domenica 29 aprile 2007

Io ballo da sola

Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci (1995) Sceneggiatura di Susan Minot Con Liv Tyler, Joseph Fiennes, Jason Fleming, Jeremy Irons, Carlo Cecchi, Sinéad Cusack, Stefania Sandrelli Musica: Richard Hartley Fotografia: Darius Khondji (113 minuti) Rating IMDb: 6.2
Giuliano
Un mio collega, quando uscì il film, me lo sintetizzò così: "c'è una ragazza che vuole perdere la verginità, e alla fine ci riesce". Una sintesi un po' rozza, d'altronde quel mio collega non era una cima; e quantomeno aveva apprezzato il film perché molto bello. La cosa preoccupante è che la gran parte della critica, sui giornali e in tv, non si era allontanata molto da questa sintesi. Cosa ha fatto Bertolucci con "Io ballo da sola", al di là della storia che vi è raccontata? Il film potrebbe essere ribattezzato "La morte e la fanciulla", come il lied di Schubert; ed è la rappresentazione moderna di una Vanitas, genere pittorico tipico del Seicento del quale è tipico e magnifico rappresentante il quadro di Cagnacci. C'è tutto, di quel quadro e della Vanitas, nel film di Bertolucci: al centro, la ragazza giovane e fiorente; e, nei dintorni, il tempo che passa e tutti i suoi segni. Non è casuale la scelta di Liv Tyler, all’epoca giovanissima: non una ragazzina esangue, pallida e sognante, ma alta, forte e robusta – proprio come la giovane donna al centro del dipinto di Cagnacci. Ricordo una recensione d’epoca, penso che fosse quella di Lietta Tornabuoni sull’Espresso, dove si sottolineava come un errore la scelta di questa ragazza “dalle caviglie grosse”, eccetera. Questo significa non aver capito il film, non è la prima volta che capita e ogni tanto mi ritrovo a pensare che dev’essere ben triste fare il critico cinematografico di professione: ti tocca andare a vedere anche i film che non avresti voglia di vedere, magari nella sera sbagliata. Capita anche a noi, ma almeno non siamo costretti a scriverne il giorno dopo... A questo punto devo confessare un mio peccato grave: all’epoca dell’uscita del film non ero andato a vederlo, l’ho recuperato in tv anni dopo. Non mi ero fidato di Bernardo Bertolucci, e ho sbagliato. Di Bertolucci bisogna fidarsi sempre: ha sempre ragione lui, magari ha girato un film diverso da quello che ci aspettavamo, ma sa sempre quello che fa e perché lo fa; e ha una capacità professionale così grande che lo mette al riparo dalla mancata riuscita. E, dunque, attenti: quando guardate un film di Bernardo Bertolucci state bene attenti, pensateci sopra, e non limitatevi alla prima impressione.
P.S. Liv Tyler può aspettare, avremo modo, inserisco la Vanitas di Guido Cagnacci e ne scrivo nei commenti (s.)

9 commenti:

Solimano ha detto...

Il primo novembre 2003, dopo essere andato a vedere con un amico la mostra del Guercino a Milano, pubblicai uno Stile libero di cui porto qui la parte finale:

"E' esposto un quadro di Guido Cagnacci, un pittore romagnolo contemporaneo del Guercino e rivalutato da diversi critici negli ultimi decenni. E' noto al di là degli appassionati d'arte perché è l'autore di nudi femminili molto sensuali, per merito dei quali fu ospitato nei suoi ultimi anni alla corte di Vienna dal giovane imperatore Leopoldo. In genere, la scusa per le rappresentazioni Cagnacci la trovava nella storia mitizzata, ad esempio Cleopatra che si fa mordere dall'aspide.
Il quadro esposto a Milano è di questo tipo, ma solo in parte. E' una Allegoria della Vita e della Morte, in cui una bellissima donna nuda è rappresentata assieme a simboli della transitorietà. Quadri allegorici su un tema del genere se ne facevano tanti, ed il più noto è quello del Bronzino che è nella National Gallery di Londra, e che per secoli è stato considerato quasi più pornografico che erotico, mentre si è scoperto che si basa su un programma iconografico molto complesso: non è Venere e Cupido che si baciano, ma è una Allegoria del Tempo e dell'Amore.
Nel quadro del Cagnacci che ho visto ieri, tanti sono i simboli della transitorietà: la clessidra, in cui tutta la sabbia è ormai scesa nella parte inferiore; il teschio, e vabbè questo lo sappiamo tutti; le candele accese che sono quasi terminate, ed allora le candele facevano parte del concreto vivere quotidiano.
Ma ci sono anche due simboli molto particolari: c'è in alto il serpente che divora sé stesso, simbolo che risale addirittura all'antico Egitto, e c'è un fiore sbocciato, con i petali allargati quindi presto caduchi; anche questo era abbastanza usuale, ma vicino al fiore c'è un tarassaco che è divenuto un soffione: una sfera lieve di semi piccoli che basta un soffio a disperdere nell'aria. Questo fiore è talmente comune da avere una serie di soprannomi, oltre a soffione, ad esempio c'è piscialetto, che denigra il suo bellissimo colore giallo dorato.
Chi ha dettato i simboli al Cagnacci sapeva benissimo che il soffione non può essere simbolo di morte, ma di transitorietà: noi col soffio lo distruggiamo; così facendo lo aiutiamo a disperdere da tutte le parti i suoi semi. Difatti, basta vedere quanti ce ne sono di soffioni nei prati in primavera e d'estate. Infine, dietro il tarassaco c'è una altro significato, perché le erbe allora le conoscevano molto più di noi: il tarassaco è un'erba amara."

Giuliano, il Rating IMDb piuttosto basso, specie considerato che il numero di votanti è alto, mi conferma una cosa che so da tempo: Bernardo Bertolucci dà fastidio, specie per il suo modo diretto ed erotico di guardare la bellezza femminile, che ho già detto che ha in comune con alcuni grandi pittori: Correggio, Tiziano, Veronese, Rubens, Manet, Renoir. I nostri sono tempi liberi solo in apparenza, lo sguardo convintamente e felicemente erotico si è quasi estinto, a pro' di banalizzazioni losche e di enfasi siliconiche, che sono persino peggio dei mutandoni di censura imposte a quel dì alle gemelle Kessler. Bertolucci su questo non fa polemiche: continua con coerenza a guardare ammirato, ha cominciato così nei suoi primissimi film ed è un aspetto positivo anche in certi suoi film meno riusciti di altri. Concordo con te: i film di Bernardo Bertolucci non bisogna perderli, tanto meno sottovalutarli.

saludos
Solimano

Giuliano ha detto...

Forse bisognerebbe aggiungere anche il lied di Schubert, perché su “La morte e la fanciulla” è facile generare equivoci, è un titolo che è stato molto usurato da interpretazioni sbrigative e giochini. Ma penso che si trovi facilmente anche in rete, per esempio sul sito www.recmusic.org E’ un motivo tipicamente romantico, cupo e inquietante. Provo a riassumerlo: una giovane viene avvicinata dalla Morte (che in tedesco è maschile: Der Tod – nel film la sfiora Jeremy Irons) e le dice di andarsene; ma la Morte le risponde che non deve aver paura, che è sua amica e che anzi dovrebbe abbandonarsi a lei. Due strofe brevissime, scritte dal poeta Matthias Claudius a inizio 800, in pieno periodo romantico. Schubert ne ha tratto un lied (cioè una canzone, per voce e pianoforte) e un famoso quartetto d’archi. Ce ne sono molte grandi interpretazioni, ma la versione di Kathleen Ferrier (con Bruno Walter al pianoforte) è ineguagliabile.

Solimano ha detto...

Giuliano, pensandoci un po', è molto vero che nel film la storia non è focalizzata solo sulla ragazza ma anche su diversi altri personaggi, uomini e donne, con storie personali complesse. La serietà di Bertolucci si vede nel fatto che in queste storie non c'è niente di macchiettistico, come succede nella generalità dei casi dei film corali all'italiana, ma sono persone vere, di sentimenti, di speranze, di nostalgie, di rapporti fra di loro. Aiuta anche il paesaggio toscano, però non da cartolina. Il film è una specie di serio idillio, e il nome di Schubert è appropriatissimo. Mi fa specie che Schubert, dopo aver scritto il lieder, che è brevissimo, abbia costruito il quartetto che è uno dei suoi tre maggiori, non lungo come il numero 15, che oltrepassa i cinquanta minuti, ma non molto lontano. E' l'operazione che fece anche col quintetto Die Forellen, nato anch'esso da un lieder, che ha un organico strano, se ricordo bene due violini, una viola, un violoncello e un contrabbasso. Lo ascolto spesso, specie le variazioni che ne costituiscono il secondo tempo, e che sono variazioni sul tema del lieder. Non so se Bertolucci sapesse molte cose riguardo Schubert, certamente fu ben consigliato. Nei suoi primissimi film è presente invece la musica lirica, che costituisce quasi il deus ex machina dello scioglimento de La Strategia del Ragno, chissà se Borges l'ha mai saputo!

saludos
Solimano

Giuliano ha detto...

Il film che ha girato dopo di questo è "L'assedio": tutto basato sulla musica, e sui silenzi. Perciò credo proprio che i riferimenti musicali siano fortemente voluti da Bertolucci (però non gliel'ho chiesto, potrei anche sbagliare...)

Solimano ha detto...

Inserisco la recensione che scrisse Tullio Kezich sul Corriere della Sera. Non ho la data, ma è evidentemente stata scritta poco dopo l'uscira del film:

"Ora capisco perché l'estate scorsa, quando andai in Toscana a fargli un'intervista mentre girava «Io ballo da sola», Bernardo Bertolucci mi parlò a lungo della sua ammirazione per Jean Renoir: e confermò, infine, che il film della sua vita continua a essere La règle du jeu. Non è per caso, insomma, che la nuova pellicola di Bernardo, scritta a quattro mani con la delicata romanziera Susan Minot, ha la concertazione corale, il gusto paesaggistico e la finezza di certe opere renoiriane come Picnic alla francese. Di fronte all'impegno di delineare con tocchi lievi il ritratto elusivo di una giovane donna, si pensa addirittura alla pittura di Renoir padre. In questo senso va interpretato il prologo, un filmetto amatoriale che un ignoto compagno di viaggio gira sull'aereo che porta Lucy a Roma, pedinandola poi sul treno fino all'arrivo a Siena dove senza palesarsi l'anonimo filmmaker le regala la cassetta. Inutile precisare che nel tenero voyeur il regista del film rappresenta se stesso, confessando il proposito di osservare lo sboccio di una giovane donna. Ma oltre a spiare il personaggio, l'autore non esita a considerarlo una metafora di se stesso: il tutto secondo le migliori tradizioni letterarie dai tempi del rapporto di Flaubert con Emma Bovary o di James con certe sue eroine. Ambientato in una comunità anglofona, fra suggestive sculture che nella realtà sono creazioni di Matthew Spender figlio toscanizzato del poeta, il racconto ha una chiave da «mistery»: quello di Lucy, è un pellegrinaggio nei luoghi dove la madre, poetessa e suicida, fu brevemente felice; e dove la ragazzina, qualche anno fa, provò l'ebbrezza del primo bacio di un italiano che ora brama di ritrovare. Suo padre (rimasto in America, non lo vedremo mai, non conosceremo le sue oscure motivazioni: sarebbe materia per un altro film) ha premiato Lucy mandandola a farsi un ritratto scolpito nel legno da Ian (Donal McCann), un artista scontroso che vive nella casa in collina con la moglie Diane (Sinead Cusack) e una piccola corte di espatriati. In tale cerchia la protagonista vorrebbe scoprire l'uomo che, amando la madre una sola notte secondo una poesia della scomparsa, la generò: insomma il suo vero padre. Potrebbe essere lo scrittore Alex (Jeremy Irons, un'interpretazione da brivido) che al contatto dell'americanina sopporterà meglio il suo destino di malato terminale; o Carlo (Cecchi), giornalista snob che conosciamo meglio nel corso di una festa felliniana in una grande villa rinascimentale, mentre rievoca ballando la caduta di Saigon; e invece, come nei gialli di qualità, si affaccia insospettabile il terzo uomo. Intanto Lucy flirta a vuoto con il suo ammiratore di un tempo, che riscopre inaffidabile(…), e finisce per immolare lietamente la sua verginità con il fratello minore di costui (Ignazio Oliva) sotto una grande quercia in cima a un poggio. Dalla giovinetta emerge la donna proprio come dal legno, sotto lo scalpello di Ian, vien fuori la sua immagine. Un concerto di armonie che vanno da Mozart alla musica pop, animano la scena altri personaggi: c'è il patetico patriarca Jean Marais in figura di arteriosclerotico mercante d'arte, passa e spassa la nostra Stefania Sandrelli occupata a sedurre il giovanotto Francesco Siciliano, suscita sarcasmi l'atletico americano D.W. Moffet che un pensierino su Lucy se lo fa anche lui... E tuttavia l'occhio della macchina da presa dell'operatore Darius Khondji sembra calamitato dal volto di «Lucy in The Sky», così la chiama Alex prendendo a prestito un titolo dei Beatles, impenetrabile dietro la maschera acqua e sapone come lo sono i più ineffabili segreti della vita: un personaggio che il regista ghermisce e serra palpitante nell'incarnazione stupefacente di Liv Tyler. Ormai liberato dal pessimismo edipico di Strategia del ragno, circondato dai paesaggi stregati della grande pittura rinascimentale, Bertolucci al di là delle «regole del gioco» scopre che si può pervenire alla perfetta letizia nel rapporto fra genitori e figli; e di conseguenza «Io ballo da sola» riesce a trasformare la bellezza in serenità. Non mi stupirei se questo film diventasse un classico".

claudio ha detto...
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mazapegul ha detto...

A me il film di Bertolucci non era piaciuto, ma dovrei forse rivederlo alla luce dei commenti di Giuliano e Solimano, che devono averci guardato dentro con maggior attenzione.
Vidi il film col mio relatore di tesi in un cinema di St. Louis. Gli americani sono molto sensibili al fascino della campagna toscana e del savoir vivre all'italiana, ma il film non piacque neppure a lui.
Il mio parere di spettatore distratto è che Bertolucci, una volta finito il contesto politico in cui aveva saputo fare dei grandi film -forse insinceri, ma inavvertitamente-, non abbia più prodotto nulla di avvincente. Questo film a me parve una celebrazione del bel vivere di una elite intellettual-chic. Per carità, nessuno dice che si debba vivere male, o essere ignoranti, o rozzi; ma uscendo dal cinema ebbi l'impressione d'esser stato truffato di dieci dollari e di due ore.

mazapegul ha detto...

PS Diffido della recensione di chi chiama il regista "Bernardo".

Solimano ha detto...

Mazapegul, non ci sarebbe poi molto di male ad essere intellettuali, radicali e chic: sempre meglio che essere ignoranti, corrivi e fantozziani.
Ma è vero che c'è questa componente. Però il paesaggio è splendido, non da cartolina, gli attori sono bravi, e le storie personali non sono macchiettistiche, hanno una loro profondità.
Il discorso che fai riguardo a Bertolucci politico è in buona parte corretto. Io sostengo che ha voluto fare il politico per fare il gramsciano (un po' in ritardo), anche per ambizione personale. Il meglio però lo tira fuori quando entra in un rapporto che chiamo erotico non solo con la donna, ma con la realtà: il fascino di lunghi brani del Tè nel deserto nasce di qui. Poi, ha voluto fare il filmaccione all'americana, c'è pure riuscito, ma è il Bertolucci che mi piace di meno.
Riguardo Kezich che lo chiama Bernardo, hai fatto bene a notarlo, ma succede così dappertutto: nella pittura, nella letteratura, nella musica, nelle aziende multinazionali, secondo me, anche se meno, succede anche nelle matematiche. Però è bene accorgersi quando succede: vedendole, con queste pulsioni lobbystiche di dominanza i conti ci si fanno meglio. Cancellarle non si può, fanno parte del DNA.

saludos
Solimano