ha centinaia: non c'è minuto del film senza due o tre immagini. Il che è curioso, perché è vero che c'è del nudo, ma molto meno che in altri film precedenti e successivi, è vero che c'è uno stupro, ma non con l'insistenza e la platealità divenute regola negli ultimi decenni. L'attenzione morbosa che c'è ancora viene da due categorie distinte che etichetterò con sprezzo: i guardoni e i moralisti. Guardoni di che? Più di sentimenti e di sensi che di pelle nuda: interessa il fatto che Amy (Susan George), mentre subisce violenza diventi consenziente, il fatto che il marito di Amy, David (Dustin Hoffman) prima si faccia menare per il naso andando a caccia con i complici di quelli che saranno gli stupratori, e poi faccia di tutto per non capire e non sapere quel che è successo alla moglie. Interessa la differenza fra Amy e David, lei semplice, istintiva, esibizionista e sensuale, lui preso dal suo lavoro scientifico e con un ingiustificato senso di superiorità verso chi non ha la sua testa e la sua cultura, lei che prima è annoiata da lui e poi che lo disprezza per la sua tolleranza e il suo non voler sapere, salvo infine diventarne volentieri succube quando in lui si scatena una aggressività vincente (perché ha a disposizione testa e cultura), lui che reagisce alla invasione della casa ma non all'invasione della moglie. Poi ci sono i moralisti, quelli che se la prendono con Peckinpah, accusandolo di nichilismo, di culto per la violenza, di fascismo; un po' se la prendono anche con Amy, come se, essendo meno colta di David, dovesse per ciò stesso rinunciare alla sua vitalità di femmina; un po' se la prendono con David (molto di meno però), perché si aspettano che uno come lui, così superiore, non scenda a livello ferino mettendosi alla pari di quel paese sfigato in cui ha sciaguratamente scelto di passare qualche settimana. I moralisti hanno una risposta a tutto, ma non vogliono cogliere il punto essenziale: che Lorenz con la sua etologia ha perfettamente ragione, quando tratta della aggressività intraspecifica del genere umano. Aggiungo, ancor più quando scrive riguardo il cosiddetto male e riguardo quello che c'è dietro a quelli che tanti, religiosi e laici, definiscono come peccati capitali. Peckinpah, in Straw Dogs, si attiene con dura coerenza a ciò che gli ha insegnato Lorenz. In questi decenni sembra che le parole di Lorenz, così comprovate dalla sua attività scientifica, siano state fiato sprecato. Basti guardare, un esempio fra i tanti, le motivazioni loscamente idealistiche che ci sono dietro un pacifismo che torce il viso da ciò che non vuole vedere: è stato giusto rifutare sin dall'inizio la guerra in Iraq ed in Afganisthan, ma trarre da ciò la conseguenza del paradiso terrestre di un pacifismo a prescindere sempre e comunque, significa mentire, essere in malafede, e ci potrebbe stare, di menzogne e di malafede è intessuta la vita umana, ma c'è qualcosa di peggio: ci sono gli ingenui che credono a queste utopie (nessun luogo). Sono i più pericolosi perché, molto semplicemente, l'essere umano non è così. Solo se vedo la naturale aggressività posso in qualche modo gestirla, canalizzarla, indirizzarla verso obiettivi giusti di realizzazione di qualcosa di utile a me e ad altri. Se non la vedo, l'aggressività agirà comunque, magari come aggressività verso me stesso e le persone care. I lontani, è facile volergli bene, quelli che stanno vicini un po' meno, vedi David con Amy, finché non si sveglia. Il fatto che la grande maggioranza delle persone su questo pianeta non abbiano fatto proprio questo tipo di ragionamenti è molto preoccupante proprio per la pace, il bene supremo di cui gorgheggiano ogni giorno lodi stonate, che portano esattamente dall'altra parte. Protect me from what I want.

Il lavoro nel cinema: Tempi moderni

Giuliano
Inserire “Tempi moderni” in una serie sul lavoro nel cinema può sembrare scontato, banale. E poi ci sarà subito qualcuno che aggiunge che è un film vecchio, di settant’anni fa, figuriamoci, con tutto quello che è successo nel frattempo...
Invece no, il lavoro continua ad essere alienante come allora: e alienante non è un modo di dire, perché Charlot (come Lulù Massa – Gianmaria Volonté di “La classe operaia va in Paradiso”) al manicomio ci finisce per davvero, e anche in galera. C’è stata, è vero, una piccola parentesi (una ventina d’anni) in cui il posto di lavoro non era un inferno, o una punizione biblica: sono gli anni che sono seguiti all’autunno caldo del 1969, e che sono finiti a metà anni ‘90. Non è stata un’età dell’oro, ma operai e lavoratori dipendenti hanno potuto vivere bene, tirar su figli in maniera decente, farli studiare, comperare una casa, programmare un futuro. Oggi non è più così.
Il lavoro è cambiato, certo: non ci sono più le chiavi inglesi che usa Charlot nel film, adesso quei lavori li fanno i robot. E, da questo punto di vista, sono d’accordo con chi dice che “gli operai non ci sono più”: ma poi guardo le statistiche degli infortuni sul lavoro, e qualcosa non torna. Ascolto i racconti delle cassiere del supermarket, che devono andare al lavoro anche se i loro bambini hanno la febbre a 40 (e guai se arrivano in ritardo o vanno via un po’ prima). Ascolto e osservo, e qua e là trovo un servizio o un’intervista – sempre nascosta, in orari impossibili, quasi da stampa clandestina, che non si sappia troppo in giro – dove qualche prete della Caritas spiega che alle loro mense per i diseredati non vanno più soltanto gli extracomunitari e i barboni, ma un po’ tutti: anche milanesi doc, figuriamoci. Gente che fino a poco tempo fa stava bene, e che oggi – magari solo per aver passato i quarant’anni, gravissima colpa – farebbero volentieri compagnia a Paulette Goddard quando va a rubare le banane, come capita a Charlot in “Tempi moderni”.
Ma le nuove generazioni non sanno più chi è Charlot. Non lo si vede più in tv, e quando lo si vede è ridotto dentro la categoria del “vecchio e grazioso”. In realtà, Chaplin ebbe un’infanzia terribile, tra Ottocento e Novecento, negli slums di Londra. Ha avuto il dono di esprimersi con grazia, ma i suoi racconti sono terribili (ed è quello che si vede anche nelle sue comiche più buffe). E’ tutto descritto nella sua autobiografia, ma chi preferisce può leggersi Dickens, un libro qualsiasi, magari Oliver Twist o David Copperfield, o meglio ancora “Tempi difficili” (Hard times, 1854).
I nostri politici, economisti e giornalisti sembrano non accorgersene, e sbuffano se glielo andate a dire: ma il nostro futuro è lì, nei libri di Dickens e nei film di Chaplin. E, se non ci credete, andate un po’ a chiedere alla Caritas o alle mense dei francescani.

Fellini e Castaneda

Giuliano
L’interesse di Federico Fellini per il mondo soprannaturale, e per il paranormale, è ben noto: ed è anche il soggetto più o meno nascosto di alcuni suoi film, come “Giulietta degli spiriti”.
E’ per questo motivo che Fellini frequentò il misterioso sensitivo torinese Gustavo Rol, e contattò Carlos Castaneda, antropologo in origine, famoso per i suoi libri sui “brujos” messicani (stregoni, maghi, sciamani) e sugli allucinogeni: che però, avverte Castaneda, sarebbero utili solo nella fase iniziale e molto dannosi se usati sempre, secondo l’insegnamento di “don Juan”, lo stregone messicano che fu maestro di Castaneda ed è citato nell’articolo.
Castaneda era un altro personaggio misterioso: all’epoca di questi articoli era ancora vivo, e l’intervista che diede a Medail è da considerarsi una rarità. Non esistono sue fotografie, tranne una sfocata di quando aveva vent’anni e prese la laurea, ed altre fatte per Time nelle quali però si nasconde sempre il volto, scherzando con il fotografo. I suoi libri sono pieni di cose stupefacenti, ma quanto ci sia di serio e quanto di inventato è ancora da stabilire.


Il suo incontro con Fellini
PER UN FILM MANCATO

di Cesare Medail, Corriere della Sera 21.11.1997
Appena seduti al «Moustache Café», Castaneda parla di Fellini. «Federico, grande, intelligente, sensibile uomo. Peccato sia morto così giovane, ma mangiava troppo e comprimeva la sua energia. Quella volta a Roma, nel 1984, mi portò in un ristorante dove servivano dodici portate. C'era anche Marcello (Mastroianni): loro mangiarono tutto, io mi spaventai».
Castaneda racconta che Fellini voleva fare un film ispirato al mondo di don Juan: «Era affascinato dall'universo dei brujos perché era un visionario. Voleva anche provare per una volta il peyote, ma gli dissi che non era consigliabile: con quel che mangiava, sarebbe stato un disastro».
Il film non si fece: Fellini dirà che le visioni di Castaneda lo attiravano e insieme lo turbavano. Ne fece un racconto, uscito a puntate sul «Corriere» nell'86. Nel conversare anglo-ispanico Castaneda infila qualche parola d'italiano e viene fuori un particolare biografico del tutto inedito: «Quando ero giovane, trascorsi un periodo a Milano per studiare arte a Brera: era direttore lo scultore Marino Marini. L'aveva voluto mio nonno materno, siciliano, scultore autodidatta e donnaiolo impenitente. Diceva sempre: la bella Italia, porca miseria...».

Un incontro, un viaggio iniziatico, un film mai fatto, un disegno
A TU PER TU CON FELLINI
di Alberto Dentice, L’espresso 9 luglio 1998
Federico Fellini era affascinato dal mondo di Castaneda. Quelle storie popolate di brujos dotati di poteri paranormali, riti magici di antiche civiltà e funghi allucinogeni erano parte, per lui, di un immaginario al tempo stesso familiare ed esotico, spaventoso e affascinante. Lo scrittore latino-americano si considerava un grande ammiratore di Fellini. Insomma tra i due covava un'attrazione fatale che prima o poi sarebbe dovuta scattare. E difatti scattò, anche se le cose non andarono come previsto.
Fellini sognava di realizzare un film ispirato al mondo di don Juan.
Ne aveva parlato con Alberto Grimaldi, il suo produttore. E questi si era dato da fare per propiziare l'incontro. Nel 1984, dopo molte insistenze, Castaneda arrivò a Roma. «Quella volta», ricordava, «Federico mi portò in un ristorante dove servirono dodici portate. C'era anche Marcello Mastroianni. Loro mangiarono tutto, io mi spaventai a morte: mangiavano troppo».
Durante la cena i due parlarono della possibilità di trasferire in un film una storia ambientata nel mondo magico degli stregoni messicani. Castaneda sembra diffidente. Fellini e il produttore insistono. E così alla fine decidono di darsi un nuovo appuntamento, a Los Angeles, per fare una serie di sopralluoghi nello Yucatan e verificare l'attuabilità del progetto. E così fu. Fellini assieme al figlio di Grimaldi e ad altri quattro amici partì per gli Stati Uniti. Ma a Los Angeles iniziarono i problemi. Castaneda pareva essersi dileguato nel nulla. Fellini cominciò a ricevere misteriose minacce e ad avvertire la presenza di strane entità. Ma pur spaventato decise lo stesso di compiere il sopralluogo. Destinazione Tulum, l'antica città azteca situata sulle sponde dell'Oceano Atlantico. Da quel viaggio, che ben presto prese le pieghe di una inquietante avventura esoterica, Fellini trasse l'idea di una storia per un film, "Viaggio a Tulum", che non riuscì a realizzare.
In compenso Milo Manara ne disegnò una serie di tavole a fumetti. Fra i personaggi si riconoscono Snaporatz (Mastroianni), il giornalista Vincenzo Mollica e, nei panni del cameriere messicano fragorosamente allegro e ridanciano, proprio Carlos Castaneda. Manara assicura che quel disegno, preso di sana pianta dagli story board di Fellini, costituisce il ritratto più verosimile di Castaneda, versione 1984.

domenica 24 giugno 2007

In nome del papa re


In nome del papa re di Luigi Magni (1977) Sceneggiatura di Luigi Magni Con Nino Manfredi, Carmen Scarpitta, Carlo Bagno, Salvo Randone Musiche di Armando Trovajoli Fotografia di Danilo Desideri Montaggio di Ruggero Mastroianni (105 minuti) Rating IMDb 7.0
Roby
Quante volte ho ripetuto che adoro Roma? Non solo quella antica, ma tutta, proprio tutta, da Romolo e Remo al palazzo dell'EUR, passando attraverso S.Pietro, il Bernini, il barocco, il neoclassicismo e persino l'architettura del ventennio. Seguendo questo -splendido- film di Luigi Magni ambientato poco prima della breccia di Porta Pia, però, non mi raccapezzavo proprio su dove fosse stato girato, finchè qualcuno non mi rivelò l'arcano: la location è in gran parte Montepulciano, scelta per la sua maggiore somiglianza alla Roma di età papalina, che tuttavia non sfigura affatto al confronto. Qui si dipana la vicenda del cardinal Colombo (un Manfredi superbo), assistito dal suo fedele perpetuo (Carlo Bagno, superlativo), con il quale intrattiene un'incessante serie di gustosi battibecchi -uno dei punti di forza del film- soprattutto a proposito della sua devastante crisi, non tanto vocazionale quanto "politica": perchè per il cardinale, già avanti rispetto ai tempi, il potere temporale della Chiesa non ha più senso, tanto meno quando il papa -rappresentante di Cristo in terra- si arroga il diritto di comminare la pena capitale a chi gli si dichiara contrario. La crisi si aggrava quando la contessa Flaminia (Carmen Scarpitta) gli confessa che il giovane Cesare Costa, condannato appunto a morte dal tribunale ecclesiastico, è il figlio da loro concepito vent'anni prima, in un momento di debolezza della carne. Colombo, che già meditava di dimettersi da membro del tribunale, tenta di salvare il giovane, tenendo al concistoro riunito un memorabile discorso, troppo moderno -ahimè- non solo per il 1867 ma forse anche per l'anno di uscita del film. Il ragazzo, scampato al boia, verrà poi ucciso dal marito della contessa, che lo credeva l'amante della moglie. Contemporaneamente, altri due liberali, Monti e Tognetti, salgono al patibolo: saranno gli ultimi nella storia dello Stato pontificio, quando ormai Porta Pia è vicina.
I monologhi e i dialoghi, più che l'azione in sè, sono la parte migliore del film. E se a recitarli è un attore del calibro di Nino Manfredi si potrebbe restare ad ascoltarlo, rapiti, anche se lo facesse senza abiti di scena, senza scenografie, senza costumi, musica, luci... Certo, però, con tutto il contorno così ben curato, li si gusta ancora meglio, assimilandoli facilmente, finchè diventano quasi una parte di noi.

Il Vangelo secondo Matteo

Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) Sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini Con Enrique Irazoqui, Margherita Caruso, Marcello Morante, Mario Socrate, Susanna Pasolini Musica: Luis Enriquez Bacalov, Carlo Rustichelli, Johan Sebastian Bach, Wolfgang Amadeus Mozart, Sergej Prokofiev, Missa Luba, Negro spiritual Fotografia: Tonino Delli Colli Montaggio: Nino Baragli Produzione: Arco Film, Lux Compagnie Cinematographique de France (137 minuti) Rating IMDb: 7.9
Nicola
Alla Verna, il più francescano dei grandi monasteri francescani, il negozietto per turisti e pellegrini ha tutta una serie di film religiosi: vite di santi, episodi delle Scritture, vite di Cristo. Rimasi assai stupito, visitandolo, che vi trovasse tutto il bric-à-brac zeffirelliano, ma non il Francesco della Cavani, nè il Vangelo di Pasolini. Più che stupito, anzi, deluso.
Le motivazioni che spinsero Pasolini a fare il Vangelo sono sia occasionali (e francescane: si trovava ad Assisi durante una visita di Giovanni XXIII e, non volendo dar scandalo incontrandolo, rimase nella sua stanza, leggendo la copia del Vangelo a disposizione degli ospiti) che profonde, ma io sono la persona meno indicata a parlarne. Resta il dato di fatto che da questo raffinatissimo intellettuale impegnato sia uscito il più genuino e corporeo ritratto di Cristo della modernità.
Che il suo film avesse un'unitarietà sorprendente, al di là delle intenzioni, lo riconobbe lo stesso Pasolini (non senza civetteria), ammettendo che le scene in cui aveva voluto "attualizzare" il Vangelo (i soldati di Erode vestiti da fascisti, per esempio) in realtà non risultavano "attuali" per nulla, ma erano scivolate sul fondo narrativo del film come ciottoli sul greto del fiume. La sensibilità letteraria e artistica, e umana, di Pasolini salvò forse il film da alcuni suoi intenti programmaticamente intellettuali; d'altra parte, la sua finezza intellettuale lo salvò dal kitsch che colpisce senza pietà i registi e gli sceneggiatori che, anche con le migliori intenzioni, si avvicinino alla figura di Cristo.
Pasolini scelse di riportare solo le parole del Vangelo, in una traduzione aspra e "petrosa", e nulla al di fuori di esse. Scelta ovvia, questa, per un critico testuale, ma rara al cinema. Di conseguenza, il ritmo spezzato e asimmetrico del Vangelo s'è trasferito alla pellicola, dandole una dimensione temporale originale e al tempo stesso famigliarmente autentica. Decise di ambientare il film nell'arcaico, ma vivente, contesto dei sassi di Matera, arruolandone il sottoproletariato rurale come attrici e attori: una scelta coerente con la ricerca di un mondo sottoproletario e autenticamente umano che è il filo rosso dell'opera di Pasolini; ma che -consapevolmente- benissimo s'adattava alla scrittura mimetica e popolare dell'evangelista. In questo modo anche le citazioni manieriste (nella la crocefissione, per esempio) benissimo si saldano con l'arcaicità (e d'epoca manierista, del resto, è l'introduzione di fisionomie popolaresche, ma non caricaturali, nella pittura sacra).
Infine, il Cristo è reso in tutta la sua umanità, senza ieraticità extratestuali, ma anche evitando quegli psicologismi attualizzanti che rendono l'umanità di ogni tempo -in tanto cinema- tutta uguale alla middle class americana. Senza ieraticità, dunque, e tutto umano, ma anche tutto profeta, e profeta di radicali e scandalose novità. Impossibile non pensare che Pasolini avesse specchiato buona parte di sè, di una rappresentazione di sè, in questo Cristo militante e votato alla morte (così come aveva rispecchiato sua madre nella Vergine). Che è forse la ragione per cui l'umanità del Cristo risalta così potente, quasi senza mediazione recitativa.
E infine, Pasolini era troppo intelligente e colto per piegare il Vangelo a dei suoi fini estemporanei. Il mistero e la forza della religione non vengono in alcun modo corrosi, pur essendo lui ateo; lo scandalo della morte e la promessa della Resurrezione vengono riportati senza commento.

Un dollaro d'onore (1)

Rio Bravo, di Howard Hawks (1959) Sceneggiatura di B.H.McCampbell, Jules Furthman, Leigh Brackett Con John Wayne, Dean Martin, Ricky Nelson, Angie Dickinson, Walter Brennan Fotografia di Russell Harlan, Musica di Dimitri Tiomkin (141 minuti) Rating IMDb 7,9
Roby
Anno 1980 ca., tardo pomeriggio, interno appartamento: mia sorella entra in camera da letto sventolando il giornale e dice: “Hai visto? Stasera in tv c’è un film che non possiamo proprio perdere!”. Scettica, le prendo di mano il quotidiano e comincio a leggere la recensione. “Figuriamoci!” esclamo “John Wayne! Io non lo sopporto, John Wayne!”. Lei, spazientita, gira i tacchi. “Abbiamo un televisore solo” sentenzia “e anche il babbo vuol vedere quello: perciò…”
Perciò, oggi devo ringraziare con tutto il cuore quell’unico apparecchio presente all’epoca in famiglia, meritevole di avermi fatto scoprire uno dei capolavori in assoluto di Howard Hawks. Un dollaro d’onore è in apparenza (ma solo in apparenza) un film minimalista, con piccoli personaggi chiusi nella loro piccola città, alle prese con la dura lotta per la sopravvivenza. Da una parte ci sono il buono, il debole, il vecchietto, la bella, il ragazzino; dall’altra i cattivi, in netta maggioranza. Detto così, sembrerebbe non esserci partita. Ma se il buono si chiama John Wayne, il debole Dean Martin, il vecchietto Walter Brennan (chissà se sarà mai stato giovane, Walter Brennan?), la bella Angie Dickinson, il ragazzino Ricky Nelson, allora il gioco passa di mano, e il regista può chiudere in bellezza, calando non 4 ma addirittura 5 assi. Nessuno, ovviamente, lo accuserà di barare, quando tenterà di farci credere, per buona parte dei 141 minuti totali, che i nostri “eroi” non ce la faranno a sgominare la banda dei terribili fratelli Burdette. E del resto, perché lo sceriffo porterebbe il nome di Chance (Fortuna, in francese) se i favori del pronostico non fossero tutti per lui e per la sua scalcagnata squadra di aiutanti? Poco importa se i mezzi usati per vincere sono a dir poco insoliti, come l'abat-jour scagliato dalla Dickinson fuori dalla finestra per distrarre i fuorilegge e permettere al giovane Nelson di eliminarne un paio; o se gli effetti collaterali dell'ubriachezza cronica di Martin spariscono come per incanto dopo pochi caffè. Lo spettatore impara presto le regole del gioco di Hawks, e vi si adegua senza sforzo, cullato dolcemente ora dalle note del Deguello, ora da quelle della celeberrima My pony, my rifle and me. Il tutto in un crescendo perfettamente orchestrato, sino ad arrivare, nel finale, alla scena più pericolosa per il rude John Wayne: quella in cui, dopo aver tentennato per tutto il film, si decide ad ammettere -soprattutto davanti a se stesso- che la splendida Angie Dickinson non gli è affatto indifferente... E chi potrebbe mai dargli torto?

PS: da non confondere (c'ero cascata anch'io) il Rio Bravo di Hawks con quello che in italiano ha lo stesso titolo e lo stesso interprete (Wayne), ma è stato diretto da John Ford nel 1950 e in originale suona come Rio Grande.

sabato 23 giugno 2007

Il lavoro nel cinema: I sette samurai

Solimano
Per decenni, abbiamo creduto che I sette samurai fosse un film, mentre era un altro. Quasi tutto quello che riguardava la vita dei contadini del villaggio fu tolto dall'edizione distribuita in tutto il mondo, che fu di 160 minuti, contro i 207 minuti originali, un taglio drastico. Fu merito grande, qui in Italia, dell'Unità, la distribuzione della cassetta VHS con l'edizione integrale del film. Non per ricostruzione filologica di come Akira Kurosawa l'aveva girato, ma perché solo così tutto può essere meglio compreso. Basti pensare a come il finale del film ridotto può portare all'equivoco di un mondo arcadico: "Noi siamo come il vento, i contadini hanno vinto ancora" dice uno dei tre samurai superstiti. Ma la loro vittoria non è nella bellezza indubbia dei movimenti e del canto durante il loro lavoro nella risaia, questo è solo il premio, la vittoria è nella storia affaticata delle persecuzioni che hanno subito, dei litigi fra di loro su chi comanda nel villaggio, nella ribellione ad altri samurai (e nel conseguente nascondimento delle armature), nel lavoro di tutti i giorni esposto a stagioni, briganti e samurai, nella difesa della loro comunità e delle loro donne. C'è la ragazza a cui il padre taglia i capelli per mascherarla da uomo, ma che farà l'amore con il samurai più giovane che sarà tentato di restare nel villaggio. Segno unificante è Kikuchiyo (Toshiro Mifune) che vuole essere samurai ma di fondo è contadino, e che risolve mirabilmente il problema iniziale, quando i contadini si nascondono all'arrivo dei samurai. Solo lui può riuscirci: conosce i due mondi, e può farsi ascoltare da entrambi. Credo che vada fatta una riflessione cruda sul perché si decise di eliminare dal film brani così importanti, e ancor più sul perché l'oscenità di una scelta del genere fosse tollerata così a lungo. Ho una mia risposta: certe cose si preferisce ignorarle piuttosto che vederle, cambierebbero il nostro modo di ragionare, e non ci sta bene.