mercoledì 13 giugno 2007

Giorno di festa

Jour de fete di Jacques Tati (1949) Sceneggiatura di Jacques Tati, Henri Marquet, René Wheeler Con Jacques Tati, Guy Decomble, Paul Frankeur, Santa Relli, Maine Vallée Musica: Jean Yatove Fotografia: Jacques Mercanton, Jacques Sauvageot (70 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
C’è un modo di apprezzare Giorno di festa che mi è estraneo: quello consolatorio che esalta la raffigurazione di Tati come contrapposta alla modernità, quello del fermate il mondo voglio scendere. Perché i postini americani hanno ragione e spostarsi in treno o in macchina è meglio che spostarsi a piedi o con i cavalli. D’accordo, con una serie di inconvenienti è difficile fare i conti, ma il dire che bello il mondo di Tati è sospetto. Non è che Follainville sia un paradiso, con la stratificazione sociale che passa di padre in figlio e con i rapporti senza sorprese, basati su una coazione a ripetere a cui tutti sono tenuti e non si sgarra. Non si tratta di macchiette, gli abitanti sono proprio così, a ripetersi un copione di poche battute e di gesti usuali per tutti tranne che per i bambini, che poi crescono e ci si atterranno anche loro. La vecchietta piegata in due dall’artrosi queste cose le sa tutte, e ce le racconta non per carineria amorosa, ma per sua malignità abituale. E’ giusto dire che è un po’ il coro greco, difatti esprime il senso comune, che non è detto sia il buon senso.
Il postino François non è Monsieur Hulot, al massimo è un cugino di secondo grado, è invece il tipo eterno del grande, grosso e coglione. Lo accettano tutti, ne ridono tutti, non solo i giostrai che oggi ci sono domani no. Solo che è volonteroso, desideroso di imparare perché vorrebbe essere accettato di più e deriso di meno, e la sua volontà gli porta addosso nuovi problemi, invece di risolvere i vecchi. Ma la purezza e la trasparenza di François sono infine una chiave di vita, gli eventi e le persone lo possono graffiare, non ferire. Un don Chisciotte che non ha letto libri, a lui bastano otto metri di pellicola per provare a fare l’americano. Come se non ce ne fossero tanti, oggi, che assorbono dalla TV il modello morale, lo assorbono per osmosi quotidiana, senza però il gusto delle rime e delle ottave.
Mi è venuto in mente, riguardando Giorno di festa, quello che mi successe una sera in un paese delle montagne croate sopra Fiume, quando ancora c’era la Jugoslavia. Ogni casa aveva la sua legna bene ordinata fuori dalla porta d’ingresso, si capiva che la vita quotidiana era quella nostra di trent’anni prima. Tutti a guardare insieme nella osteria grande la TV per l’inaugurazione delle Universiadi a Zagabria, con luminarie di ogni tipo. Lo sbalordimento era generale, fargli vedere quelle cose voleva dire schiodarli dal vecchio modo di vita senza però offrirgliene uno nuovo praticabile. E’ quello che successe in Albania con la nostra TV, tutti a precipitarsi verso un paese di Bengodi inesistente, tutti a partecipare alle piramidi finanziarie.
Giorno di festa non fa ridere quasi mai - in generale Tati non cerca la risata - ma fa pensare, stimola, disturba anche. E’ stato notato che ci sono momenti di crudeltà nel film, proprio come succedeva con Chaplin e Keaton. Ancor più di loro, il film di Tati non è un susseguirsi di gag, ma ha una sua struttura apparentemente tenue ma molto salda, che è aiutata, sorretta dalla fiera, esperienza a cui non siamo stati abituati, ma che era un confronto con cose e persone che non facevano parte del tran tran. Nel film Friendly Persuasion di Wyler succede la stessa cosa, i paesani sono divisi fra diffidenza e meraviglia.
Oltre alla fiera, al tessuto connettivo provvede François, che proprio perché postino ha rapporti quotidiani con tutti, in un certo senso - ridicolmente vero - è l’intellettuale di riferimento di questa comunità, una specie di sinapsi. François è deriso ma insostituibile, i suoi gesti imprevedibili hanno la fluidità di un buon lubrificante, perché vive sul confine fra noto e ignoto, curioso e servizievole come è. Francois non è un poeta, non è un Papageno senza Papagena (difficile trovargliene una…), è un permaloso a cui secca essere deriso, che barbuglia in un suo grammelot banalità ed imprecazioni, ma che è salvato dalle sue continue buone intenzioni che gli lastricano la via di un purgatorio quotidiano. Prima o poi ci sarà il paradiso, il purgatorio finisce. Fa tutto in modo sgraziato col suo corpaccione, e con le gambe e le braccia che gli scappano da tutte le parti, proprio come la sua bicicletta, elegante fuggitiva, e pian piano ti accorgi che la somma di questi sbilenchi addendi è di una grazia perfetta. Qui ci voleva condurre il poeta Jacques Tati, e verrà un giorno in cui se ne accorgeranno anche quelle teste dure degli abitanti di Follainville (Saint Sévère, sulla carta geografica).

3 commenti:

Giuliano ha detto...

“Giorno di festa” è quasi uguale ai disegni di Novello. Sono disegni, per chi non li conosce, feroci e sorridenti nello stesso tempo, nostalgici ma senza nessun rimpianto; e Giuseppe Novello (che fece la ritirata di Russia) aveva più o meno la stessa età di Tati, quindi il mondo è più o meno quello. (A chi non conosce Novello consiglio di fare subito una ricerca). Ma il tema del mondo “che era meglio una volta” per Tati è importante, e perciò ripesco un mio vecchio post del 2004 su Stile Libero:

In un'intervista televisiva del 1968, Jacques Tati se la prendeva con l'alzacristalli elettrico. "Cosa c'è di strano se io voglio continuare ad alzare il finestrino dell'auto con la manovella? C'era davvero bisogno di questo marchingegno?", si chiedeva Tati. "Ormai siamo schiavi dell'elettricità," diceva Tati portando quest'esempio bizzarro ma centrato. Il grande regista francese era cresciuto e vissuto, come quasi tutti quella della sua generazione, in un mondo in cui l'elettricità non c'era, ma si viveva lo stesso e magari anche bene. Oggi l'elettricità è dappertutto e governa le nostre vite. Ma, e se manca l'elettricità? Così diceva Tati nei lontani anni '60, ed è un pensiero terrificante ma oggi non ce lo poniamo nemmeno più. Ai bei tempi dei nostri nonni, anche la mancanza di benzina non sarebbe stato un gran problema: c'erano i carretti e i cavalli. Ai nostri giorni, un blackout improvviso e prolungato, d'inverno, significherebbe quasi sicuramente la fine delle nostre foreste residue; ma anche bruciare la legna per riscaldarsi sarebbe un grosso problema, visto che non ci sono più stufe né caminetti. La musica è quasi tutta elettrificata, a parte qualche bizzarro ostinato che suona la fisarmonica o il flauto; vediamo spesso violini elettrici senza più forma di violino, (amplificati elettricamente, se no non si sente niente) (e suonano l'inutilità assoluta, rigorosamente suonata da violiniste giovani e biotte). Mah, l'elettricità è comoda, e spero che non venga mai a mancare. Ma l'anno scorso mi si è rotto il motorino dell'alzacristalli (un tentativo di furto) e ho scoperto quanto costa, questo marchingegno che turbava tanto Jacques Tati. La cifra non ve la dico e spero che non la veniate mai a sapere; e il mio pensiero finale è questo: che se ci fossero stati i frigoriferi nell'anno mille noi oggi non avremmo né il prosciutto e il parmigiano; e nemmeno la bresaola e - così a occhio - nemmeno il Chianti e il Barbera.

Solimano ha detto...

Dire se era meglio prima o se era meglio dopo, in fondo è un esercizio abbastanza inutile, prima di tutto perché non è una questione decidibile come i due più due fa quattro (o quasi quattro...).
Per me gli argomenti veri sono due.
Il primo è il che fare dei propri ricordi.
Il secondo è che decisioni prendere nel qui e ora riguardo tanti argomenti in cui sono coinvolte innovazioni di ogni tipo (tecnologiche, comunicative, organizzative etc).
Sul primo argomento la mia decisione operativa è che il mio ricordo, fosse di trent'anni fa o di dieci minuti prima, quando arriva fa parte del mio presente, esiste esclusivamente nel mio qui e ora, non ha nessuna sostanza al di fuori di quel momento in cui ricordo. Come tale lo tratto, evitando quindi ogni trappola nostalgica o di rimorso o di rimpianto: problemi inutili che non ha senso porsi, pure e semplici elucubrazioni mentali. Sembrano banalità, non credo lo siano.
Sulle innovazioni, ognuno ha il suo modo. Io ho (anche) una componente Amish, ad esempio non ho il telefono cellulare né credo di dotarmene in futuro, ad esempio, il mio atteggiamento in rete è che la linketterìa è per l'uomo, non l'uomo per la linketterìa, lo si vede bene da come è fatto il blog volutamente, molto volutamente scarno.
Però una cosa, se l'ho comprata, la utilizzo, ad esempio la possibilità di usare la stessa immagine grande e piccola, cosa che molti linkettari trascurano presi da chissà quali sofisticazioni di doppio link aarrotolato e carpiato.
Altro esempio: non scrivo più nulla a mano, perché lo vedo sciocco e mi porterebbe a scrivere male. Preferisco scrivere direttamente in rete (lo faccio anche per certi film), perché dopo che ho scritto ho un bel po' di materia prima da organizzare ed è solo un lavoro di cernita un po' attenta, non di creatività che si esercita invece quando si scrive velocemente seguendo un filo (meglio: dei flash) che man mano si presentano.
Tornando a Tati, i suoi film dicono tutti che sono simili. Per me non è vero, ognuno ha una sua specificità: Girno di festa lo vivo come se fosse una poesia, Monsieur Hulot come un film comico, Mon Oncle come un film satirico, Playtime come un film drammatico e grottesco.
Quello che amo di più è il secondo, Le vacanze di Monsieur Hulot, fatto probabilmente in cui Tati non era amareggiato, perché ho l'impressione che fosse una persona spesso sofferente, uno che faticava a mettersi in una situazione empatica con la sua vita.

saludos
Solimano

Giuliano ha detto...

Ho letto di recente l'intervista di Andrea Zanzotto a Repubblica (3 giugno scorso): un prato dove mettono gli occhi le immobiliari è un prato perso per sempre.
E' questa la nostalgia...