Giulia
E' il terremoto che suggerisce l'idea ad Abbas Kiarostami di girare il film "E la vita continua". Un terremoto nel 1990 ha devastato e ha fatto decina di migliaia di vittime nella regione del Gilan in Iran, proprio dove era stato girato "Dov'è la casa del mio amico?".
"Nei miei film la morte e' spesso presente. - dice Kiarostami - Mi e' rimasta negli occhi dopo il terremoto del ' 90. I sopravvissuti stendevano teli sui cadaveri, quasi a coprire la morte, a cancellarla. Ma la vita, prepotente, spunta ovunque e, come dice un' altra poesia, di Omar Khayyam, va colta e gustata come una coppa di vino".
Morte e vita sono il filo conduttore del film e si mescolano: si pensa a ciò che è stato distrutto, a chi è si è perso, ma nello stesso tempo si guarda la vita che continuamente rinasce.
Il regista (impersonato dall'attore Farhad Kheradmand) decide di recarsi a Koker assieme al figlio Puya: cerca i due bambini protagonisti del film "Dov'è la casa del mio amico". Parte con una vecchia Renault gialla e il suo sarà un lungo viaggio nelle terre dove il sisma ha maggiormente colpito.
Il racconto non ha una trama definita, si lascia condurre dagli incontri: esseri umani che si affacciano al finestrino o paesaggi che scorrono lungo il tragitto.
La natura sembra non essere toccata dagli eventi, segue il suo corso indifferente a quello che capita agli uomini.
Vuole fare pipì Puya e chiede al padre di fermarsi. Preso dal pudore, si nasconde dietro l'unico albero appena nato in quella collina desolata. Un gesto innocente che fa sorridere il padre e noi con lui. L'occhio ironico e attento ad ogni dettaglio di Kiarostami è presente in ogni film. I bambini sono spesso i soggetti che privilegia.
Quindi Puya riesce a catturare la cavalletta e, contento, la porta in macchina. Vorrebbe tenerla con sé, ma il padre non lo lascia. Le cavallette appartengono come ogni animale alla natura e là devono stare. Il bambino, un po' a malincuore, le restituisce la libertà. Imparerà, però, che ogni essere vivente ha il suo ambiente da cui non bisogna separarlo.
Il viaggio prosegue, ma si rivela ben più difficile del previsto: l'unica strada è impraticabile e l'automobile con i due protagonisti a bordo è costretta a innumerevoli deviazioni fra colline e macerie.
La tortuosità del tragitto è a suo modo iniziatica, prova dopo prova, deviazione dopo deviazione, ripetizione dopo ripetizione, blocco dopo blocco: così è anche la vita che non scorre quasi mai lungo una linea retta.
Kiarostami ci porta pian piano ad osservare, ad ascoltare, a guardare con spirito di partecipazione tutto ciò che incontra. La morale di "E la vita continua" è ben spiegata dal suo titolo, ma ogni immagine, ogni dialogo è vissuto con quella partecipazione discreta che aiuta coloro che incontrano ad aprirsi.
Incontrano gente che cammina alla ricerca di un luogo dove fermarsi perché le loro case, i loro villaggi sono rimasti distrutti. Ognuno di loro ha perso qualcosa e qualcuno. A una donna il regista chiede la strada, ma lei ha un groppo in gola e racconta la propria desolazione e samrrimento.
"Ho perso 16 persone, - gli dice - sono rimaste intrappolate sotto le macerie. Mi rimane solo una casa distrutta". Il dolore entra prepotente dentro la macchina e ci lascia senza parole: solo il silenzio può accogliere una sofferenza a cui non c'è risposta né rimedio. Ma la donna non chiede consolazione, solo ascolto.
Le strade. Nella poesia classica iraniana, hanno a che vedere con l'andare, il migrare, il distacco, sono il simbolo della vita stessa, con il suo trascorrere tra gioia e dolore, tra serenità e smarrimento: le strade attraversano montagne impervie e dolci colline.
"Il mio cinema è pieno di strade. Hanno un significato profondo nella poesia iraniana perché alludono alla nascita e alla morte. Nella nostra vita, quando affrontiamo i momenti difficili, è come se superassimo delle colline, delle strade irte e difficili". Ogni strada, sostiene Kiarostami, “è colma di storie e di esseri umani che le hanno attraversate”.
"Grazie al cielo siete vivo e più giovane" ribatte il regista.
"Nessuno apprezza la vita prima di essere morto. - continua il vecchio - Se uno potesse tornare in vita dalla tomba, certamente vivrebbe meglio".
Della morte parla a Puya una mamma che ha perso la più grande di quattro figli perchè era andata a far visita alla nonna: "Dio ha voluto così". Ma il bambino rifiuta questa idea e risponde che Dio non può volere questo. Se Dio ha fermato la mano di Abramo che stava uccidendo suo figlio, come poteva voler la morte di una bambina? Puya parla a lungo alla donna e per convincerla usa argomentazioni che ha imparato dai libri e dagli adulti, in particolare da Ruhi. Alcune cose però "le ho pensate da solo" dice con orgoglio.
"Se non è stato Dio, chi allora?" chiede la donna. E il bambino con molta semplicità risponde : "Il terremoto".
Nessuno teme di parlare della morte come un bambino. E il bambino man mano impara ad accettarla e a viverla come una realtà necessaria, ben presente.

Poi quasi a cercare pace e consolazione i suoi occhi cadono sulla finestra di una casa diroccata: si apre su un prato verde illuminato dal sole. Il regista salirà su quel resto di casa a contemplare quella natura che sola può donare un po' di serenità necessaria per ritrovare il senso della vita.
Anche se nel terremoto ha perso tutto, il regista dice: “il suo stato d’animo è rimasto lo stesso. E’ per questo che in Iran questa immagine è stata il manifesto del film sulla quale avevo aggiunto: ‘la terra ha tremato, ma noi non abbiamo tremato'”

"Raccontando i piccoli episodi e i piccoli dolori della vita quotidiana, io parlo dei problemi più profondi dell' uomo".
Se la prima sosta del regista e di suo figlio è stata a Poshteh, la seconda è nell’accampamento in cui hanno trovato rifugio gli abitanti di Koker completamente distrutta dal sisma. A portare sul posto i due protagonisti è ancora una volta un personaggio del film precedente, si tratta di Mohammad Rezâ Parvâne il bambino che soffriva il mal di schiena.
Anche lui non sa niente degli altri due bambini. Ma racconta la sua tragedia personale:
"Eravamo andati dallo zio per vedere la partita di calcio alla televisione. C'è stato il terremoto. Siamo corsi fuori, i muri del cortile hanno cominciato a crollare. Una polvere spessa ci ha sommerso, era così spessa che non potevamo vedere niente. Sapevamo che lo zio stava dormendo e siamo andati a cercarlo. Abbiamo rimosso mattoni e le travi di ferro sopra di lui. Ma sapevamo che era morto".
"Hai potuto vedere la partita dopo il terremoto?" Chiede curioso Puya.
"No, ogni cosa era distrutta". I due bambini cominciano a parlare di calcio e a scommettere su chi vincerà il campionato: Brasile o Germania? Appunto, la vita continua.

Non sappiamo se il regista arriverà a raggiungere la meta del suo viaggio: è tipico di Kiarostami lasciare la conclusione del film aperta. Nella scena finale assistiamo agli sforzi dell’automobile e la fatica a salire su una strada molto ripida si fonde perfettamente con la musica (Concerto per due corni di Vivaldi) e con la calma ristabilita della natura. Kiarostami forse vuol dirci che natura, ricerca, lavoro e arte formano un insieme meraviglioso: “la ricerca è inesauribile, conosce soste, ripensamenti, nuovi tentativi, slanci, e il mancato raggiungimento dell’obiettivo preposto produce un disorientamento fecondo di possibilità. Per noi non è importante la meta che si vuole raggiungere, ma il percorso che si deve compiere”.
I ragazzi non vengono ritrovati, anche se forse appaiono in lontananza, un po’ controluce,
Inquadrata dall'alto, mentre sta per intraprendere una salita ripidissima, l'automobile del protagonista arranca, si arresta, va avanti, accelera, retrocede, scivola giù, risale. Intorno a lei, un luogo desolato. Un uomo aiuta il regista a spingere la macchina, poi riprende il suo cammino.
4 commenti:
Post fluviale,nitido e composito. Inutile dire che mi hai fatto venire voglia di approfondire la conoscenza con questo regista :-).
Salutissimi, Annarita.
il film l'ho visto quando è uscito, leggendo il post sembra che sia un capolavoro, lo confermo e dico brava a Giulia che mi ha fatto ritornare a quella magia.
Giulia, lo dico anche qui dopo averlo detto in Stanze all'aria. Scrivo dal PC di un amico perché ho problemi di connessione in rete e non posso ricevere o spedire email. Sembra che dipenda da un server della Telecom, che al 187 mi ha risposto che la cosa andrà a posto martedì...
grazie e saludos
Solimano
Di fronte alle sciagure naturali, come i terremoti e gli tsunami, i credenti in un dio personale sono in difficoltà, non sanno che atteggiamento assumere. Non è una osservazione mia, lo notarono secoli fa Voltaire e Giacomo Leopardi. Perché la provvedenzialità, dove va a finire? Né valgono discorsi come il peccato originale, si tratta di eventi del tutto naturali: succedono, senza che nessuno abbia deciso che succedessero. Ed ha ragione Domenico De Masi ad ironizzare con eleganza parlando di dio fannullone e dicendo ai lavoristi che un dio fannullone è un ottimo esempio per loro, assatanati in continuazione dal dover fare sempre qualcosa, specie se sgradevole.
Kiarostami ha osservato con attenzione soprattutto i film di Vittorio De Sica. Trovo molto in comune fra i due: uno sguardo sui bambini affettuoso e profondo, niente carinerie.
Sul resto, Kiarostami ha quel modo in fondo buonista che mi dà un po' fastidio. Non è quello che dice che mi dispiace, ma quello che omette di dire, sui pretacci e sulla condizione femminile. Tecnicamente non può fare diversamente, se vuole continuare a fare film in un paese come l'Iran, ma omettere di dire è come mentire. Però ho fiducia che attraverso il conflitto in corso in Iran possano cambiare le cose, perché l'Iran è un grande paese con una grande storia, non solo quella di un monoteismo tribalista.
La situazione di Kiarostami è simile a quella in cui si trovarono degli ottimi registi dell'Europa dell'est (Forman, Polanski). Alla fine emigrarono, e fecero bene.
grazie Giulia e saludos
Solimano
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