Il 27 gennaio 1940 usciva su Cine Illustrato una recensione di Ennio Flaiano su Ombre rosse; l'ho trovata sul sito Mymovies e qui di seguito la riporto. E' una recensione a caldo, e si sente:
"Nel cinema americano la tradizione del western non accenna a spegnersi: anzi non perde occasione per affermarsi sempre viva e brillante. Con gli ultimi tempi, quella attenzione – diciamo affettuosa e primitiva – verso i ricordi della storia nazionale, che si trovava in tutti i film a carattere avventuroso, si è nobilitata da un gusto nuovo, che scava in profondità.
"Nel cinema americano la tradizione del western non accenna a spegnersi: anzi non perde occasione per affermarsi sempre viva e brillante. Con gli ultimi tempi, quella attenzione – diciamo affettuosa e primitiva – verso i ricordi della storia nazionale, che si trovava in tutti i film a carattere avventuroso, si è nobilitata da un gusto nuovo, che scava in profondità.
Pur rispettando la buona retorica dell’aria aperta, si sono aggiunte ai film recenti, delle intenzioni più sostanziose. Chiamiamole pure letterarie se non c’è altro affettivo che indichi quel contributo di sale dato alle storie e se così vanno indicate le prospettive profonde che queste acquistano, prospettive che una volta non toccavano un tal genere di cinematografo e entravano soltanto nel giuoco dei romanzieri.
Romanzo, senza dubbio, con tutti i suoi caratteri di ricerca psicologica e letteraria, può dirsi Ombre rosse, il nuovo film di John Ford. Eccoci davanti a un film in cui l’ombra di de Maupassant si sposa a quella di un Murnau (per parlare di trapassati) o, meglio, a un film in cui allo stile di uno Stephen Roberts si aggiunte quello di un Vidor. Sposalizio felice, diciamolo subito: tanto felice che vien voglia di togliersi il cappello.Naturalmente per Ombre rosse si è ricordato I cavalieri del Texas, Buffalo Bill eccetera: forse col desiderio di fissare il film nei limiti dell’evocativo avventuroso. Per conto nostro i nomi da fare sono ben più grossi. Si può cominciare con il narratore francese già citato, de Maupassant, del quale «rivediamo» in Ombre rosse la più tipica delle figure. Boule de suif la donna di facili costumi, che è disprezzata dai compagni di viaggio e che salva poi tutti col suo sacrificio; e si potrebbe finire col citare Anderson (quello di Solitudine) e persino Wilder, se si tien conto che in Ombre rosse la ricerca più sentita dal regista è quella che si svolge intorno alle sei persone che viaggiano nella carrozza di posta. Una ricerca che indaga nel loro passato, nei «fatti umani».
Su una diligenza che fa servizio tra due località del West americano s’imbarcano: 1) la moglie di un ufficiale dell’esercito; 2) una donna che la lega della morale dichiara «indesiderabile»; 3) un dottore ubriacone, scacciato dalla padrona di casa; 4) un commesso viaggiatore in liquori (che subito diventa docile vittima del n. 2); 5) un gentiluomo rovinato dal giuoco.
Durante il viaggio saliranno anche un cassiere che fugge con la cassa e un giovane evaso dal carcere, che si arrende alla scorta armata della diligenza.
La corriera inizia il suo viaggio nel deserto, in un’atmosfera di pericolo imminente, poiché una tribù di indiani si è ribellata.
La prima parte del viaggio è dedicata alla conoscenza di questi personaggi, li vediamo come sono, alcuni impariamo ad amarli, altri a tenerli in sospetto. Un tenero amore, frattanto, s’intreccia tra la donna «indesiderabile» e il giovane evaso. Ma costui ha un dovere da compiere: vendicarsi degli assassini di suo padre, gli stessi che con una falsa testimonianza l’hanno fatto mettere in prigione.
Questo giovane dagli occhi azzurri, dalla bocca chiusa e secca, alto e lento, vi piacerà subito: c’è qualcosa di indefinito nella sua persona, che sembra spinta da un piccolo destino da tragedia verso la sua avventura.
Ma intanto le cose di complicano. La moglie dell’ufficiale mette alla luce una bambina, curata proprio da quel dottore sulla cui abilità nessuno avrebbe puntato un soldo: e notizie sempre più gravi giungono ai viaggiatori circa l’attività degli indiani.
La situazione precipita con l’inseguimento della carrozza da parte di questi ribelli. È l’andante mosso del film, una travolgente cavalcata che si chiude con la vittoria dei nostri.Come se nulla fosse successo, il film, dopo questa precipitosa parentesi (che in altri tempi avrebbe segnato la fine dell’avventura) riprende il suo racconto. I viaggiatori vanno ancora osservati. Uno soltanto è morto, il gentiluomo rovinato, quello che era salito in carrozza per un atto di galante donchisciottismo, per difendere in caso d’attacco degli indiani la moglie dell’ufficiale. Gli altri avranno ognuno la sua sorte.Coraggiosa conclusione questa di John Ford. Il giovane evaso, ammazzerà i tre avversari, la donna di facili costumi si sposerà (è facile immaginare con chi), il bravo dottore seguiterà a ubriacarsi. Finalmente un lieto fine che non delude. Se il giovane avesse rinunciato ad ammazzare i suoi rivali o se il dottore avesse deciso di esser sobrio in avvenire il pubblico dal canto suo avrebbe staccato le poltrone in segno di protesta.
Per la prima volta in un film americano non si lasciano a Dio le cure della vendetta morale. Ognuno fa quel che può, se la cava come gli detta il cuore. Ed è questa «intonazione» la più giusta, la più apprezzabile del film.Non ci stancheremmo di parlar bene di queste Ombre rosse, anche perché arrivano dopo tante ombre pallide ed evanescenti, ombre di filmetti, di commediole, di rifriggiture. È un film di quelli che si rivedono; John Ford è il regista di Il traditore e di La pattuglia perduta, due film precisi e allucinanti. Ma è anche il regista di un vecchio westem, Il cavallo d’acciaio. Chi ricorda questo «colosso» del ’24, in cui per la prima volta appariva George O’ Brien? Lo spettatore non più giovane confronti i due film, osservi come il nuovo è una perfezione dell’antico, come certe audacie di quello si sono conservate e accresciute nel frattempo.
Una parola sulla fotografia che è perfetta, tenuta secondo il costume di Ford a contrasti di luce e ombre e sempre campeggiante su passaggi straordinari, lunari. Il fotografo è Bert Glennon; il montaggio di Walter Reynolds. È il soggetto di Ernest Haycox.
Parlerò degli attori? Ce ne sarà bisogno? Sono John Wayne (l’evaso), Claire Trevor (la mondana), John Carradine, Louise Platt. E, nuova conoscenza, Thomas Mitchell, il buon dottore ubriacone, un personaggio i cui cari sorrisi e l’aria affettuosa non si dimenticano subito".
3 commenti:
Molto bello il paragone musicale. Questo film è proprio così, come i tempi di un quartetto d'archi.
una recensione azzeccatissima che regge perfettamente il confronto con tutte le analisi dei successivi 70anni. secondo me la chiave è proprio dove la vede il recensore e cioè nel film che non finisce dopo l'arrivo della cavalleria
bella operazione di recupero
Grazie per la visita, Mr.crown. Quando capita è bello leggere le recensioni a caldo e questa lo era e si sente. Altre volte succede anche a critici molto noti di prendere degli sfondoni pazzeschi. Ho letto sul tuo blog il tuo brano su Ombre rosse e mi è piaciuto.
saludos
Solimano
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