lunedì 9 aprile 2007

Il tesoro della Sierra Madre

The Treasure of the Sierra Madre di John Huston (1948) Dal romanzo di B.Traven Con Humphrey Bogart, Walter Huston, Tim Holt Musica: Max Steiner Fotografia di Ted McCord (126 minuti) Rating IMDb: 8.5
Giuliano
All'inizio del film, Humphrey Bogart è uno yankee in Messico, a Tampico. Se la passa molto male: è sporco, malvestito e in disgrazia, costretto a chiedere l'elemosina di qualche spicciolo ai suoi compatrioti di passaggio; ma a testa bassa, perché si vergogna. E' in buona compagnia: ci sono altri americani come lui, in città. Sono venuti per cercare l'oro, ma hanno speso tutto quello che avevano e ora non possono nemmeno più ripartire. A lui si avvicina un bambino messicano, dal volto bello e dolce, che gli propone l'acquisto (ma solo per un quarto ) di un biglietto della lotteria. Bogart è proprio seccato, e lo scaccia malamente; ma il bambino ritorna, insiste, non ne vuole sapere di andarsene. L'americano gli getta perfino un bicchiere d'acqua in faccia, ma il bambino è sempre lì, implacabile, insistente, il bel viso a mostrare un sincero dispiacere. Che fare? L'americano straccione acconsente, pur di liberarsi della sua presenza. Ma il bambino se lo ritroverà davanti, il giorno dopo, ancora ad insistere: perché il biglietto ha vinto, e ora Bogart potrà ritirare il premio ed organizzare la sua spedizione sulle colline, alla ricerca dell'oro e della ricchezza.E' un angelo questo bambino? Parrebbe di sì, ne ha tutti i tratti. Ma la seconda parte del film sembra smentire l'apparenza, o forse noi non siamo mai abbastanza attenti a quello che ci mette davanti il nostro destino e non sappiamo capire quello che ci suggerisce. Con due compagni, un suo amico (l'attore Tim Holt) e un esperto cercatore d'oro, la spedizione parte per le colline e avrà successo; ma l'oro conquistato sarà la rovina di Bogart, e alla fine (un finale beffardo, tipico di John Huston) l'oro ritornerà da dove è venuto, sulle colline, spinto dal vento e dalla stupidità umana.La risata finale del vecchio cercatore, interpretato dal grande Walter Huston ( padre del regista ) è il suggello meraviglioso ad un'avventura tragica che è una bella metafora della nostra vita. Sono due angeli anche i compagni di Bogart? Forse sì, sia Huston che Holt ne hanno i tratti: due angeli di Frank Capra, magari; di quelli che ancora devono guadagnarsi i gradi. Da qualche parte, nel film, c'è di sicuro anche il diavolo: c'è ma non si vede, o comunque è difficile riconoscerlo, in mezzo ai tanti comprimari. Forse, il demonio ha trovato fin troppo facile farsi beffe della debolezza di Bogart. Ogni tanto mi sento anch'io come il vecchio Bogey all'inizio del film, perduto e senza speranza in qualche bar di Tampico. E mi arrivano di continuo questi ragazzini con i biglietti della lotteria: e sì, è vero che ogni tanto si vince, ma per quel che mi riguarda quell'oro può starsene sulle montagne. Io ci resto, a Tampico, con la barba lunga, a sperare che le cose cambino, e a vivere con quel che c'è (sapendo già come va a finire).

1 commento:

Solimano ha detto...

Così Angelo Conforti su Cineforum n.277 del settembre 1988:

"(…) Goffredo Fofi ha parlato di “essenza western” del film, cogliendo il riferimento evidente ad una serie di elementi che provengono tutti direttamente dal genere classico per antonomasia del cinema americano: l'assalto al treno, la corsa all'oro, la sparatoria con i banditi e l'inseguimento da parte dei federali, i bivacchi intorno al fuoco, il vecchio ironico e saggio, di cui Walter Huston costruisce un esemplare di straordinaria forza. Ma ci sembra possibile capovolgere il discorso. Riteniamo cioè che il film abbia piuttosto un'“apparenza” western, ma finisca per sradicarne alla base gli stilemi e l'ideologia. Non ci troviamo più di fronte all'universo armonico e unitario che Huston nel film successivo sembra essersi rassegnato a celebrare. Alla nostra analisi si è presentata una realtà scissa e disomogenea: la donna non rappresenta il premio morale per l'eroe, ma soltanto un possibile tranquillo rifugio dopo la sconfitta; il successo materiale resta un sogno irrealizzabile anche per i personaggi positivi della fabula, beffati allo stesso modo del malvagio Dobbs; i valori tradizionali, come l’amicizia e la lealtà, sono tutt'altro che a portata di mano, poiché le azioni umane soggiacciono alla legge dell'individualismo e della sopraffazione; i personaggi non hanno certezze bensì percorrono un faticoso itinerario verso un'amara consapevolezza (compreso lo stesso Howard, che rifiutando lo statuto di verità assoluta alla propria saggezza empirica ha accettato, una volta ancora, di metterla alla prova).
Mentre altri autori della sua generazione illustrano splendidamente la teoria della frontiera, formulata fin dal 1893 dallo storico Frederick Jackson Turner, Huston la mette in questione, comincia a sottoporla a quella analisi critica che solo una ventina d'anni più tardi darà i suoi frutti. La rapacità che si cela dietro la leggenda del pionierismo riproduce le caratteristiche che giustificano il modello sociale capitalistico. La sequenza della discussione sulla spartizione dell’oro, che abbiamo già esaminato, esplicita questi temi: Dobbs vorrebbe applicare rigidamente le norme delle società di capitali, Howard con un moto di disgusto precisa il senso di quella che sarà la sua scelta definitiva; egli disprezza e condanna quei principi fino al punto di rinnegare lucidamente e consapevolmente il modello di vita che da essi dipende. Così Huston anticipa strutture narrative e tematiche che saranno centrali nel film sulla crisi del sogno americano e soprattutto negli western crepuscolari degli anni '60. Howard che rimane con gli indios può far pensare al personaggio interpretato da Robert Ryan che, al termine di The Wild Bunch (Il mucchio selvaggio, 1969) di Sam Peckimpah, si unisce ai ribelli messicani. Howard è, come tutti i personaggi hustoniani, uno sconfitto in partenza che però non rinuncia alla lotta e alla ricerca, obbedisce ad un preciso codice d'onore, pur avendo la perfetta consapevolezza di vivere in un mondo dominato dai rapporti di forza; perciò la sua scelta è completamente priva di nostalgia: la leggendaria epopea della frontiera è ai suoi occhi una ben misera realtà di avidità e violenza.
In relazione a questo ordine di considerazioni, il film introduce un'altra interessante novità nel superamento dell'etnocentrismo, attraverso la contrapposizione tra il modello sociale capitalistico e quello più autentico ed umano rappresentato dalla tribù di Indios. Un atteggiamento di tal sorta, destinato ad essere ripreso ed ampliato più tardi, costituisce un ulteriore contributo alla revisione critica del mito e alla dissoluzione dei generi classici, tendenze che si affermeranno pienamente solo a partire dagli anni '60". (…)