In una cittadina del Kansas sbarca una mattina William Holden, cencioso, abbronzato e trascurato. In cambio di un buon pasto, brucia i rifiuti nella casa di una vecchia signora che, in sovrappiù, gli lava la camicia. Frattanto lui, a torso nudo, ha fatto conoscenza di una bella ragazza, Kim Novak, e della sua sorellina, Susan Strasberg.Con la camicia pulita, Holden può finalmente fare visita a Cliff Robertson, suo compagno di scuola, ben sistemato e fidanzato con Kim Novak.L’indomani ha luogo un grande picnic tradizionale, noi diremmo in Francia una kermesse che durerà tutta la domenica. Holden si mostra particolarmente brillante, danza come un dio, tiene allegri tutti e deve respingere le avances di una maestra – Rosalind Russell – che ha bevuto troppo whisky. Come si spoglia, quella lo insulta e lui, disgustato, si salva ripescato da Kim Novak tra le cui braccia passerà la notte. Holden, dopo essersi battuto con Cliff Robertson e con la polizia, fugge su un treno merci dopo aver supplicato Kim Novak di venirlo a trovare a Tulsa. Costei, nonostante le lacrime della madre, lo raggiungerà viaggiando su un camion e l’ultima immagine ci mostra, visti dall’elicottero, il treno merci e l’autocarro che si incontrano.Non so dirvi se, premiata con un premio Pulitzer, la commedia Picnic di William Inge, che è autore anche di Come back little Sheba e di Bus stop, sia o meno geniale, ma il film che ne hanno ricavato Daniel Tardash, autore della sceneggiatura e dei dialoghi, e Yoshua Logan regista – che precedentemente aveva diretto anche la commedia a Broadway – non è lontano dall’esserlo. Attraverso questa tranche de vie, è un ritratto dell’America che Logan abbozza per noi, senza malignità e anche senza troppo sentimentalismo, ma con una lucidità un po’ crudele che imparenta il suo sguardo sul mondo a quello di Jean Renoir. Ma se è necessario vedere Eléna et les hommes più di una volta prima di scoprire tutte le bellezze, non c’è niente in Picnic che non sia percepibile fin dalla prima visione. È la sola ragione per cui Picnic può sedurre più del film di Renoir. Dovendo continuare il confronto, i due film hanno in comune il fatto di essere innanzi tutto storie raccontate per immagini e di offrirci dell’amore una visione di volta in volta più vera di quanto non capiti abitualmente sullo schermo, carnale e finalmente disincantata. In Picnic Josh Logan ci lascia scegliere le nostre emozioni, si può ridere o piangere delle stranezze dei suoi personaggi, ogni idea essendo, testa e croce, espressa con quello che di patetico e di comico comporta. Se Josh Logan fosse più giovane avrebbe fatto di Picnic un film a sua volta più crudele, più generoso e anche ingenuo, ma i suoi quarantotto anni, la sua corpulenza, la sua volubilità e la sua buona salute gli fanno dominare il soggetto e glielo fanno affrontare con un distacco a mio avviso salutare. In Josh Logan noi salutiamo un nuovo grandissimo regista di cui Jacques Rivette dice che è “Elia Kazan moltiplicato per Robert Aldrich”, cosa del tutto esatta perché Picnic fa pensare a East of Eden per la delicatezza del tratto e a Vera Cruz per il suo fulgore. Josh Logan, dopo Picnic, suo primo film, e Bus stop (Fermata d’autobus, 1954) mi sembra un regista così dotato per il cinema (direzione degli attori, miglioramenti alla sceneggiatura, messa in valore di ogni idea) che non potrebbe, a meno di non farlo apposta, sbagliare un film. Ecco un vero regista, un uomo che non si lascia pestare i piedi visto che lasciò Hollywood verso il 1935 durante le riprese di History is made tonight che, se avesse potuto finirlo, sarebbe stato il suo primo film come regista. Picnic, che personalmente preferisco a Bus stop, è di un’invenzione incessante e pieno di brio in ogni immagine. Josh Logan non esita, a piacimento, a farci ridere nel bel mezzo di una scena triste o viceversa; ci mena letteralmente per il naso e la platea si sbellica dalle risate.
P.S. Nell'immagine, che ho trovato su "Cahiers du cinema" c'è François Truffaut che gira Fahrenheit 451 sotto la neve, nel 1966.
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