Carlos Santana a Woodstock
Giuliano
All’uscita da scuola, in un pomeriggio della prima metà degli anni ’70, corse voce che in un cinema di Como stava per arrivare un film su un festival rock. Fu così che anch’io decisi di andarci, e mi ritrovai nel cortile del cinema Plinio di Como insieme a tutti gli altri 15-16enni della mia generazione, quasi che ci fosse stata una chiamata generale. Me ne ricordo ancora perché si trattava di una delle mie prime “uscite” da casa, in un clima quasi sessantottino; e ne scrivo qui perché sto provando a rendere l’idea di quanto era difficile vedere un film sul rock in quegli anni.
Non era Woodstock, era il ben più modesto “Stamping ground” (Love and music, 1971), una delusione sotto tutti i punti di vista, anche se i nomi dei rockers presenti (per un raduno tenuto a Rotterdam) erano di primo piano. “Woodstock” non sarebbe mai arrivato nei cinema di Como, non in quegli anni (me ne sarei accorto), e lo avrei recuperato in parte negli anni successivi, quando ormai – a dire il vero – per me aveva perso quasi tutto il suo interesse. Io non avevo più sedici anni, e avevo preso altre strade.
Ma in tv di rock proprio non ce n’era, e neanche in radio. Di questi film si parlava come di qualche mostro favoloso, l’attesa c’era davvero, e c’era anche la voglia di uscire dal circolo vizioso delle Canzonissime e dei Sanremi. Mi ricordo ancora, sempre di quegli anni, la volta che diedero in tv “Pink Floyd at Pompei”: su Raidue (pardon: sul secondo canale), a mezzanotte, in bianco e nero. Roba da star su alzato apposta, col volume basso che se no si disturba, a guardare Roger Waters perso in chissà quali viaggi interstellari, o sussurrare “careful with that axe” a un immaginario Eugenio, tra nubi di fumo che si supponeva colorato, sullo sfondo delle rovine della città sepolta dal Vesuvio. Tutto quello che aveva a che fare col rock era circondato da un alone di disapprovazione, quasi una malattia che aveva a che fare con l’adolescenza e che sarebbe passata, si spera, senza avere a che fare con la droga...
Un mondo inimmaginabile per i sedicenni di oggi. Oggi a passare alle due di notte in tv (un nonsenso assoluto) sono i concerti di musica sinfonica, e il rock e il pop spadroneggiano a qualsiasi ora. Una vendetta della mia generazione, si direbbe: purtroppo, più prosaicamente, la verità è che il mercato ha scoperto che il rock e il pop rendevano e si potevano abbinare meglio agli spot pubblicitari; e nello stesso pentolone degli artisti “proibiti” come Jimi Hendrix, Tim Buckley e Bob Dylan, ha messo anche i reduci da Sanremo e Canzonissima, le Britney Spears, gli Albano e i Vascorossi. E anche sulla droga c’è poco da scherzare: all’epoca era una cosa tremenda, che marchiava inevitabilmente chi ne faceva uso. Oggi le droghe sono anche peggiori, però non marchiano così tanto il fisico: sono ovunque ma non si vedono, e si può far finta che non esistano anche se a farne uso è il tuo compagno di banco.
Ho rivisto di recente il film documentario sul festival rock tenuto a Woodstock nel 1969. Per chi non lo sapesse, si trattò di un evento epico: era uno dei primissimi raduni giovanili, con bande rock memorabili, preceduto dal festival di Monterey (dove Jimi Hendrix si fece conoscere, lasciando tutti a bocca aperta), e seguito dal raduno dell’isola di Wight, in Inghilterra, e dal Concerto per il Bangla Desh voluto dall’ex Beatle George Harrison. Il documentario è bello, ma penso che andrebbe rimontato: le interviste e i commenti sono il più delle volte banali o forzati, e il doppiaggio italiano è spesso fastidioso (le immagini mostrano un ragazzo o una ragazza parlare con calma e sorridere, mentre il doppiaggio enfatizza tutto inutilmente). La sequenza che preferisco, va da sè, è quella della band di Carlos Santana: anche i ritmi latinos erano, all’epoca, una novità assoluta; e quelle che mi sono rimaste di più nella memoria sono quelle relative all’immensa quantità di fango nei campi intorno al palco. Ma per me Woodstock è rimasto qualcosa di lontano: ero troppo piccolo quando si fece il festival, roba da fratelli maggiori; e del rock mi sarei stancato presto. Troppo ripetitivo, e troppa roba commerciale...
Stamping ground – Love and music (1971, Rotterdam): Byrds, Canned Heat, Soft Machine, Pink Floyd, Dr. John, Santana, It’s a Beautiful Day, Country Joe Mc Donald, T-Rex.
Woodstock (1970, USA): Richie Havens, Joan Baez, The Who, Joe Cocker, Sha Na Na, Country Joe & The Fish, Crosby Stills & Nash, Ten Years After, Santana, Sly and the Family Stone, Jimi Hendrix, Jerry Garcia... (regia: Michael Wadleigh)
Non era Woodstock, era il ben più modesto “Stamping ground” (Love and music, 1971), una delusione sotto tutti i punti di vista, anche se i nomi dei rockers presenti (per un raduno tenuto a Rotterdam) erano di primo piano. “Woodstock” non sarebbe mai arrivato nei cinema di Como, non in quegli anni (me ne sarei accorto), e lo avrei recuperato in parte negli anni successivi, quando ormai – a dire il vero – per me aveva perso quasi tutto il suo interesse. Io non avevo più sedici anni, e avevo preso altre strade.
Ma in tv di rock proprio non ce n’era, e neanche in radio. Di questi film si parlava come di qualche mostro favoloso, l’attesa c’era davvero, e c’era anche la voglia di uscire dal circolo vizioso delle Canzonissime e dei Sanremi. Mi ricordo ancora, sempre di quegli anni, la volta che diedero in tv “Pink Floyd at Pompei”: su Raidue (pardon: sul secondo canale), a mezzanotte, in bianco e nero. Roba da star su alzato apposta, col volume basso che se no si disturba, a guardare Roger Waters perso in chissà quali viaggi interstellari, o sussurrare “careful with that axe” a un immaginario Eugenio, tra nubi di fumo che si supponeva colorato, sullo sfondo delle rovine della città sepolta dal Vesuvio. Tutto quello che aveva a che fare col rock era circondato da un alone di disapprovazione, quasi una malattia che aveva a che fare con l’adolescenza e che sarebbe passata, si spera, senza avere a che fare con la droga...
Un mondo inimmaginabile per i sedicenni di oggi. Oggi a passare alle due di notte in tv (un nonsenso assoluto) sono i concerti di musica sinfonica, e il rock e il pop spadroneggiano a qualsiasi ora. Una vendetta della mia generazione, si direbbe: purtroppo, più prosaicamente, la verità è che il mercato ha scoperto che il rock e il pop rendevano e si potevano abbinare meglio agli spot pubblicitari; e nello stesso pentolone degli artisti “proibiti” come Jimi Hendrix, Tim Buckley e Bob Dylan, ha messo anche i reduci da Sanremo e Canzonissima, le Britney Spears, gli Albano e i Vascorossi. E anche sulla droga c’è poco da scherzare: all’epoca era una cosa tremenda, che marchiava inevitabilmente chi ne faceva uso. Oggi le droghe sono anche peggiori, però non marchiano così tanto il fisico: sono ovunque ma non si vedono, e si può far finta che non esistano anche se a farne uso è il tuo compagno di banco.
Ho rivisto di recente il film documentario sul festival rock tenuto a Woodstock nel 1969. Per chi non lo sapesse, si trattò di un evento epico: era uno dei primissimi raduni giovanili, con bande rock memorabili, preceduto dal festival di Monterey (dove Jimi Hendrix si fece conoscere, lasciando tutti a bocca aperta), e seguito dal raduno dell’isola di Wight, in Inghilterra, e dal Concerto per il Bangla Desh voluto dall’ex Beatle George Harrison. Il documentario è bello, ma penso che andrebbe rimontato: le interviste e i commenti sono il più delle volte banali o forzati, e il doppiaggio italiano è spesso fastidioso (le immagini mostrano un ragazzo o una ragazza parlare con calma e sorridere, mentre il doppiaggio enfatizza tutto inutilmente). La sequenza che preferisco, va da sè, è quella della band di Carlos Santana: anche i ritmi latinos erano, all’epoca, una novità assoluta; e quelle che mi sono rimaste di più nella memoria sono quelle relative all’immensa quantità di fango nei campi intorno al palco. Ma per me Woodstock è rimasto qualcosa di lontano: ero troppo piccolo quando si fece il festival, roba da fratelli maggiori; e del rock mi sarei stancato presto. Troppo ripetitivo, e troppa roba commerciale...
Stamping ground – Love and music (1971, Rotterdam): Byrds, Canned Heat, Soft Machine, Pink Floyd, Dr. John, Santana, It’s a Beautiful Day, Country Joe Mc Donald, T-Rex.
Woodstock (1970, USA): Richie Havens, Joan Baez, The Who, Joe Cocker, Sha Na Na, Country Joe & The Fish, Crosby Stills & Nash, Ten Years After, Santana, Sly and the Family Stone, Jimi Hendrix, Jerry Garcia... (regia: Michael Wadleigh)
5 commenti:
Giuliano, provo una totale, assoluta ma "sana" invidia per come sei riuscito a presentarci il film ed insieme a parlarci dei "tuoi" sedici anni, senza cadere nei sospiri e nei vagheggiamenti che costituiscono il rischio del caso. Nella mia classe del ginnasio, di Pink Floyd, di Bob Dylan e di Santana si occupavano per lo più i maschi, mentre noi ragazze eravamo divise fra Baglioni e De Andrè...
Baci&abbracci
Roby
Io mi vidi Woodstock a Lecco, alla sala Don Ticozzi (bella la scena di Carlos, quella dei CSN&Y, e quella dei figli dei fiori che si gettano nel fango e fanno il bagno nudi). Poi in un cinema di Germanedo (frazione di lecco) mi son visto il concerto dei Beatles allo Shea Stadium e quello degli Stones girato per la morte di Brian Jones. Il rock sulla pellicola rende assai bene, visto in fumose sale cinematografiche di periferia è ancora meglio, perchè catapulta "altrove".
Brianzolitudine
Giuliano, è un mondo che io ho vissuto molto poco, sia per un discorso generazionale sia perché il combinato-disposto laurea-lavoro-matrimonio-casa-figli in quegli anni mi assorbiva quasi totalmente, infatti smisi pure col jazz e sì che avevo ascoltato dal vivo il Modern Jazz Quartett, Chet Baker, Jerry Mulligan e mi piaceva il primo Miles Davis. Quando rialzai la testa, fui assorbito in toto dalla musica cosiddetta seria, specie quella da camera. Salvo un caso: Joan Baez, di cui avevo diversi dischi e un bel libro coi testi (che ho ancora). Di riflesso, Bob Dylan, di cui ho una bella registrazione di un concerto con Joan che guardiamo spesso. E mi seccò molto quando Roberto Leydi scrisse che la Baez era una specie di sopranino leggero.
saludos
Solimano
Tecnicamente è vero. Joan Baez è un sopranino leggero, con una voce chiare e ben impostata.
Leydi era molto competente, com tutti i comunisti d'epoca era serissimo nel suo impegno, sempre rivolto verso il suo prossimo e non verso quello che rendeva soldi. Oggi - dopo la Thatcher e dopo Reagan e dopo Canale 5 - tutto quello che non fa soldi è roba da buttare. E' anche per questo che l'archivio immenso di Roberto Leydi è finito in Svizzera.
Ho abbandonato presto il rock, già a 19 anni avevo cercato e ascoltato Schubert e Verdi. E prima ancora ero andato a cercare il blues “antico” , quello di Robert Johnson, e il folk inglese rivisitato dai Pentangle. Avevo tutti i dischi dei Santana, ma li ho rivenduti presto; conservo invece ancora i 33 giri di Tim Buckley, Nick Drake, Robert Wyatt, e pochi altri. Li conservo, ho comperato le ristampe in cd, ho continuato ad ascoltarli per tutti questi trent’anni, tra Schumann e Monteverdi; ma se capita, accendendo la radio, il vecchio Hendrix lo ascolto ancora con piacere, così come tutte le vecchie facce di Woodstock.
Posta un commento