martedì 26 giugno 2007

Il lavoro nel cinema: Heimat

Giuliano: Avere un senso
All’inizio di “Heimat”, il film di Edgar Reitz, un giovane soldato torna dalla Grande Guerra. Appena arrivato a casa, nel villaggio dove è nato, incontra suo padre: ma, prima ancora di parlargli e di abbracciarlo, prende in mano gli strumenti di lavoro e ricomincia con lui il suo lavoro di fabbro. Non c’è bisogno di parlare: senza dire una parola, con gesti antichi e sempre uguali, il figlio aiuta il padre a cerchiare una ruota, e a montarla sul carro.
Il pensiero mi è corso subito a una cosa che avevo letto pochi giorni fa, detta dal comboniano padre Cesare Mazzolari dal Sudan:
- Si sente ricco?
« In Africa hai la percezione fortissima di riempire un bisogno vero. Il medico, l’ingegnere, il prete, sono essenziali: non sono un optional. Ricevi una formidabile conferma della tua vocazione, ti accorgi della grandezza di essere cristiano.»
(Repubblica 24.11.2006, intervista di Paolo Rumiz)
Una volta, anche da noi il mestiere che si faceva aveva un senso. Essere un fabbro, o un contadino, o un prete, era davvero qualcosa. Il che non stava a significare un mondo fermo, immobile: il giovane figlio del fabbro, andando avanti in Heimat, si costruirà da solo una radio, che lo metterà in contatto con il mondo. Siamo agli inizi del Novecento, l’inizio vero della nostra storia e del distacco, dapprima graduale poi sempre più netto, dalle nostre origini millenarie. Da allora il tempo comincerà a correre in maniera diversa. Non è il caso di essere nostalgici, e come diceva la vecchia battuta è meglio vivere oggi che nei secoli passati perché se ti viene il mal di denti, eccetera. Però è vero, oggi si lavora e non si sa più perché, tranne che per il dettaglio particolare dell’essere pagati per farlo. Il privilegio di “avere un mestiere”, ormai, è riservato a pochi; perfino gli artisti non sanno più chi sono, avendo tagliato da un pezzo il rapporto con l’artigianato e il lavoro manuale, con la dura pratica quotidiana. E’ il mondo d’oggi, insomma, e anch’io non so più cosa sono e cosa faccio, e soprattutto non so cosa farci né come porvi rimedio. Mi siedo anch’io in un angolo e aspetto, qualcosa succederà.