lunedì 30 aprile 2007

Braveheart

Braveheart di Mel Gibson (1995) Sceneggiatura di Randall Wallace Con Mel Gobson, James Robinson, Sean Lawlor, Sandy Nelson, Sophie Marceau, Brian Cox, James Cosmo, Catherine McCormack Musica: James Horner Fotografia: John Toll Costumi: Charles Knode (177 minuti) Rating IMDb: 8.3
Giuliano
Mel Gibson è un bravo attore e ha girato film piacevoli e anche importanti, soprattutto quelli con Peter Weir all'inizio della sua carriera; ma in questi giorni ritrasmettono in tv Braveheart, il suo primo film da regista, e mi torna alla memoria lo sgomento con il quale ho assistito alla sua prima proiezione, quand'era appena uscito. Eh già, perché poi è uscito il suo film sulla Passione di Cristo, ma prima (1995) Mel Gibson aveva girato Braveheart. Un buon film, intendiamoci: ma quanta violenza gratuita... Ancora non sono riuscito a dimenticare la scena in cui il cattivo inglese sgozza la moglie di Braveheart, prologo e giustificazione a guerra e tremenda vendetta. Una scena molto cruda e realistica, degna dei rapitori di giornalisti in Iraq: ma, almeno, le nostre tv quei video ce li hanno risparmiati. Lo spettatore di Braveheart, invece, quella sequenza (molto realistica) se la deve proprio vedere: fino all'ultimo, infatti, si spera che - secondo l'usanza - al momento opportuno la macchina da presa sfumi. Invece no: la povera ragazza indifesa viene proprio sgozzata davanti ai nostri occhi; e questo spiega molto - molto più di tanta pretesa filologia teologica - cosa abbia voluto fare Mel Gibson dirigendo poi la sua troppo famosa Passione di Gesù...Per quanto riguarda il resto, "Braveheart- Cuore impavido" è un soggetto che richiede castelli, paesaggi scozzesi e battaglie: e tutte queste cose ci sono, Gibson non si tira di certo indietro e questo va a suo merito. Ma io ho ancora nella mente Stanley Kubrick, Akira Kurosawa, e anche il Mahabharata di Peter Brook: le battaglie di Braveheart sono ispirate (posso dire: copiate?) a quelle di Spartacus, di Ran e di Kagemusha, ma non sono la stessa cosa. Avrei preferito, piuttosto, veder recitare fino alla fine l'attrice che faceva la parte della moglie di Braveheart, era molto carina ma Gibson me l'ha tolta di torno dopo mezz'ora. Che peccato: come si chiamava? Ho cercato il suo nome ma non sono riuscito a trovarla...

Indovina chi viene a cena

Guess Who's Coming to Dinner di Stanley Kramer (1967) Sceneggiatura di William Rose Con Spencer Tracy, Sidney Poitier, Katharine Hepburn, Katharine Houghton, Cecil Kellaway, Beah Richards, Roy Glenn Musica: Franck De Vol Fotografia: Sam Leavitt (108 minuti) Rating IMDb: 7.7
Roby
C’erano una volta i cinema parrocchiali. Di solito avevano le poltroncine dure e scomode, spesso di legno (ebbene sì, a questo mondo bisogna soffrire!), lo schermo sembrava un lenzuolo rattoppato e al bar c’erano solo patatine stantìe: ma io li rimpiango ancora, con tutte le mie forze! Fu in uno di questi ameni localini che –accompagnata dalla zia di cui già vi ho parlato- vidi, in terza o quarta visione, “Indovina chi viene a cena”. Erano gli albori degli anni ’70, e avevo sentito parlare di razzismo sì e no due volte in vita mia: la prima, leggendo “La capanna dello zio Tom” a 8 o 9 anni, la seconda, seguendo in TV la cronaca dell’assassinio di Martin Luther King. Le mie idee, all’epoca, erano già chiarissime: se ad una ragazza piaceva un ragazzo e viceversa, non contava se la pelle dell’uno fosse bianca e quella dell’altro nera, gialla o verde a strisce blu. L’importante era l’Amore con la A maiuscola. Punto e basta. Quindi, non mi era poi tanto chiaro perché fosse stato necessario fare un intero film su tutta la faccenda. Per quanto mi riguardava, Sidney Poitier era molto carino, e se “da grande” avessi incontrato un tipo così, l’avrei invitato non solo a cena, ma a pranzo, a colazione e magari anche a merenda… Ho rivisto il film in TV a metà degli anni ’80, a casa con mamma, babbo e sorelle. Era un periodo di grande crisi con nostro padre, che noi figlie consideravamo “tout court” un tiranno. Ci faceva imbestialire soprattutto la sua teoria secondo la quale, dato che lui aveva fatto tanto per crescerci ed educarci, noi gli dovessimo cieca obbedienza per il resto della nostra vita. Quindi le parole di Poitier, quando -al padre che gli rinfaccia i sacrifici sopportati per farlo studiare- replica lucidamente: “Io sono tuo figlio, ti voglio bene, ma non ti ho chiesto io di nascere, e tutto ciò che hai fatto per me ERA TUO DOVERE farlo, e basta!” suonarono come musica alle nostre orecchie. Quella sera parlammo per ore, nella nostra cameretta a tre letti, e ci addormentammo con la convinzione di essere delle martiri nelle mani di uno squilibrato filo-nazista. Povero papà, che giudizio crudele sul suo operato!!!… E siamo così giunti ai giorni nostri. Stavo stirando la solita pila di panni, poche settimane fa, e su un canale minore cos’ho beccato? Di nuovo la storia degli anziani genitori che hanno educato la figlia ai più alti valori di giustizia ed eguaglianza sociale, per poi rischiare l’infarto vedendosi presentare un futuro genero di colore. Con un occhio al televisore e l’altro alla biancheria, stiravo e guardavo, guardavo e pensavo. Riflettevo che, a distanza di 35 anni dalla “prima” visione dello stesso film, ora tendevo ad identificarmi più con la madre che con la figlia, per evidenti ragioni anagrafiche: questo mi inteneriva, da un lato, e dall’altro m’innervosiva, sempre per le ragioni di cui sopra. Ma non solo: mi accorgevo solo adesso che il film, apparsomi così dichiaratamente antirazzista decenni prima, tutto sommato non lo è poi tanto, rivisto con l’ottica del 2007. Ad esempio, perché i due innamorati bi-colori non si baciano mai, e quasi non si sfiorano nemmeno, neppure quando sono inquadrati da soli? E poi, perché la ragazza è una semplice giovane donna di normale intelligenza, mentre il personaggio di Poitier è un medico plurilaureato autore di non so quante pubblicazioni scientifiche e possessore di un cervello degno di Einstein? Erano queste le qualifiche MINIME richieste, all’epoca, ad un nero per risultare credibile come partner di una bianca? Passavo e ripassavo camicie e tovaglie col ferro caldo, lanciando occhiate al piccolo schermo, da cui Spencer Tracy e Katharine Hepburn sembravano ammiccare proprio a me. “Lo vedi, com’è difficile fare i genitori?” sembravano dirmi, sornioni “Ormai lo sai anche tu! E allora, di’ la verità: oggi come oggi, non saresti un po’ più indulgente, con quel pover uomo del tuo babbo?”
P.S. Alcune immagini discrete si trovano qui: http://flattland.com/index.php?entry=entry070113-110906

domenica 29 aprile 2007

Io ballo da sola

Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci (1995) Sceneggiatura di Susan Minot Con Liv Tyler, Joseph Fiennes, Jason Fleming, Jeremy Irons, Carlo Cecchi, Sinéad Cusack, Stefania Sandrelli Musica: Richard Hartley Fotografia: Darius Khondji (113 minuti) Rating IMDb: 6.2
Giuliano
Un mio collega, quando uscì il film, me lo sintetizzò così: "c'è una ragazza che vuole perdere la verginità, e alla fine ci riesce". Una sintesi un po' rozza, d'altronde quel mio collega non era una cima; e quantomeno aveva apprezzato il film perché molto bello. La cosa preoccupante è che la gran parte della critica, sui giornali e in tv, non si era allontanata molto da questa sintesi. Cosa ha fatto Bertolucci con "Io ballo da sola", al di là della storia che vi è raccontata? Il film potrebbe essere ribattezzato "La morte e la fanciulla", come il lied di Schubert; ed è la rappresentazione moderna di una Vanitas, genere pittorico tipico del Seicento del quale è tipico e magnifico rappresentante il quadro di Cagnacci. C'è tutto, di quel quadro e della Vanitas, nel film di Bertolucci: al centro, la ragazza giovane e fiorente; e, nei dintorni, il tempo che passa e tutti i suoi segni. Non è casuale la scelta di Liv Tyler, all’epoca giovanissima: non una ragazzina esangue, pallida e sognante, ma alta, forte e robusta – proprio come la giovane donna al centro del dipinto di Cagnacci. Ricordo una recensione d’epoca, penso che fosse quella di Lietta Tornabuoni sull’Espresso, dove si sottolineava come un errore la scelta di questa ragazza “dalle caviglie grosse”, eccetera. Questo significa non aver capito il film, non è la prima volta che capita e ogni tanto mi ritrovo a pensare che dev’essere ben triste fare il critico cinematografico di professione: ti tocca andare a vedere anche i film che non avresti voglia di vedere, magari nella sera sbagliata. Capita anche a noi, ma almeno non siamo costretti a scriverne il giorno dopo... A questo punto devo confessare un mio peccato grave: all’epoca dell’uscita del film non ero andato a vederlo, l’ho recuperato in tv anni dopo. Non mi ero fidato di Bernardo Bertolucci, e ho sbagliato. Di Bertolucci bisogna fidarsi sempre: ha sempre ragione lui, magari ha girato un film diverso da quello che ci aspettavamo, ma sa sempre quello che fa e perché lo fa; e ha una capacità professionale così grande che lo mette al riparo dalla mancata riuscita. E, dunque, attenti: quando guardate un film di Bernardo Bertolucci state bene attenti, pensateci sopra, e non limitatevi alla prima impressione.
P.S. Liv Tyler può aspettare, avremo modo, inserisco la Vanitas di Guido Cagnacci e ne scrivo nei commenti (s.)

Il primo mese del blog

Solimano
Il 21 marzo ho inserito il primo film nel blog, quindi è passato poco più di un mese.
Ho capito alcune cose che scrivo in modo non sistematico.
Lo strumento blog, a cui non ero abituato, ha pregi e limiti.
E' facile da imparare, questo è il primo pregio; il secondo pregio è più importante: non ci si deve preoccupare di certe cose, il software le fa da solo, ad esempio inserisce immagini grandi che nel blog appaiono piccole, ma ridiventano grandi con un click. E' comoda anche la gestione delle etichette, che è una archiviazione intelligente: non è una novità, i date base relazionali e le viste logiche esistono da vent'anni, però l'automaticità è vantaggiosa, perché tutto il tempo sottratto alla scrittura lo vedo come tempo perso: meno ce n'è più contento sono.
Ci sono dei guai in questo software free, ed alcuni ci sono capitati. Credevamo che dipendessero dalla nostra imperizia, ma erano proprio errori esistenti nel software, infatti quando li abbiamo segnalati abbiamo notato che anche altri lo avevano fatto. Alcune cose si sono sistemate, altre no. Credo che le persone che lavorano oggi su questi software siano prese dalle modifiche tecniche a un punto tale da non rendersi conto che l'utente ha priorità diverse dalle loro: non aspira a divenire un giocoliere di link. Sull'entusiasmo per la linketterìa, rimango freddo, la cosa importante è scrivere un post che abbia valore aggiunto, il resto è un nice to have.
A regime ogni Spettatore caricherà direttamente i post nel blog, alcuni già lo stanno facendo. Al post si aggiungono le righe informative IMDb e l'immagine; se se ne trova una migliore la si cambia facilmente.
Questo è un multiblog, non un blog, e tale sarà anche in futuro. Ognuno sceglierà i suoi film, non c'è nessuna linea editoriale, c'è invece un accordo su tre punti.
Il primo è di sapere scrivere decorosamente, e credo che ci siamo.
Il secondo è che non siamo dei Critici ma degli Spettatori che raccontano perchè quel film è un amico.
Il terzo è che le polemiche non servono a niente, quindi ognuno dica la sua con chiarezza, punto e basta. Il che non vuol dire pensarla alla stessa maniera: siamo diversi e ci va bene esserlo.
Più o meno, siamo in una decina di Spettatori, metà maschi metà femmine. Gli Spettatori avranno continuità di collaborazione, ognuno in funzione dei suoi tempi e dei suoi impegni, potrà accadere che un giorno escano quattro film e poi per due giorni non ne esca nessuno, non è certo un grosso guaio.
Poi vorremmo degli Ospiti, su invito o su richiesta. Pubblicheremo i loro film, il trattamento è del tutto analogo a quello degli Spettatori, l'unica differenza è la continuità: un Ospite magari scrive tre film in una settimana, e poi non ne scrive più per sei mesi. Che questo sia un multiblog per noi è importante, significa cultura inclusiva, che è una cosa in cui crediamo.
Più scrivo dei post sui film, più mi vengono in mente altri film, che erano in sonno nella mia testa, credo che agli altri Spettatori succeda la stessa cosa. Io non mi faccio scrupolo di inserire film che so che quasi nessuno ha visto: se a quel film credo, perché non parlarne? Magari qualcuno decide di vederlo, e mi farebbe piacere. Ognuno spazierà avanti e indietro nel tempo e nel genere di film e quando l'umore e l'amore c'è, allora ne scriverà.
A breve introdurremo un contatore di visite consultabile anche dai passanti, cercheremo di sistemare alcuni inconvenienti software di cui ho già accennato, andremo avanti col caricamento diretto dei film da parte degli Spettatori, corteggeremo alcuni possibili Ospiti non per bisogno ma per piacere nostro e loro, inseriremo nei commenti alcune recensioni a caldo, pubblicate appena uscirono i film, continueremo nella caccia di belle immagini, sperando di trovare qualche miniera, come è già successo.
Ci risentiremo fra un mese, e molte grazie a chi ci viene a trovare e ci legge o da commentatore o da lurker.
P.S. L'immagine che metto sopra il post è quella di una ragazza assai mal vestita, però, a guardarla bene, ci viene in mente una nostra amica di questi giorni... sì, è proprio lei!

sabato 28 aprile 2007

Casablanca

Casablanca di Michael Curtiz (1942) Sceneggiatura di Murray Burnett, Joan Alison, Julius J. Epstein, Philip G. Epstein, Howard Koch Con Humphrey Bogart, Ingrid Bergman, Paul Henreid, Claude Rains, Conrad Veidt, Peter Lorre, Dooley Wilson, Joy Page Musica: Max Steiner Fotografia: Arthur Edeson (102 minuti) Rating IMDb: 8.8
Roby
Un giorno o l’altro devo proprio andarci, in Marocco, per vedere se a Casablanca sia rimasta traccia del bar di Rick, e se nel souk del vecchio centro si aggirino ancora furtivamente profughi europei, alla spasmodica ricerca di un lasciapassare per volare finalmente verso la libertà. A me il candore della giacca di Humphrey Bogart, seduto al banco del suo locale con l’immancabile sigaretta pendente dal labbro inferiore, fa letteralmente impazzire. E la lucentezza dei capelli e degli occhi della Bergman - che in quello stesso locale fa il suo ingresso, non si sa bene quanto inaspettato- mi colpisce ogni volta, più che se il film fosse in technicolor. Per me “Casablanca” non è affatto un normale film in bianco e nero: è semplicemente una pellicola “non colorata”, dove –come in uno di quegli album molto in voga fra i bambini dell’asilo- le sagome dei personaggi si possono riempire con le tinte preferite, magari pasticciandole un po’ a proprio piacimento. Anche a me vien voglia di “pasticciare” parlandoci a quattr’occhi, con Rick, perché la faccia finita di fingersi cinico e distante, permettendo a Sam di suonarla più spesso, quella famosa canzone. E potrebbe pure sbilanciarsi, una volta tanto, fino a dare una mano al povero Peter Lorre, in una delle scene iniziali, per aiutarlo a salvare la pelle! Allo stesso modo, sussurrerei all’orecchio di Ilsa che, alla fin fine, Laszlo sarà nobile, alto, intelligente e patriottico, ma… vogliamo mettere lo sguardo con cui l’avvolge Rick, vedendola entrare??? Bambina, dammi retta: saluta Laszlo sulla scaletta dell’aereo e torna indietro, che i bei tempi di Parigi possono tornare, solo che tu lo voglia… Così come bacerei con lo schiocco su tutte e due le guance il capitano Renault di Claude Rains , quando nel finale alza la cornetta del telefono e dice, sornione:”Il maggiore Strasser è stato ucciso -(pausa ad effetto)- Fermate i soliti sospetti”.

Una curiosità: pochi giorni fa mi è capitato fra le mani un numero recente di TOPOLINO in cui i personaggi Disney “interpretano” il remake di “Casablanca”. Topolino è Rick, Minnie la sua amata, Orazio è Laszlo e Gambadilegno (c’è bisogno di specificarlo?) il malvagio nazista. Il fumetto, in uno splendido bianco e nero, è un ulteriore omaggio ad una delle colonne della cinematografia di tutti i tempi: con la differenza che nell’ultima vignetta Minnie e Topo-Rick restano insieme, benchè ammettano candidamente che forse si sono un po’ confusi e che la storia originale era un po’ diversa. Però - concludono, per la felicità dei "piccoli lettori" di tutte le età- in fondo cosa importa? A loro ( e a me) va benissimo così.

La bisbetica domata

The Taming of the Shrew di Franco Zeffirelli (1967) Con Elizabeth Taylor, Richard Burton, Cyril Cusak, Vernon Dobtcheff, Natasha Payne, Michael York Musica: Nino Rota Fotografia: Oswald Morris Costumi: Danilo Donati (122 minuti) Rating IMDb. 7.1
Giuliano
Richard Burton e Liz Taylor erano due attori magnifici, così per il puro piacere di vederli recitare decido di guardarmi “La bisbetica domata” diretta da Zeffirelli. Sorpresa: il film è bellissimo, e molto godibile. D’altra parte, rifletto, non è poi così strano: Zeffirelli ha sempre saputo fare bene il suo mestiere, e in quel 1967 era nel suo periodo migliore. In più, “La bisbetica domata” non è l’Amleto: Shakespeare si diverte e vuol far divertire, è l’occasione di fare festa, per gli attori e per il pubblico. Non è un testo su cui ci sia molto da scrivere o da riflettere, come per La Tempesta o per il Mercante di Venezia, o l’Otello; perciò mi abbandono al piacere del testo, della recitazione, della regia e passo ottanta minuti della mia vita divertendomi molto.
Ma a film finito c’è una cosa che mi disturba, e subito capisco cos’è (ormai sono fatto così, mi dovete scusare). E’ che in questo film i servi sono servi, e i padroni sono padroni. C’è una differenza netta e marcata nei loro comportamenti, e ovviamente non è colpa di Zeffirelli: è che così andavano le cose, e sono andate avanti per moltissimi secoli. Dubito che fosse davvero così nella realtà, ma in quest’opera sembra davvero che i servi siano nati servi e i padroni siano nati padroni (pardon, “nobili”), quasi che siano dure razze diverse e ben riconoscibili, come l’asino e il cavallo, insomma. E’ una rappresentazione non sgradevole, tanto da apparire fluida e naturale anche a me che sto guardando il film. Forse vent’anni fa non me ne sarei accorto, oggi ci faccio caso sempre più spesso. E’ un mondo che piace a molti, questo, sia ai padroni che ai servi: ma per chi non si riconosce in nessuna delle due categorie (pardon, “razze”) la vita è sempre stata molto dura, sia al tempo delle Regina Elisabetta Prima che oggi sotto Elisabetta Seconda; abbiamo vissuto un breve intervallo, ma oggi si sta tornando all’ordine antico – e forse naturale, almeno secondo alcuni (quelli che comandano, naturalmente…)

Pleasantville

Pleasantville di Gary Ross (1998) Con Tobey Maguire, Reese Witherspoon, William H. Macy, Joan Allen, Jeff Daniels, J. T. Walsh, Marley Shelton, Jane Kaczmarek Musica: Randy Newman Fotografia: John Lindley (124 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
Siamo negli anni cinquanta. A Pleasantville gli studenti hanno una loro squadra di basket che si allena in palestra durante la settimana, e a un certo punto tirano quasi contemporaneamente la loro palla a canestro da qualsiasi posizione, anche molto distante: tutte le palle fanno canestro. Il sindaco gioca a bowling, ogni volta i birilli vanno giù tutti al primo colpo, va dal barbiere, quello che è sotto le forbici si alza e gli cede il posto, contento di farlo. A Pleasantville ci sono i pompieri, ma non scoppiano incendi, quindi i pompieri non avrebbero nulla da fare, ma ogni giorno c’è qualche gatto che non sa come scendere dalla pianta: il giorno che un albero si incendia, per farli muovere si deve urlare “Al gatto!”, non “Al fuoco!” A Pleasantville ogni casa ha il bagno, solo che nel bagno non c’è il water: i bisogni bassi non esistono. Gli innamorati camminano tenendosi per mano, alla sera hanno un loro posto per andarci in macchina, ma non fanno niente, neppure si baciano: non si fa sesso a Pleasantville. Né ci sono colori, tutto in bianco-nero, anzi, in grigio-grigio. La biblioteca è ricca di libri, tutti con le pagine rigorosamente bianche. Solo che un giorno, per strano caso, irrompono attraverso la TV un ragazzo e una ragazza di oggi, David e la sorellastra Jennifer, che guardavano la solita sit-com ambientata a Pleasantville appunto negli anni cinquanta, e per gli abitanti sono guai, perché cominciano a provare dei desideri: di baciare, ad esempio, di non fare tutti i giorni le stesse cose del giorno prima, di avere un letto grande, così le coppie stanno vicine. La mamma putativa - quella di Pleasantville - di David inizia una storia col pizzaiolo, il padre putativo, quando rientra dal lavoro, ha un bel dire “Tesoro, sono a casa!”, la casa è vuota e la cena non è pronta. Jennifer passa a vie di fatto con l’innamorato abituato alla mano nella mano, ed è lì che cominciano ad apparire i colori, prima in cose: una foglia, una mela, un ombrello, poi in persone, che all’inizio si vergognano, ma finisce per piacergli. Nei libri ricompaiono i caratteri, persino le immagini a colori. Giustamente il sindaco di Pleasantville si preoccupa: sarà meglio istituire comitati di cittadini probi, i valori comuni vanno difesi, perché succedono fatti gravi: c’è qualcuno che non trova pronta la cena, c’è uno che ha la camicia bruciata sulla schiena con l’impronta del ferro da stiro. Occorre introdurre delle regole precise, chiudiamo ad esempio pizzeria e biblioteca in attesa che si calmino le acque; altro esempio, i letti non superino la larghezza di un lettino da campo, perché c’è il rischio di soffrire, con i desideri può succedere di tutto. D’altra parte, hanno sempre fatto così, perché cambiare una vita assestata? Servono reazioni, quindi si brucino libri, si spacchino i vetri dei colorati, si metta dentro chi dipinge sui muri. Si arriva ad un vero e proprio processo, i grigi-grigi in platea, i colorati in galleria. Ma il colore è un contagio terribile, qui e là cominciano a farsi colorati anche quelli della platea. David è abilissimo: fa in modo che il sindaco se la prenda, si scaldi, e il sindaco abbocca, a un certo punto diventa colorato anche lui, dalla rabbia che prova. Poco dopo finisce il film, perché David rientra nella vita di oggi, e consola la madre reale che ha problemi seri, però David le asciuga le lacrime. Jennifer invece rimane dall’altra parte dello schermo: farà l’università, ha scoperto che i libri colorati le piacciono quasi più dei baci. Il film è parente stretto, oltre che de “La Rosa Purpurea del Cairo” di Allen, anche de “Il cielo sopra Berlino” di Wenders e di “Fahrenheit 451” di Truffaut. Hanno accusato Gary Ross di avere fatto un film buonista, invece “Pleasantville” è una favola intelligente e acuminata: il padre di Ross fu perseguitato all’epoca di MacCarthy e dei comitati rivolti a perseguire le cosiddette attività anti-americane. In questo film si prende una onesta vendetta, ridicolizzando i persecutori del padre, per me è come se ci dicesse così: “ Non fatevela raccontare, abbiate una vostra opinione e mettetela in piazza, gli assenti dalla vita sono quelli che dicono che va tutto bene e che non bisogna cambiare niente”. Pleasantville ha avuto successo quasi dappertutto, un po' meno in un paese in cui trecento maschi anziani e celibi pretendono di decidere usi e costumi per tutte le coppie, la cosa sarebbe da riderci su, ma a diversi appare normale: sono quelli a cui "Pleasantville" dà molto fastidio.

venerdì 27 aprile 2007

Intervista col vampiro

Interview with the Vampire: The Vampire Chronicles di Neil Jordan (1994) Sceneggiatura di Anne Rice Con Tom Cruise, Brad Pitt, Kirsten Dunst, Stephen Rea, Antonio Banderas, Christian Slater Musica: Elliot Goldenthal Fotografia: Philippe Rousselot (123 minuti) Rating IMDb: 7.2
Roby
Una premessa è d’obbligo: se c’è un genere cinematografico che detesto, quello è l’horror. Sono così poco propensa a seguire storie di suspense e paura che spesso rinuncio a vedere persino semplici thriller, perché finisco con l’immedesimarmi tanto nei protagonisti perseguitati, inseguiti e magari fatti a pezzettini da stare male insieme a loro. Quindi, la mia predilezione per “Intervista col vampiro” potrebbe suonare strana a chi mi conosce anche solo superficialmente. Qualcuno potrebbe attribuirla alla presenza di bellocci come Cruise, Pitt e Banderas (senza dimenticare il non disprezzabile Christian Slater, già giovane monaco Adso nel “Nome della rosa” di Annaud): ma no, non è per questo, benchè -da brava signora matura- io non sia affatto insensibile al fascino di tanta bellezza maschile messa insieme in una sola pellicola. Il fatto è che mi è capitato di intravedere questo film, per la prima volta, in un passaggio semi-notturno su Rete4, a storia già iniziata, e di averlo scambiato per un film in costume di tutt’altro genere. Era la sera di un giorno per me molto faticoso, trascorso ad assistere babbo e mamma già seriamente malati e a parlare con i medici della loro tragica situazione: quindi, una volta scoperta –dall’osservazione di quanto prominenti fossero i canini di Tom Cruise- la natura orrorifica della storia narrata, tuffarmici dentro fu una sorta di catarsi notturna dai drammi vissuti in prima persona alla luce del giorno. Cosa poteva esserci di più orribile e spaventoso del sapere con certezza che il cervello di mio padre si stava lentamente decomponendo? E che mia madre avrebbe finito i suoi giorni paralizzata a letto? Vedere vampiri che succhiavano il sangue dei topi, in mancanza di quello umano, avvolti in mantelli di velluto neri come la notte in cui silenziosamente scivolavano, era quasi consolatorio; seguire le loro peregrinazioni, da un continente e da un’epoca all’altra, tra sontuosi palazzi e sordidi bassifondi, mi distraeva dalle mie tribolazioni più di un film comico, nel solco –se mi è concesso l’ardito paragone- della tradizione tragica classica, quando il pubblico di Atene assisteva tutto felice e contento, “divertendosi” un mondo, alla morte di Ifigenia sacrificata dal padre, all’assassinio di Agamennone per mano della moglie Clitemnestra e del suo amante, e così via. Ma, a parte questo, scene come la rappresentazione teatrale della compagnia vampiresca, nel sottosuolo di Parigi, sono un affresco indimenticabile, che affascina e mette i brividi. E la piccola (allora aveva solo 12 anni) Kirsten Dunst, futura fidanzata di “Spiderman”, è talmente brava ad esprimere i sentimenti di una donna imprigionata per sempre nel corpo di una bimba da fare paura davvero, più per questo che per i suoi denti aguzzi e insanguinati. La storia e la notte proseguirono di pari passo, sino al finale grottesco, ambientato ai nostri giorni: perché i vampiri, sappiatelo, sono immortali, a meno che non vengano colpiti dalla luce del sole. E tale è la sorte che tocca alla vampira-bambina e ad una sua più matura compagna, ritrovate abbracciate ed ormai incenerite dai raggi micidiali sul fondo di un pozzo: scena, questa, che in quella sera così “speciale” ebbe il potere di commuovermi fino alle lacrime, leggendo in essa –più o meno inconsciamente- la prefigurazione di ciò che di lì a poco mi attendeva.
P.S. Ci sono diversi siti e blog con un buon corredo di immagini tratte da questo film, uno ad esempio è questo, incentrato sulla bambina: http://www.youngactressreviews.org/mini_reviews/images.php?id=interview_with_the_vampire poi c'è questo che contiene immagini grandi: http://moviescreenshots.blogspot.com/2006/08/interview-with-vampire-vampire.html

La regola del gioco

La Règle du jeu di Jean Renoir (1939) Sceneggiatura di Jean Renoir, Carl Koch Con Nora Gregor, Paulette Dubost, Mina Parély, Odette Talazac, Claire Gérard, Anne Mayen, Jean Renoir, Marcel Dalio Musica: W. A. Mozart (Dodici danze tedesche K605 n.1) Fotografia: Jean-Paul Alphen, Jean Bachelet, Jacques Lemare, Alan Renoir (110 minuti) Rating IMDb: 8.0
Giuliano
- Cornelio, facciamola finita con questa commedia!
- Quale delle tante, signore?
Questa battuta, detta al Marchese de la Chesnay dal suo maggiordomo durante una delle sequenze più divertenti e movimentate della storia del cinema, me la porto dietro da sempre, o almeno da quando ho visto per la prima volta da “La regola del gioco” di Jean Renoir.
E’ un film che inizia con un aviatore che compie un’epica trasvolata, e vorrebbe dedicarla alla donna che ama: all’aeroporto ci sono tutti, c’è il suo amico Octave e c’è anche la radio in diretta (la tv non esisteva ancora), ma lei non c’è. Il valoroso aviatore sfoga tutto il suo disappunto e la sua amarezza, inutilmente consolato dall’amico. Ma la donna amata dall’aviatore è sposata: è la moglie del Marchese. Non è per questo che non è venuta all’aeroporto, figuriamoci: è che l’aviatore l’ha presa un po’ troppo a cuore, questa storia. Più tardi, infatti, tutti quanti si troveranno insieme nella grande tenuta del Marchese, invitati a una battuta di caccia e alla festa che seguirà, con una moltitudine di invitati.
Quale è “la regola del gioco”? Renoir non ce lo dice apertamente, ma alla fine si arriva a capirlo: la regola del gioco è di non prendere niente troppo sul serio: nemmeno l’amore, figuriamoci. Vi si attengono tutti i personaggi, anche quelli più buffi e più piccoli: l’unico che non vi si attiene è proprio Jurieu, l’aviatore, che farà una brutta fine. Ma la vita andrà avanti lo stesso, il Marchese si adopererà affinché tutto sembri un increscioso incidente e nessuno ne debba subire le conseguenze; e così è stato, in fin dei conti è proprio questa la verità.
Non è un film facile da vedere, anche se è molto divertente. E’ un film che va visto diverse volte per poterne cogliere tutti i particolari, ed ogni volta lo si rivede con piacere crescente. Non è facile prima di tutto per la grande quantità di personaggi, dal Marchese all’aviatore al guardacaccia al bracconiere; hanno tutti la stessa importanza, e partecipano alla commedia in una “folle journée” chiaramente ispirata a Mozart, al Don Giovanni e alle Nozze di Figaro. Non è facile per la crudezza della lunga sequenza della caccia: siamo nel 1939, e Renoir sta facendo terribilmente sul serio quando ci mostra l’agonia di lepri e fagiani. E’ una durezza inattesa, un colpo allo stomaco nel mezzo di un film che fino allora era una commedia sentimentale; ma Renoir, a differenza di tanti altri, non è estraneo al momento storico in cui vive, ed evidentemente era bene informato di cosa succedeva nel mondo. E’ di questo che ci sta parlando. Altri due personaggi vacillano, sulla regola non detta: la Marchesa stessa, e Octave, al quale ad un certo punto sembra schiudersi un attimo di felicità, uno spiraglio che subito si richiude. Octave è Jean Renoir stesso, con la sua buffa faccia da omino di neve: un personaggio meraviglioso, sempre ai margini ma sempre presente, protagonista ma con discrezione. E poi c’è la sequenza della festa, che io incornicerei e mi porterei sempre dietro: ma come si fa ad incorniciare una sequenza di un film? C’è Octave vestito da orso, come se fosse un film dei fratelli Marx, e c’è la Danse macabre di Saint Saens, danzata da buffi scheletri ed eseguita da un pianoforte che suona da solo, come se davvero fosse un suono che viene dall’aldilà; ed invece è solo un pianoforte a rulli, che la pianista guarda con sospetto e anche con ammirazione.

giovedì 26 aprile 2007

Colazione da Tiffany (1)

Breakfast at Tiffany's di Blake Edwards (1961) Dal racconto di Truman Capote, Sceneggiatura di George Axelrode Con Audrey Hepburn, George Peppard, Patricia Neal, Buddy Ebsen, Martin Balsam, José Luis de Villalonga, Johm McGiver, Mickey Rooney Musica: Henry Mancini Fotografia: Franz Planer, Philip H.Lathrop (115 minuti) Rating IMDb: 7.8
Habanera
Non è stato un amore a prima vista. Non che non mi fosse piaciuto quando l' ho visto al cinema, solo che in quel momento non sapevo ancora che sarebbe diventato uno dei film che avrei rivisto sempre volentieri, un film amico. L' ho scoperto quando ho avuto occasione di rivederlo la seconda volta, in TV, e ne sono passati di anni. Non è sempre vero che un film lo si apprezza realmente solo al cinema, dipende dalle circostanze, dallo stato d' animo. Invece è assolutamente vero che niente può sostituire il teatro, la sua magia, il rapporto diretto che si stabilisce tra gli attori e gli spettatori, ma questo è un altro discorso.

Torniamo al film e ai due protagonisti, Paul (George Peppard) ed Holly (Audrey Hepburn).
Paul, scrittore in crisi d' ispirazione, è l' amante strapagato di una sofisticata signora dell' alta borghesia, Holly frequenta il giro delle persone in vista sperando di accalappiare un marito ricco per riscattarsi, insieme al fratello, dalla miseria in cui sono cresciuti. Sono vicini di casa e diventano amici, con estrema naturalezza, nel momento stesso in cui si conoscono. Nessuna formalità tra di loro, mai un attimo di imbarazzo, solo confidenza e fiducia reciproca, come si conoscessero da anni.
Holly entra ed esce senza preavviso da casa di Paul, anche in piena notte, direttamente dalla finestra e lui sembra trovarlo del tutto naturale. E' un' amicizia complice ed allegra, come tra due adolescenti, che si rafforza di giorno in giorno; tutto sembra filare a meraviglia finchè Amore ci mette lo zampino e inevitabilmente la situazione si complica. Holly ha paura di amare e di essere amata, non vuole appartenere a nessuno, teme di trovarsi ingabbiata, lei così interiormente libera da non avere mai arredato il suo appartamento nè dato un nome al suo gatto, che infatti chiama Gatto. Paul è il primo a capire che l' amicizia si sta trasformando in qualcosa di diverso e si comporta di conseguenza. Lascia senza rimpianti l' amante non amata, ricomincia a scrivere, cambia casa e stile di vita. E Holly? Adorabilmente testarda, come sempre, non si arrende. Resiste, si rifiuta di mettersi in gioco, cerca di fingere, anche con se stessa, che niente sia cambiato. Spera ancora di realizzare un matrimonio in cui l' affetto non rischi di trasformarsi in amore per continuare così a sentirsi libera, senza radici.

Ma alla fine cederà anche lei. Sotto una pioggia torrenziale, cercando e ritrovando il Gatto che aveva abbondonato, ritroverà anche Paul. Si guardano negli occhi e per un tempo che sembra interminabile nessuno dei due si muove verso l' altro...
L' Happy End, prevedibile ma non tanto, arriverà con l' abbraccio più inzuppato della storia del cinema, un abbraccio a tre perchè c'è anche Gatto, bagnato fradicio anche lui ma felicemente al riparo sotto il bavero dell' impermeabile di Holly.
Il tutto condito da una sognante colonna sonora, Moon River, e dalle immagini di una New York sul finire degli anni cinquanta con la sua mitica Quinta Strada, emblema di quel sogno americano che ha accompagnato tante generazioni e in cui oggi è tanto più difficile credere, per tutti.
Ho detto molto ma non ho detto tutto, chi ha visto il film lo sa. Occorre ascoltare il dialogo, battuta per battuta, ma soprattutto vedere lei, Audrey Hepburn, perchè senza i suoi incantevoli occhi questo film sarebbe un' altra cosa ed io, probabilmente, non sarei qui a parlarne.

Titanic

Titanic di James Cameron (1997) Con Leonardo Di Caprio, Kate Winslet, Billy Zane, Kathy Bates, Frances Fisher, Gloria Stuart, Bill Paxton Musica: James Horner Fotografia: Russell Carpenter (194 minuti) Rating IMDb: 7.0
Roby
Più che trovarlo semplicemente "catastrofico", a me il TITANIC di James Cameron con Di Caprio e la Winslet fa quasi "morire" dal ridere. Sullo stesso argomento ricordo un vecchio film visto in TV da bambina (sì, lo so, mi ripeto: ma i temi infanzia-Tv-cinema restano per me indissolubilmente legati), intitolato se non sbaglio "La tragedia del Titanic", che mi impressionò moltissimo, soprattutto nella scena dell'iceberg fatale e della nave che s'impenna fino ad inabissarsi con il suo disperato carico umano. Credo sia stato allora che ho imparato a scrivere correttamente la parola TRANSATLANTICO, anche se ancora non ne capivo bene il significato. Insomma, all'uscita della mega-produzione del 1997, straripante di effetti speciali, scenografie rigorosamente ricostruite su modelli dell'epoca, dialoghi basati su testimonianze dei sopravvissuti eccetera, non potevo davvero esimermi dal vedere il risultato di tanto ciclopico sforzo. Dunque, vado per ordine: primo, l'anziana signora che partecipa alle ricerche subacquee della nave - e che poi si scoprirà essere la ragazza innamorata del 1912- quanti anni dovrebbe avere, secondo voi? Facendo due calcoli, se nel '12 ne aveva almeno 16, sarebbe del 1896, e quindi, essendo il film ambientato in epoca contemporanea, ed essendo appunto uscito nel 1997... Per farla corta, a voi quella sembra un'ultracentenaria??? A me sì, certo: ma appena uscita da una clinica di chirurgia estetica!!! E passiamo al magnifico Di Caprio-Jack, fulgido esempio di sex-symbol virile. VIRILE??? Mi rivolgo idealmente alle ex-ragazzine follemente innamorate del bel Leonardo: vi pare davvero un MASCHIO, con quella pelle liscia, quegli occhioni ombreggiati dalle lunghe ciglia e l'ovale perfetto (forse leggermente paffuto) del volto? Chissà perchè, a me ricorda tanto ma tanto una pubblicità di articoli per bebè... Che dire poi della "bellissima" Rose? Kate Winslet - è un parere personale- è stata senz'altro molto più affascinante in altre sue interpretazioni: qui, dico la verità, mi riesce difficile credere che una ragazzina così florida, panciuta e slavata possa creare una tale scarica elettrica negli ormoni di un coetaneo, a meno che non si ritenga il personaggio di Jack alquanto miope. Il transatlantico maledetto è ricostruito benissimo, non c'è dubbio (anche perchè sennò come li avrebbe spesi, la produzione, tutti quei milioni di dollari?), e la veridicità della vicenda è talmente curata da essere quasi pedante, al limite del didascalico. Santo cielo, se voglio documentarmi sulla tragedia del Titanic, mi guardo una bella puntatona di Superquark, non un colossal hollywoodiano: in certe sequenze, andiamo, non si distingue la differenza!!!! Molteplici, inoltre, gli esempi di involontaria comicità da me riscontrati in tutta la pellicola (che volete, quella sera forse ero di cattivo umore, o forse avevo mangiato pesante): uno fra tutti, la scena in cui Rose spezza con un'ascia la catena che imprigiona Jack, accusato di furto, mentre la cabina si sta riempiendo d'acqua. Abbiate pazienza, ma ogni volta che ci ripenso non riesco a trattenere le risa: una DEBOLE e GRASSOCCIA ragazzina di buona famiglia, abituata a vita comoda e sedentaria, che sollevando una pesantissima accetta tronca di netto, in un paio di colpi, una catena d'acciaio??? Piuttosto, ve lo confesso, guardando "Superman" con Christopher Reeves sono pronta a credere che un uomo possa volare!!! Ad ogni modo, dopo la catastrofe, quando gran parte dei passeggeri è affondata nel mare gelato scivolando sulla nave inclinata come bagnanti in un Aquapark, ci si può consolare osservando quanto sia "caruccio" Di Caprio seppur ridotto ad un bastoncino Findus, nelle gelide profondità dell'oceano. Non un capello fuori posto, non un accenno di rigonfiamento, nessun segno di decomposizione... In una parola, un bel bambolotto: sia da vivo che da morto! E con ciò, per adesso, ho esaurito la mia dose di veleno. Si sarà capito, credo, che come spettatrice non ho vie di mezzo: per ciò che passa sul piccolo o sul grande schermo ho grandi passioni o grandi antipatie, cancellando dalla memoria - quasi senza accorgermene - tutto il resto.

mercoledì 25 aprile 2007

Con gli occhi chiusi

Con gli occhi chiusi di Francesca Archibugi (1994) Dal romanzo di Federigo Tozzi Con Marco Messeri, Stefania Sandrelli, Deborah Caprioglio, Alessia Fugardi, Fabio Modesti, Gabriele Bocciarelli, Sergio Castellitto, Angela Molina, Laura Betti Musica: Battista Lena Fotografia: Giuseppe Lanci (113 minuti) Rating IMDb: 6.2
Solimano
Ancora oggi c'è qualcuno che ha una visione arcadica della vita contadina. Ne profittarono persino i cobas del latte, bloccando autostrade con mucca Carolina (o Ercolina?) a seguito. Avevano tempo per farlo, visto che le vacche le mungevano gli immigrati sikh. La letteratura a volte il suo dovere l'ha fatto: "Con gli occhi chiusi" di Tozzi e "La malora" di Fenoglio sono lì a testimoniarlo, alla faccia di tutti gli arcadi di ieri, di oggi, di sempre. Anche il cinema, a volte, ha detto cose giuste: "L'albero degli zoccoli" di Olmi e "Novecento" di Bernardo Bertolucci sono testimonianze di quanto fosse dura quella vita, stretta fra dominanze implacabili di classe, familiari, sessuali, anche religiose. "Con gli occhi chiusi" di Francesca Archibugi è del 1994, e l'hanno visto in pochi, ma è opera di intelligenza dura e di rispetto amoroso verso il grande e tragico libro di Federigo Tozzi. Tragico, altro che triste. La lotta si svolge fra Domenico, padre-padrone oste e piccolo agrario e Pietro, il figlio, perso cocciutamente in sogni e fantasie che però lo proteggono dalla oppressione senza sbocco dei rapporti, in cui c'è una marchiatura a fuoco delle vite, come si fosse animali. Da ragazzo, Pietro si innamora di Ghisola, coetanea però contadina. Poi non la vede per anni, quindi non sa quello che è successo: Ghisola è sessualmente sottomessa a diversi uomini, finisce anche per essere gestita a Firenze dalla ruffiana Beatrice (Laura Betti). Ghisola, in un suo modo ottuso ma lineare, cerca il colpo di portarselo a letto per poi sposarselo - sa di essere incinta chissà di chi e le serve una copertura. Pietro mitizza il rapporto e la rispetta, Ghisola scompare, alla fine Pietro saprà la casa di Firenze dove vive: è un bordello. Pietro la cerca, stanza dopo stanza, infine la vede con la pancia grossa e sviene. Quando si rialza non la ama più. Il film è rigoroso e si basa su due scelte giuste: nel primo tempo Pietro e Ghisola sono Gabriele Bocciarelli e Alessia Fugardi, nel secondo tempo sono Fabio Modesti e Deborah Caprioglio, a scandire il passaggio dai sogni allo squallore, l'intervallo non è di dieci minuti ma di alcuni anni. Qualche critico ha avuto la faccia tosta di tacciare di gelido il film della Archibugi, si vede che non ha mai letto Federigo Tozzi: che si aspettava, una storia consolatoria, un gioco infantile, un Pane amore fantasia scollacciato? Tozzi e Fenoglio sono fra i nostri massimi del Novecento, anche se molti continueranno a fare di tutto per non prenderne atto. Sono scrittori che danno fastidio, perché è difficile fare i conti con la tragedia vera in un paese che spesso manca di serietà. Prendersela con l'opera della Archibugi è facile, fa pure gioco, ma questo è un film che resterà, basta solo sapere aspettare.
P.S. Come facilmente prevedevo, ben poche immagini tratte dal film ci sono in rete, e io come immagine qui metto la giovane dormiente, dipinta verso il 1615 da Domenico Feti.

Le vite degli altri (1)

Das Leben der Anderen di Florian Henckel von Donnersmarck (2006) Con Martina Gedeck, Ulrich Muhe, Sebastian Koch, Ulrich Tukur, Charly Hubner, Thomas Thieme Musica: Stéphan Moucha, Gabriel Yared Fotografia: Hagen Bogdanski (137 minuti) Rating IMDb: 8.5
Massimo
Sul fermo immagine finale, in sala parte l’applauso. Anch’io batto le mani, ancora immerso nell’incantesimo della storia. Che parte livida e implacabile come gli ultimi anni della Germania dell’Est e l’agente della Stasi che viene incaricato di spiare uno scrittore e i suoi amici artisti. L’uomo - tutt’uno con l’ideologia che serve con convinzione - origlia giorno e notte persone che s’incontrano nell’appartamento e si scambiano i loro frammenti di libertà come fossero sigarette da fumare insieme di nascosto. La genialità di Florian Henckel è di aver saputo raccontare, in modo asciutto e senza sbavature, la forza irresistibile dell’arte e della bellezza; una forza che alla distanza vince ogni resistenza in chi si espone al suo calore. Paradossalmente, in un film attraversato da rischi e pericoli, è questa la vera imprudenza irrimediabile. Ma anche miracolosa, come il finale inatteso di questa bellissima storia.

martedì 24 aprile 2007

L'attimo fuggente

Dead Poets Society di Peter Weir (1989) Sceneggiatura di Tom Schulman Con Robin Williams, Robert Sean Leonard, Ethan Hawke, Josh Charles, Gale Hansen, Dylan Kussman Musica: Maurice Jarre Fotografia: John Seale (128 minuti) Rating IMDb: 7.7
Giuliano
Ogni volta che passa in tv "L'attimo fuggente", un film di Peter Weir del 1989, si torna a discutere del ruolo dell'insegnante: deve essere aperto e comprensivo oppure rigido e severo? E' così forte l'impressione che fa il film, ed è così bravo Robin Williams nell'interpretare il professor Keating ("O capitano, mio capitano...") che questo tema si porta via quasi tutte le riflessioni in proposito.Ma questo è un film di Peter Weir, e Weir è un autore molto sottile e non prevedibile, attento a cose che di solito sfuggono, presi come siamo dalla nostra vita quotidiana.
"L'attimo fuggente" (Dead poets society) parla del suicidio degli adolescenti, e lo fa in maniera toccante e drammatica. Sono pochi i film su questo tema, e non ne ricordo un altro che lo tratti con la stessa finezza e delicatezza, quasi sfiorandolo; ma che non può non ferire, e far pensare, far male. E’ un tema così forte che non riusciamo a reggerlo, e infatti preferiamo non pensarci e parlare del ruolo dell'insegnante: tutti noi abbiamo avuto a che fare con gli insegnanti, ed è un discorso sempre duro e difficile ma molto più abbordabile e rassicurante. D'altra parte, è questa la caratteristica di Peter Weir, fin dai suoi esordi australiani con film magici e ormai antichi come "L'ultima onda" (1979) e "Picnic at Hanging Rock" (1975). Dietro il soggetto principale del film c'è sempre qualcosa d'altro, qualcosa che ci disturba e fa venire le vertigini, come se si fosse toccato il mondo che sta al di là della nostra coscienza e della nostra esperienza quotidiana. L’ambientazione scolastica è solo un pretesto, un’allegoria dietro la quale, come facevano i grandi pittori del passato, Weir nasconde la verità della nostra vita, quella che non sempre siamo in grado di accettare e quindi di riconoscere.

Sesso, bugie e videotape

Sex, Lies and Videotape di Steven Soderbergh (1989) Con Andy MacDowell, Peter Gallagher, Laura San Giacomo, James Spader Musica: Cliff Martinez Fotografia: Walt Lloyd (100 minuti) Rating IMDb: 7.0
Solimano
Vincere la Palma d'Oro a Cannes a ventisei anni col proprio primo film, questo successe a Steven Soderberbergh nel 1989, e in gara c'erano anche Il tempo dei gitani di Kusturica e Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore, ma l'appoggio di Wim Wenders, presidente della giuria, fu determinante. Era un periodo in cui seguivo poco il cinema, preso fra un concerto e l'altro, e quando lessi il titolo pensai: "A questo siamo!" Il titolo è invece appropriatissimo: nel film si parla appunto di sesso, bugie e videotape. Le bugie se le raccontano tutti i quattro personaggi: John (Peter Gallagher) , sua moglie Ann (Andy MacDowell), la sorella di Ann, Cynthia (Laura San Giacomo) e l'amico del marito Graham (James Spader), ma dei quattro all'inizio del film il più felice è il più bugiardo, l'avvocato John, che è anche l'amante di Cynthia. Ann è frigida, ma cerca di non farlo sapere, Graham dice tranquillamente ad Ann di essere impotente, si scoprirà che per ovviare in qualche modo ha una collezione di videotape in cui intervista donne sulle loro esperienze sessuali. Quindi il titolo è giusto, ma il tema vero è un altro: che fare per stabilire un rapporto uomo-donna non basato sulla menzogna. Perché l'odore di menzogna si sente, anche quando si fa finta di credere che le menzogne siano la verità. Serviva un repulisti, quindi un gran bel tema. Finalmente alcuni film cominciarono ad affrontarlo proprio in quegli anni, superata da tempo l'onda della liberazione sessuale, che aveva spostato, non risolto il problema, tanto diffuso quanto negato: la menzogna è comoda, a volte indispensabile, se non si riescono ad esplorare alternative. Soderbergh si muove con geometrie giovanilmente esatte: all'inizio del film è Ann che va dallo psicologo, alla fine del film toccherà a John, nel frattempo le due sorelle si saranno sottoposte ai videotape di Graham, si scopre anche che la ragazza amata a suo tempo da Graham - e causa del suo blocco - era stata l'amante di John, quindi è giusto che infine siano la frigida Ann e l'impotente Graham a risolversi reciprocamente il problema. Come lo risolvono? Non mentendo a sé stessi, quindi diventando capaci di dirsi la verità l'un l'altro, e la frigidità e l'impotenza scompariranno, come corollario da teorema ben dimostrato. A raccontarlo così, sembra una specie di ronde, in realtà è un film di testa, anche troppa. L'unico sconfitto è l'avvocato, che troverà problemi anche sul lavoro, proprio lui che sembrava l'unico a posto. Niente di moralistico, solo la constatazione tranquilla che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Fra i quattro interpreti che sono divenuti tutti molto noti in questi anni, ho tifato per Laura San Giacomo, maliziosa, libera, anche traditrice, solo di sesso però, in fondo peccato veniale. Soderbergh una bugia clamorosa ce l'ha raccontata pure lui, nessuno potrà mai credere che Laura San Giacomo ed Andy MacDowell siano sorelle. Al regista è andata bene, in questi anni diverse sue opere hanno avuto successo, nessuna però con l'asciuttezza di questo film intrigante ma non compiaciuto, un vero thriller dei sentimenti: ci vuole una vita per individuare il vero colpevole, e comunque tocca provarci.

lunedì 23 aprile 2007

I compagni

I compagni di Mario Monicelli (1963) Sceneggiatura di Agenore Incrocci, Mario Monicelli, Furio Scarpelli Con Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Gabriella Giorgelli, Folco Lulli, Bernard Blier, Raffaella Carrà, François Périer, Vittorio Sanipoli, Mario Pisu, Annie Girardot, Giulio Bosetti Musica: Carlo Rustichelli Fotografia: Giuseppe Rotunno Montaggio: Ruggero Mastroianni Costumi: Piero Tosi (125 minuti) Rating IMDb: 7.9
Ottavio
Si dice che i popoli abbiano la memoria corta, e quindi, come dice Santayana, “condannati a rivivere il passato”.
Per evitare di ricadere in situazioni poco simpatiche basterebbe rinfrescare ogni tanto il ricordo, ripensando alle esperienze dei nostri padri e nonni, di cui abbiamo avuto cognizione diretta (e che cognizione, vista la densità di eventi del ‘900!).
Oppure approfittare delle testimonianze che la cultura ci ha lasciato per valutare con consapevolezza rischi e opportunità dei nostri tempi. Il cinema per questo è uno strumento efficacissimo: le immagini consentono un confronto immediato.
Mi viene in mente, ad esempio, il film “I compagni”, di Mario Monicelli. Il film è del 1963 e debbo averlo visto uno o due anni dopo. Allora lavoravo, da qualche anno, in uno stabilimento petrolchimico, e avevo appena cominciato a capire le problematiche del mondo del lavoro. Intendiamoci, negli anni ’60 la situazione in azienda era “grasso che cola” rispetto a quella descritta ne “I compagni”, ma comunque sempre caratterizzata da un conflitto latente, il che comportava schierarsi da una precisa parte.
Ne “I compagni” si parla di una filanda dove si lavora quattordici ore al giorno nella Torino fine ‘800, dove gli operai sono tutti immersi in un mondo impietoso di fatica e di miseria. Dall’incidente di un vecchio, al quale la macchina stritola una mano in un momento di stanchezza, nasce la decisione di promuovere un’agitazione. Ma gli operai sono troppo ignoranti e confusi, non combinerebbero gran che se non capitasse fra loro un professore socialista, Marcello Mastroianni, con barba, e capigliatura arruffata, secondo gli schemi, dell’epoca, degli agitatori sociali. È lui che li guiderà prima allo sciopero, poi addirittura alla rivolta; ci scapperà un morto e il professore finirà in prigione.
E’ chiaro che Monicelli, di idee dichiaratamente di sinistra, parteggia per gli operai. Ne descrive i tratti umani simpatici e li fa interpretare da popolari attori (Blier, F. Lulli, Salvatori). Contestualmente il proprietario della filanda appare spregevole quanto basta. Su questo hanno battuto abbastanza i critici dell’epoca, secondo i quali il film, oltre che manicheo era “bozzettistico”. Quindi il conflitto sociale di fine ‘800, che ha avuto anche risvolti drammatici, doveva essere trattato più “storicamente” e meno come commedia.
Io, confesso, mi sono commosso. Sarà stato anche il particolare momento, ma il film mi è piaciuto molto. Per i contenuti, naturalmente. Si è tratteggiata una fase delle lotte che hanno portato all’emancipazione sociale, cioè a dire alla prevalenza della politica sull’economia (ahi ahi, vecchio Marx, oggi c’è il rischio di capovolgimento!). Per gli altri aspetti, fotografia, musica (quando scorrono i titoli di testa si sente una bella canzone “socialista”), sceneggiatura etc. non avevo dubbi: Monicelli è un maestro. E quindi il messaggio è arrivato chiaro, immediato ed efficace. Ai critici dico: andava bene così.

Bellissima

Bellissima di Luchino Visconti (1951) Racconto di Cesare Zavattini, Sceneggiatura di Suso Cecchi D'Amico, Francesco Rosi e Luchino Visconti Con Anna Magnani, Walter Chiari, Tina Apicella, Gastone Renzelli Musica: Franco Mannino (e L'Elisir d'Amore di Donizetti) Fotografia: Piero Portalupi, Paul Roland Costumi: Piero Tosi (110 minuti) Rating IMDb: 8.0
Roby
Per una qualche misteriosa ragione, ai miei genitori non piacevano nè i registi nè tantomeno gli attori italiani. Quindi, se l'annunciatrice TV di turno comunicava sorridente che di lì a poco sarebbe andata in onda una pellicola di De Sica, Totò o De Filippo, loro sbuffavano, si alzavano dalla poltrona (niente telecomando, all'epoca!) e cambiavano canale: il che, fino alla fine degli anni '70, significava semplicemente passare dal Nazionale al Secondo, o viceversa. Chissà, forse i film nostrani ricordavano troppo il periodo della guerra, ancora fresco nella loro memoria, più di quelli americani, in qualche modo più "spensierati"... Una delle attrici da loro più detestate era senz'altro Anna Magnani, che solo a nominarla faceva alzare gli occhi al cielo a mia madre: "Per carità, Mario, cambia, cambia!". Probabilmente, così facendo, mamma e papà mi hanno messo addosso una tale curiosità che, una volta raggiunta la grande conquista di un televisore in cucina tutto per me, film e registi di casa nostra sono stati tutti "miei"! E fra i più belli, tanto per cominciare, non posso non citare "Bellissima" di Luchino Visconti, dove ironia e dramma s'intrecciano e si sciolgono in un continuo alternarsi di sorrisi e lacrime, sullo sfondo di una Roma appena uscita dalla guerra, dove s'intravedono ancora nette le macerie -sia materiali che spirituali- del conflitto appena concluso. La Magnani è mamma orgogliosissima di una bimbetta sui sei anni, nè bella nè brutta ma per lei -ovviamente- splendida, nonchè sicuramente dotatissima per "fare del cinema". Quel cinema che tutta la famigliola riesce a sbirciare nelle serate estive dalla terrazza di casa, proiettato su di un tendone in mezzo al cortile centrale da uno di quei trabiccoli ambulanti che (mi dicono i parenti anziani) allora erano abbastanza comuni.

Perciò, quando si sparge la voce che a Cinecittà Blasetti cerca una bambina per il suo prossimo film, la Magnani non si fa scappare l'occasione e parte in quarta, perdendo tempo e denaro per rincorrere il suo sogno: soltanto suo, si capisce, perchè alla pargoletta non importa niente di mettersi in mostra, anzi, trova molto più divertente il garzone del parrucchiere (un ragazzino poco più "vecchio" di lei) che con abile e disastrosa mossa le taglia di netto le trecce, consegnandogliele poi come un trofeo. Per il sospirato ruolo cinematografico la madre sognatrice ne combina di tutti i colori, compreso flirtare con il presunto braccio destro di Blasetti, un Walter Chiari mezzo carogna e mezzo povero diavolo che con Visconti tira fuori la sua vena migliore. Ma il provino si rivela un fiasco, tanto che la povera donna, ammessa di nascosto in cabina di proiezione, assiste agli sberleffi e alle risate degli addetti ai lavori presenti: è a questo punto che viene fuori tutta la sua forza, tutta la sua personalità (ne ha da vendere, la Magnani, di personalità!), e davanti a regista e collaboratori grida tutto il suo disprezzo per tanta superficialità, per tanto poca considerazione dei sacrifici, delle speranze, della dignità altrui. Ormai, l'illusione è infranta, e a nulla servirà il tardivo ripensamento dei cineasti: il contratto milionario per il film con Lana Turner viene orgogliosamente rifiutato, il segretario di produzione messo alla porta, la bimba, "bellissima" per i suoi genitori, resta solo e tutta per loro. Ogni volta che questa storia ripassa in TV, anche se conosco quasi a memoria le battute, rimango lì a seguirla, come ipnotizzata. E ripenso al grosso televisore color legno, in salotto, alla Orsomando che sorrideva dallo schermo e alla mia mamma che esclamava: "Un film ITALIANO??? Per carità, Mario, CAMBIA CANALE!"

domenica 22 aprile 2007

Guerra e pace

War and Peace di King Vidor (1955) Dal romanzo di Tolstoj Sceneggiatura di Bridget Boland, Robert Westerby, Mario Camerini, Ennio De Concini, Ivo Perillli, Gian Gaspare Napolitano, Mario Soldati Con Audrey Hepburn, Mel Ferrer, Henry Fonda, Vittorio Gassman, Herbert Lom, Oscar Homolka, Anita Ekberg, Helmut Dantine, Tullio Carminati, Anna Maria Ferrero, May Britt, John Mills Musica: Nino Rota Fotografia: Jack Cardiff Scenografia: Piero Gherardi Costumi: Maria De Matteis, Giulio Ferrari (208 minuti) Rating IMDb: 6.6
Solimano
"Guerra e pace" di King Vidor è ancor oggi, a valore del denaro attualizzato, il film italiano che ha incassato di più. Quando uscì, nel 1955, ci si andava per famiglie, organizzandosi prima con gli orari, perché era lungo più di tre ore, quindi serviva anche un po’ di merenda per i più piccoli. Un film normale durava un’ora e un quarto, un’ora e mezzo a dir tanto, salvo l’eccezione di Via col Vento, che eccezione doveva restare. "Guerra e pace" era una impresa, complicata anche dalla scomodità delle sedie dei cinema di allora, dal probabile intasamento dei gabinetti, dal fumo onnipresente, col pavimento tappezzato di cicche. Molti sapevano che era il titolo di un romanzo del russo Tolstoj, quasi nessuno l’aveva letto. Io, non solo non l’avevo letto, ma non sapevo la storia, quindi caddi in una serie di equivoci sui personaggi, che solo la prima completa lettura (vent’anni dopo!), mi consentì di sciogliere. Ad esempio, non compresi nulla delle figura di Karataief, mi sembrò una macchietta come certi contadini fra cui ero cresciuto – forse nel film era proprio una macchietta. Mi annoiava l’insalamato principe Andrej di Mel Ferrer, trovavo carina Audrey Hepburn, come certe compagne di scuola della Parma bene, ma preferivo, volente o nolente, le spalle prodigiose e scoperte di Anita Ekberg, allora quasi sconosciuta: disapprovai il matrimonio di Pierre con lei, ma lo compresi, ci sarei cascato anch’io volentieri, su quelle spalle. Per Pierre avevo simpatia, ci ritrovavo una serie di mie goffaggini e anche l’orgoglio, bestia che ancora oggi non ho ancora domato - meno male. Mi impressionò l’Anatolj di Vittorio Gassman, specie quando beveva seduto sul davanzale e fui diviso quando si scornò con Pierre riguardo Natascia, fui diviso fra il tirare un sospiro di sollievo e pensare peccato! perché Anatolj si era mosso bene e Natascia secondo me ne era ancora innamorata. Mi piacquero poco i balli e le chiacchiere, anche quelle amorose, mi interessavano però gli occhi. Amai le divise, i cavalli, le battaglie. Napoleone (Herbert Lom, sì, quello che poi divenne il nemico dell’ispettore Clouseau!) mi sembrò meno furbo del guercio e vecchio Kutusof. Benchè affaticato, fui contento dell’adempimento, come lo furono tutti quanti o quasi, salvo i critici, ma chi gli dava retta? “Guerra e pace” lo lessi più di vent’anni dopo, avevo praticamente prima ridimensionato e poi quasi dimenticato il film di Vidor, ma quando lessi il grande romanzo mi riapparirono, personaggio per personaggio, le facce del film. Specie i tre: Natascia, Pierre, Andrej ma anche i Kuraghin, sorella e fratello. Un tale imprinting va accettato, non si riesce a rimuoverlo, anche se oggi colgo tutte le sbavature che senz’altro c’erano, leggendo i nomi degli interpreti: come si fa a dare ad Anna Maria Ferrero la parte della brutta Maria, la sorella di Andrej? O a Milly Vitale, il modello piccolo romantico di quei tempi, la parte di Lisa, la moglie del principe Andrea, donna ingenua, furba e vivacissima? E a May Britt la parte della cugina Sonia, quella destinata a non sposare Nicolaj? Evidentemente i due mega-produttori Ponti e De Laurentis avevano posto come condizione che le attrici fossero una più bella dell’altra, pensavano così anche per casa propria. Ancora, c’era il vecchio saggio Tullio Carminati a far la parte del cattivo Vassili Kuraghin, nessuno ci avrebbe creduto, salvo che tutti erano indifesi come me, l’unico libro lungo che avevamo letto erano i Promessi Sposi. Oggi mi diverto, ad accorgermi che la sceneggiatura la scrissero in sei italiani e due americani e che Mario Soldati è stato il regista delle battaglie: me lo vedo con i baffi ed il megafono a dare ordine a quasi diecimila comparse che erano quasi tutte militari dell’esercito, ma nessuno la buttò in politica: il cinema stava vincendo clamorosamente le battaglie con la TV , con l’arma del colossal, che la televisione non poteva giocare. Anni in cui Cinecittà era una delle più grandi industrie italiane, perché i colossal arrivavano a pioggia, anche per ragioni fiscali degli americani, ma la TV aveva il fiato lungo, alla fine ce l'avrebbe spuntata lei, proprio come Kutusof con Napoleone.

L'invenzione di Morel

L'invenzione di Morel di Emidio Greco (1974) Dal racconto di Adolfo Bioy Casares Con Giulio Brogi, Anna Karina, John Steiner, Anna Maria Gherardi, Ezio Marano Musica: Nicola Piovani Fotografia: Silvano Ippoliti Rating IMDb: 6.8
Giuliano
Questo è il film più noioso che io ricordi: l’ho visto almeno dieci volte, e ve lo posso dire con sicurezza. L’ho registrato una ventina d’anni fa, dopo averlo visto quand’era uscito; ogni tanto tiro fuori la cassetta e me lo riguardo. Vi sembrerà un atteggiamento strano, ma ho i miei motivi e sono motivi validi. Per cominciare, Emidio Greco è un ottimo regista; e vi recita un grande Giulio Brogi. Poi c’è l’ambientazione: gli esterni a Malta, girati in modo da farla sembrare un luogo selvaggio e inospitale; all’inizio si intravedono i templi megalitici di Mnajdra. Gli interni sono realizzati in una villa, o in un osservatorio, che non ho mai capito bene dove si trova ed è uno dei luoghi più memorabili di tutta la storia del cinema. Ma il vero punto di interesse è la storia, opera di Adolfo Bioy Casares, argentino, amico e collaboratore di Borges. Un perseguitato politico fugge dal regime dittatoriale che lo ricerca. Fa naufragio, e su una piccola barca arriva a un’isola fuori dalle consuete rotte. Dopo qualche tempo passato nella paura di essere catturato, scopre che è arida e disabitata; però vi sono costruzioni lussuose e recenti, come una grande villa che ribattezza “il Museo” a causa della sua insolita architettura.

Quando ormai il naufrago si sente al sicuro, dopo molti giorni, scopre d’improvviso l’isola piena di gente: persone ricche ed eleganti, col loro seguito. Da dove sono arrivati? Il naufrago torna a nascondersi, ma presto gli ospiti spariscono così come erano arrivati. Col tempo, il naufrago scoprirà il mistero, che però ne contiene un altro: gli ospiti sono proiezioni tridimensionali, secondo l’invenzione originale di Morel, che è uno di loro. Le proiezioni ripetono un’unica settimana, sempre uguale; e sono le maree, molto potenti sull’isola, a dare l’energia per mettere in moto i proiettori situati nei cantieri della villa. Il naufrago prende confidenza con gli ospiti, ne impara movimenti e battute, si chiede se sia possibile interagire con loro. Soprattutto, riesce finalmente ad ascoltare le parole di Morel mentre spiega dettagliatamente cosa è successo: «Quante volte noi stessi abbiamo interrogato il destino degli uomini, mosso le vecchie domande: dove andiamo? Dove aspettiamo, come musiche mai udite in un disco, finché non ci comandano di uscire?» (...) L'eternità rotatoria può sembrare atroce ad uno spettatore; è soddisfacente per i suoi attori. Liberi da cattive notizie e da malattie, vivono sempre come se fosse la prima volta, senza ricordare le precedenti. Inoltre, per via delle interruzioni dovute al regime delle maree, la ripetizione non è implacabile. Abituato a vedere una vita che si ripete, trovo la mia irrimediabilmente casuale. I propositi di ammenda sono vani: per me, non c'è prossima volta, ogni istante è unico, diverso, e parecchi vanno perduti per disattenzione. E' vero che neanche per le immagini c'è prossima volta: tutte le volte sono identiche alla prima. “ Un film metafisico, particolarissimo, come nello stile di Bioy Casares, uno scrittore che sapeva mescolare i grandi temi filosofici con la nostra vita quotidiana. La noia di cui parlavo all’inizio è dovuta ad una certa mancanza di coraggio da parte del regista, che si adatta un po’ troppo allo stile di Godard (soprattutto nei suoi difetti) e che non ha saputo cogliere lo scarto dalla pagina stampata al cinema; e forse anche al taglio della parte iniziale del romanzo, che si svolge nella città dove il protagonista deve sfuggire alla repressione e che avrebbe aiutato meglio a capire cosa succede.

sabato 21 aprile 2007

La finestra sul cortile

Rear window di Alfred Hitchcock (1954) Sceneggiatura di Cornell Woolrich, John Michael Haves Con James Stewart, Grace Kelly, Thelma Ritter, Raymond Burr, Judith Evelyn, Ross Bagdasarian, Georgine Darcy Musica: Franz Waxman Fotografia: Robert Burks (112 minuti) Rating IMDb: 8.7
Roby
La prima volta che vidi questo (si può dire?) capolavoro di Hitchcock, da ragazzina, pensavo di non averlo “capito” bene, perché, più che la storia “gialla” propriamente detta, mi avevano colpito tutte le piccole grandi storie di contorno, viste attraverso gli occhi del James Stewart “guardone” (è così che lo chiama la sua governante, ricordate?). Ognuna di esse è delineata con tanta maestria che, alla fine, ciascuna costituisce un film-nel-film, e tutte insieme fanno una serie di “corti” da antologia, che con due pennellate costruiscono vicende, personaggi, drammi o commedie. Ad esempio, la signorina Cuore-solitario è grottesca ed insieme straziante, nella sua disperata ricerca di qualcuno da “amare”: e quando, alla fine, si accoppia con il compositore che ha finalmente “partorito” il suo brano musicale, ci si rallegra per lei ma –allo stesso tempo- si ha il dubbio che forse il lieto fine abbia in qualche modo sminuito la grandezza della sua figura tragica. Agrodolce il ritratto degli sposini novelli, che in pochi tratti condensa il significato di tutta una vita di coppia, dalla passione più accesa alla noia imperante.

E poi, intrigante la Grace Kelly versione “chic”, in completino di Parigi, che per la “cenetta” a casa dell’amato assolda un servizio di catering perfetto, col cameriere che silenziosamente sforna pasticcio, soufflè e budino, il tutto –ovviamente- innaffiato di champagne; ma ancor più irresistibile la Grace Kelly modello “sport”, con la valigetta microscopica –ve la ricordate, vero?- e tuttavia capace di contenere l’intero necessaire per un viaggio improvviso. Quanto l’ho sognata, una valigetta così: quanto l’ho cercata, dentro di me, la “capacità” di quella valigetta, che riusciva a riassumere in sé l’essenziale, senza fronzoli né sovrastrutture… Ma, per tornare al film di cui sopra, la parte meno importante è forse proprio il mistero della scomparsa della signora Thorwald, in fondo una gran rompiscatole, che tutto sommato doveva stare antipatica anche ad Hitchcock stesso. Secondo me, a lui (ed anche a noi) dispiace molto di più della morte del cagnolino, tenera e buffa creatura, che la padrona inconsolabile piange coram populo, in una sorta di parodia del compianto di Antonio su Cesare assassinato, prima di tornare a coricarsi col marito sul materasso sistemato in terrazza. Troppo caldo per restare ognuno chiuso in casa propria, dietro le imposte serrate: e meno male! Perché, altrimenti, che ne sarebbe stato di questo film?

Il flauto magico

Trollfloiten di Ingmar Bergman (1975) Libretto di Emanuel Schikaneder Con Urik Cold, Elisabeth Erikson, Hakan Hagegard, Birgit Nordin, Josef Kostlinger, Ragnar Ulfung, Irma Urrila Musica: W.A.Mozart Fotografia: Sven Nykvist (135 minuti) Rating IMDb: 7.9
Solimano
Ho una bella cassetta VHS della serie “Un Palco all’Opera” con il Flauto Magico. Il direttore è Sawallisch, fra i cantanti ci sono Lucia Popp, Francisco Araiza, Edita Gruberova (la parte della Regina della Notte!), l’orchestra è la migliore della Baviera e la regia di August Everding è ricca di misurate trovate. Ogni tanto me la guardo con soddisfazione. Ma ho un’altra cassetta, un po’ sinistrata, in cui ho registrato dalla TV il Flauto Magico di Ingmar Bergman, e qui non si tratta di soddisfazione, ma di coinvolgimento totale. I cantanti sono svedesi, scelti più per il loro aspetto che per le loro voci, qualcuno ha parlato di una edizione leggera. Cantano in lingua svedese, ci sono i sottotitoli in italiano, ma li leggo abbastanza poco, nel Flauto Magico si capisce quello che stanno dicendosi, salvo alcuni recitativi. Fin dall’inizio si intuisce che cosa Bergman sta facendo: mettere noi spettatori al centro, il Flauto Magico racconta la nostra storia. Durante la sinfonia, con stacchi rapidi ma non fastidiosi, vengono ripresi nel teatro uno alla volta i volti degli spettatori, uomini e donne, anziani e giovani, occidentali ed orientali, anche lo stesso Bergman ed alcuni suoi amici: Liv Ulmann, Erland Josephson, Sven Nykvist. Riappariranno ogni tanto questi volti, e da un certo punto del film in poi apparirà ogni tanto solo il volto di una bambina, comprensiva ed ironica, un po’ pensosa e sulle sue, ma ridente quando i nodi si sciolgono. Quella bambina rappresenta noi e lo stesso Mozart che si sarebbe divertito più di tutti. Perchè Bergman è molto rispettoso, ma senza intimidirsi, quindi c’è umore e lieta fermezza in quello che fa. Non si mette mai davanti a Mozart, lo aiuta a farsi ascoltare, a mostrarsi ancora di più. Ci sono molte trovate, non troppe, ma di alcune neppure ti accorgi, per la naturalezza con cui sono inserite: il dirigibile con i tre ragazzi sopra, i pupazzoni del drago e degli animali che escono nella bella stagione, l’inverno con la neve. La trovata più bella è quando Papageno scherza con la vecchietta sdentata che lo corteggia, quella che dice di avere diciotto anni e due minuti. C’è un momento in cui la vecchia china la testa in avanti, e le scende il fazzolettone a coprirle il volto, poi rialza la testa, il fazzolettone scompare, ed ecco! non è più vecchietta, è Papagena bellissima, che ha diciotto anni e due minuti, forse solo uno. Figuratevi Papageno...

E ci sono il Tempio della Natura, quello della Ragione, quello della Saggezza, con la squadra degli amici di Sarastro, massoni, impiccioni e bonaccioni. C’è Pamina, disperata perchè Tamino non le parla, la Regina della Notte, con le melodie impervie e bellissime, che ha il volto di madre giovane e amorosa, di madre vecchia e odiosa, anche il volto della morte del Settimo Sigillo. Ci sono le tre damigelle che non si sa bene da che parte stiano, c’è Monostato, che inutilmente serve ed insidia. Nelle prove che debbono affrontare, si intravedono corpi umani o forse diabolici fra il guizzare delle fiamme, Pamina e Papageno penseranno al suicidio, però per poco. Nell’intervallo i cantanti sono ripresi dietro le quinte, due giocano a scacchi, uno legge il giornale, una fuma - non dovrebbe. Bergman non ha cercato né la contaminazione fra tempi diversi né l’astruseria di significati simbolici, ha dato corso in piena felicità - e sì che era in un periodo difficile - alla sua voglia di renderci partecipi convinti della iniziazione quotidiana, fra natura, nella terribilità e nella bellezza, e saggezza, però comprensiva, non arida. In mezzo ci sta la ragione, che riguarda tutti, tranne Monostato - ci vuol pure uno che abbia torto, è pagato per questo. Viene voglia che Sarastro e la Regina della Notte facciano pace, è ora di regolarizzarlo, questo amorazzo litigioso. Ma nella meraviglia della musica di Mozart, il momento più bello è quello più semplice: Papageno e Papagena che si tolgono vicendevolmente pellicce, guanti, scarpe e berretti, l’inverno è finito, è il momento di baciarsi. Non si facciano mancare niente, i testimoni saranno Mozart e Bergman.

Il giudizio universale

Il Giudizio Universale di Vittorio De Sica (1961) Racconto sceneggiatura di Cesare Zavattini Con Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Anouk Aimée, Fernandel, Nino Manfredi, Silvana Mangano, Paolo Stoppa, Renato Rascel, Melina Mercouri, Jack Palance, Lino Ventura, Vittorio De Sica Musica: Alessandro Cicognini Fotografia: Gabor Pogany (100 minuti) Rating IMDb: 6.5
Giuliano
Una guida turistica porta una comitiva in giro per musei e palazzi di Napoli; quando apre una finestra si vede il panorama e parte la musica appropriata, ma arriva anche una voce stentorea e ben impostata, che dice questa frase: « Alle 18 incomincia il Giudizio Universale. » Il cicerone traduce subito in tutte le lingue (è un napoletano sornione, ma di quelli svegli), e sorride ai turisti preoccupati: dev’essere pubblicità...
Comincia così uno dei film di De Sica con Zavattini, l’ultimo se non sbaglio. E’ un film a episodi, ma – per chi non l’ha mai visto – attenti: questo non è un film a episodi come tanti altri, perché dietro c’è Zavattini. Tante volte ci si chiede perché non fanno più film belli come una volta: la risposta è semplice, perché non ci sono più i grandi scrittori e i grandi sceneggiatori a scrivere i film, e perché se anche ci fossero l’industria del cinema non li farebbe mai e poi mai lavorare. Un soggetto come Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D (tutti di Zavattini, con regia di Vittorio De Sica) verrebbe immediatamente cestinato dai big boss del nostro cinema di oggi, andati a scuola nelle agenzie pubblicitarie e cresciuti vedendo “drive in” e “striscia la notizia”. Ogni tanto fa bene ricordare chi c’era dietro ai grandi film di Sordi, Manfredi, Gassman, Tognazzi: c’erano Tonino Guerra, Flaiano, Benvenuti, De Bernardi, Pinelli, Suso Cecchi d’Amico, Age e Scarpelli... Tutta gente (e chiedo scusa per chi manca, ma la lista sarebbe enorme) che le scuole di cinema e di scrittura creativa non sapevano neanche cos’erano, eppure scrivevano lo stesso, chissà come hanno fatto.
Il risultato, in questo caso, è un film che scorre via liscio come l’olio. Neanche ci si accorge, che è un film a episodi; e che sia strapieno di star e di comici appare perfino naturale, non è una palla al piede come accade quasi sempre in questi casi, ma è anzi un punto di forza: perché il film è scritto, pensato e diretto da due Maestri veri, è tutta qui la differenza.
Questo film l’ho visto da bambino e non me lo sono più dimenticato. Faceva impressione, faceva pensare ma faceva ridere. La voce tonante e bene impostata, lo scoprirò molti anni più tardi, era quella di Nicola Rossi Lemeni, un grande cantante d’opera, voce di basso. Poi c’era Nino Manfredi, che è il cameriere che deve dare uno schiaffo perché è stato licenziato; Paolo Stoppa, che considera suo benefattore quello che in realtà è l’amante della moglie (quasi un Pirandello, con uno Stoppa in stato di grazia); Gassmann l’elegantone che vuole essere risarcito dal bambino che gli ha tirato una pummarola fracica sul cappello nuovo; un efficientissimo Alberto Sordi impegnato in un losco traffico di bambini; Fernandel che pedina una signora bella e vistosa; Franco e Ciccio che cercano di essere assunti come inservienti per il gran ballo; e la “ninna nanna” del razzista, preludio non al Giudizio ma al Diluvio Universale; o forse solo ad un po’ di pioggia, nel qual caso si può far finta di niente e tornare a comportarsi come si è sempre fatto.