lunedì 9 luglio 2007

Sfida infernale (1)

My Darling Clementine di John Ford (1946) Dal libro di Stuart N. Lake, Sceneggiatura di Sam Hellman, Samuel G. Engel, Winston Miller Con Henry Fonda, Victore Mature, Linda Darnell, Cathy Downs, Walter Brennan, Tim Holt, Ward Bond, Alan Mowbray, John Ireland Musica: Cyril J. Mockridge, David Buttolph Fotografia: Joseph MacDonald (97 minuti) Rating IMDb: 8.0
Solimano
Qualche ora fa mi sono riguardato, dopo tanti anni, My Darling Clementine (io preferisco chiamarlo così). Wyatt Earp (Henry Fonda), a differenza di Doc Holiday (Victor Mature), con le donne può essere timido. Non con tutte, difatti maltratta Chihuahua (Linda Darnell) quando fa la spia mentre lui gioca a poker. Però con Clementine Carter (Cathy Downs) Wyatt un po' ingessato lo è, sempre forte, ma evidentemente preso. A Clementine questo piace, difatti ho l'impressione che, dopo avere inseguito Doc per villaggi e ranch, le piacerebbe fermarsi, e non è che si sia stufata di Doc, ma lui la tratta troppo male. Vedere un uomo come Wyatt così gentile con lei le dà respiro, dopo tanta strada che mi ha fatto venire in mente il viaggio di Bianca Pellegrini da un castello all'altro alla ricerca dell'amato Pier Maria Rossi nell'affresco di Torrechiara. Fra una sparatoria e l'altra, Wyatt ha a che fare, oltre che con Clementine, col barbiere (ma fra le due cose secondo me c'è un collegamento), poi chiede al barista se è mai stato innamorato e il barista dà l'immortale risposta: "No, ho fatto il barista per tutta la vita". Wyatt e Clementine ballano anche insieme, al ballo di inaugurazione dei lavori per la chiesa, e c'è un'altra frase immortale: "Ho letto tutta la Bibbia, ma non ci ho trovato una frase contro il ballo". L'attore Granville Thorndyke (Alan Mowbray) è un po' gaglioffo: intanto non si ricorda tutto il monologo "Essere o non essere", e meno male che Doc, che è uno colto, gli dà una mano, lui sì che è un vero shakespeariano, poi quando parte saluta con troppo calore un po' di ragazze leggere (secondo me c'è stato qualcosa), non paga il conto dell'albergo ed al vecchietto che l'ha aiutato, quello col berretto tipo guerra di secessione, invece di dare la mancia gli dice alcuni versi, sempre di Shakespeare chiamandolo "giovane principe". Doc e Chihuahua diventano tutti e due bellissimi nel momento terribile, lui che deve operarla e lei che deve subire senza anestesia, attorno ci sono gli altri, compresi Wyatt e Clementine che assistono ammirati a quella disperata sublimità. Doc si scorda anche la tosse, in quel momento, ed è un uomo felice quando sembra che l'operazione sia andata bene, ma la ragazza muore e lui sceglie di dare una mano agli Earp contro i Clanton. La tosse gli tornerà e gli costerà la vita. Ci sono anche i musicisti nel saloon divisi fra paura delle pallottole e una gran voglia di suonare. Clementine, quando è finito tutto, decide di non andarsene ma di restare a Tombstone per aprire una scuola, mentre Wyatt le dà un bacio sulla guancia e non dice se tornerà oppure no, lascia aperta la questione. Sono già più di sessant'anni che si continua a discutere: Wyatt è tornato oppure no? Io li vedrei bene insieme, lui forte-timido, lei donna che sa sicuramente amare, di una grazia decisa. Prima di andarsene, Wyatt si volta vero di lei e dice la frase più immortale di tutte: "Ma lo sa che è un bel nome, Clementina?".
Per il resto ho rivisto quello che per me è il miglior western che sia stato fatto e ci sento tre arie, quella della prateria, quella del saloon e quella di Shakespeare, credo che Ford lo venerasse. I tanti ricordi che avevo li ho visti tradotti in visione uno via l'altro, uno attaccato all'altro, My Darling Clementine è un film asciutto, in cui tutto succede in tempi brevi, ma senza fretta, come in una tragedia classica quale è.

3 commenti:

Giuliano ha detto...

E’ divertente questa storia dei film anglo-americani dove c’è sempre qualcuno che cita Shakespeare a memoria: il monologo di Prospero, quello di Re Lear, l’Amleto, Romeo e Giulietta... Mi sono sempre chiesto se è un vezzo da vecchi attori di teatro, alla Laurence Olivier o John Gielgud, oppure se c’è davvero qualcuno che si ricorda ancora a memoria versi così complessi (in confronto, Dante è uno scherzo: anche perché l’italiano del Trecento è quasi uguale a quello del Novecento, ma l’inglese no).
La cosa curiosa è che le citazioni a memoria di Shakespeare, nei film, vengono quasi sempre da chi non te l’aspetteresti: il pistolero del Far West, l’idraulico ventenne, il vecchio ubriacone da bar che non sa più nemmeno chi è e da dove viene... (Chissà se qualcuno ha mai scritto un saggio su quest’argomento: sarebbe una bellissima tesi di laurea).

Solimano ha detto...

Per me, ci sono le citazioni perché molti le sanno, a differenza di noi.
La mia insegnante di liceo ci faceva studiare a memoria interi canti di Dante, e non la ringrazierò mai abbastanza, ancora oggi se prendo in mano un qualsiasi canto dantesco mi sembra di essere a casa mia.
Non solo, nelle campagne c'erano persone poco scolarizzate che i canti di Dante li conoscevano, si svolgevano i famosi Trebbi poetici in aperta campagna (parlo della Emilia-Romagna) nelle sere estive, si inventavano strofette ai matrimoni, si facevano piccole 8e grandi) serenate notturne.
Occhio, il mio non è un come eravamo, torneranno queste cose, già ce ne sono i segni. Il tempo non è una freccia unidirezionale, ci sono gli avanti-indietro. Infine, la poesia, e anche la grande prosa, andrebbe letta a voce alta, è una esperienza molto più completa.
I cantori dell'Odissea avevano perfettamente ragione.

saludos
Solimano

Unknown ha detto...

Ford con questo film (1946) conclude un percorso iniziato con Ombre rosse (1939). Un percorso per portare il Western alla fase della propria maturità. Il western fino ad allora era stato la rappresentazione spettacolare dello scontro tra buoni e cattivi, di inseguimenti, di indiani ululanti: insomma il western era congeniale alle immagini in movimento che tanto affascinavano i nostri nonni. I film si basavano, appunto, su elementi molto semplici, il bene il male, il buono e il cattivo: Tom Mix fu l’eroe che interpretò meglio queste storie fatte di scazzottate, di cavalcate, di inseguimenti. John Ford reinvesta il western, lo fa diventare adulto, introduce personaggi che hanno una psicologia, che sono portatori di tormenti, di ricerche esistenziali ed umane. L’azione non viene meno: in questo film non mancano certo gli elementi avventurosi classici del western, ma appunto Ford mette in gioco gli individui. Individui alla ricerca della loro esistenza dentro una ricerca più grande che riguarda l’America. Wyatt Earp, Doc Holiday non sono altro che due facce della stessa medaglia. C’è nella figura di Doc una continuità con la prostituta Dallas di Ombre rosse. Entrambi sono segnati da un destino che non lascia spazi. Anche se la loro sorte sarà diversa, entrambi rappresentano la tragicità della propria esistenza: una segnata dal “mestiere” e, quindi, dalla emarginazione a cui nemmeno Ringo riuscirà a porre rimedio per cui saranno costretti ad andarsene, l’altra segnata sì dalla malattia, ma prima ancora dallo scontro con un mondo (l’est) che rifiuta chi va fuori degli schemi. Entrambe troveranno nel selvaggio west una loro legittimazione ed è attraverso questi personaggi che Ford ci racconta di una frontiera che ha un rapporto conflittuale con la borghese america dell’est. Da un lato sono quelli che scoprono nuovi territori, che cercano nuovi spazi e nuove opportunità, che si sentono avanguardie di una nazione che crede nel proprio destino, che portano l’ordine, la legge, dall’altro sono quelli che fuggono dalla società complessa dell’est. Cercano gli ultimi scampoli di una stagione che la modernizzazione travolgerà entro breve. Non stupisce dunque che Doc Holiday declami i versi dell’Amleto. C’è in questo atto tutto l’amore/ odio verso il “proprio mondo” da cui sa di non poter fuggire: sarà sempre –anche ad un tavolo da gioco o brutalizzando Chihuahua –un uomo di cultura, un uomo che sa vedere anche la piccolezza del proprio mondo. Ma sia Doc che Earp non sfuggono al loro destino: Earp fa ciò che deve in nome della legge, Doc fa ciò che deve in nome della sua coerenza verso ciò che è stato: ribelle ma dalla parte della giustizia, non poteva essere diversamente. Dunque un film che scava dentro i personaggi, che apre il western alla “cultura”. Non solo un film d’avventura, ma il western come terreno dove sondare le inquietudini, dove ragionare del destino del paese, dove interrogarsi sulla evoluzione di una società che sta entrando nella storia da protagonista. Tutto questo fa grande John Ford. Poi ci sono i “quadri” all’interno dei quali Ford racchiude delle vere e proprie chicche: Solimano ha già ricordato la famosa frase del barista, ma come dimenticare i fratelli di Earp? Come dimenticare la scena del ballo? E come dimenticare il clima rarefatto della domenica in cui Earp tutto tirato a lucido si dondola sulla sedia? Insomma assolutamente geniale. Da ultimo un cenno a Walter Brennan che qui interpreta il ruolo del cattivo Clanton. La storia professionale di Brennan va in senso esattamente opposto, ma qui Ford gli da possibilità di dimostrare le sue grandi capacità di attore e lui sarà un grande cattivo, assolutamente nel ruolo.