lunedì 2 aprile 2007

Il Cielo Sopra Berlino

Der Himmel uber Berlin di Wim Wenders (1987) Sceneggiatura di Peter Handke, Richard Reitinger Con Bruno Ganz, Solveig Dommartin, Peter Falk Musica di Jurgen Kniepel Fotografia di Henri Alekan (127 minuti) Rating IMDb: 8.0
Nicola
Quando vidi Il Cielo Sopra Berlino rimasi deluso. Conoscevo di Wim Wenders dei film aventi al loro centro i mezzi stessi della comunicazione e della visione: il fare cinema, lo scattare fotografie, il passaggio dell'immagine da fissa a mobile tramite la "farfalla" del proiettore. In questi altri film il regista s'era confrontato con la propria difficoltà di intellettuale europeo nel narrare storie: il narratore consapevole narra solo di ciò che sa, che è il mestiere di narrare, ma così cade nella circolarità, quindi nella frustrazione. I registi americani, invece...
Le non-storie di Wenders erano monotematiche, ma autentiche; il suo bianco e nero era bellissimo; i dialoghi pieni di idee, ma anche di autoironia. Quella degli angeli su Berlino, al contrario, mi parve una favola poco sincera. All'inizio due angeli ascoltano con impotente partecipazione i pensieri delle persone. Uno di questi, però, per amore decide di rinunciare al proprio stato di angelo. Perde la capacità di ascoltare i pensieri, ma acquista una vista a colori (la prima parte del film è in bianco e nero), aiutato da un altro angelo caduto, Peter Falk (che nel film recita se stesso). Prima ascoltava i pensieri, ma non poteva entrare in contatto con le persone; dopo è una persona normale a contatto con altre persone normali.
L'impressione d'insincerità mi veniva dallo scarto tra la semplicità dell'idea metafisica e l'intellettualismo macchinoso dei personaggi; per cui l'idea semplice (l'angelo che cade per amore degli uomini) pareva un po' studiata a tavolino e superimposta allo stile solito di Wenders. Un film "buonista", insomma.
Col passare del tempo, però, mi parve che la storia ammettesse un'interpretazione diversa e metaforica, che la rendeva più simile ad altre storie dello stesso regista. I due angeli sono registi-intellettuali europei alla maniera di Bergman, Wenders, Bresson. Meglio ancora, sono registi tedeschi espressionisti (Murnau, Wiene, Lang): le bellissime scene iniziali in cui volano "in soggettiva" dalla cima d'un grattacielo fin giù nelle strade di Berlino ha la visionarietà cinetica e non-euclidea del cinema tedesco pre-nazista. Da intellettuali sanno entrare nei pensieri delle persone, ne conoscono la psiche e le pulsioni in profondità, ma non possono entrare in autentica comunicazione con esse. Sappiamo invece che i costruttori americani di film popolari non hanno in genere nessuna forma di penetrazione psicologica (nei film americani, per dirne una, non esistono personaggi verosimili di bambini), ma sanno benissimo comunicare. Questa è la caduta che attende l'angelo interpretato da Bruno Ganz: da intellettuale che sa ascoltare a intellettuale che sa comunicare; da colui che sa vedere a colui che si fa vedere; da osservatore a soggetto.
Così, nel Cielo Sopra Berlino il desiderio di Wenders di diventare un ingenuo narratore di storie diventa caduta (di un angelo), ma anche incarnazione (in un uomo). Oltre che all'inizio, i riferimenti al cinema sono sparsi un po' dappertutto. L'altro angelo caduto è Falk, un bravissimo attore che è famoso soprattutto per la popolarissima serie Colombo. La ragazza di cui s'innamora l'angelo è trapezista in un circo e il circo, oltre che luogo medio tra realtà e finzione, è una piccola società in cui si è al tempo stesso del tutto umani (in piena fisicità) e in tutto persone di spettacolo. Da un ambiente assai simile al circo viene Chaplin, il più grande uomo di cinema di tutti i tempi per la sua capacità unica di comunicare universalmente una intensa e profonda rappresentazione dell'umanità.
Così, mi piace pensare, l'incarnazione dell'angelo è metafora del percorso che il regista vorrebbe fare per scendere dalla propria torre d'avorio in direzione delle affollate strade cittadine. Ciò che Wenders non è mai riuscito a fare veramente, e il film lascia comunque un sapore di inconcluso.

4 commenti:

Giuliano ha detto...

Ho pensato più di una volta che se avessi fatto cinema i miei film sarebbero stati quelli di Wenders, e che se avessi scritto musica sarei stato Dimitri Shostakovic. Per Wenders ho sempre avuto un’ammirazione sconfinata, e un grande affetto – anche se negli ultimi anni, come è comprensibile, ha avuto qualche pausa di troppo. Non pensavo di leggere ancora qualcosa di nuovo riguardo a questo film, e di questo ringrazio Nicola. E’ molto bella la citazione del “Circo” di Chaplin: la figura della trapezista viene proprio da lì. Ed è perfetto il riferimento al cinema muto: nel passaggio dal muto al sonoro molto si è perso, lo dicevano sia Chaplin che Kubrick; ed anche questo è un discorso che meriterebbe molto spazio. P.S.: Solveig Dommartin è scomparsa proprio quest’anno, aveva la mia età...
saludos, companeros!
Giuliano

Solimano ha detto...

Bello il gioco della identificazione con un regista o con un musicista, non ci avevo mai pensato, mentre mi sono spesso naturalmente identificato con un personaggio di film, di romanzo o di opera lirica (Dulcamara e il Conte di Luna, nell'ultimo caso).
Il cielo sopra Berlino l'ho sentito molto la prima volta che l'ho visto, poi meno, perchè ero piuttosto cambiato, e quindi mutavo un po' i film della mia vita. Mi colpì Bruno Ganz, ma anche Falk e la Dommartin, mi fu chiaro che erano personaggi -simbolo molto forti di stati esistenziali. Simboli non astratti, quindi convincenti. Poi intervenne in me una reazione a tutto ciò che sentivo rapsodico, come certe musiche che non si sa bene come finiscano (mentre Shostacovic lo sa eccome), una tipologia che trovo anche in Tarkovskij e in Kieslowski, altri autori con cui è mutato il mio coinvolgimento, e che Giuliano invece credo prediliga. Di Wenders, rivedrei volentieri Paris Texas, più che Il cielo sopra Berlino. Forse, era molto affascinato da Solveig Dommartin (a ragione!), mi sembra che il suo rapporto con lei nel film fosse come con una laica Beatrice, cosa che non era lontana dalle sue corde, lo ritrovo anche nei riguardi della protagonista di Paris texas, che era Nastassja Kinski. Un modo idoleggiante che mi sento oggi estraneo, fra l'altro mi sembra che molti religiosi apprezzino (o apprezzavano?) Wenders proprio per questo suo modo. Quello che però rivedrei volentieri in Il cielo sopra Berlino è al visionarietà dei palazzi, dei tetti, delle strade e delle biblioteche, come se Wenders le rappresentasse tanto reali da diventare vive come le persone.

saludos
Solimano

Giuliano ha detto...

Forse il difetto di questo film è Peter Handke. Ho provato a leggere Handke, ho ascoltato con cura i dialoghi (e i pensieri) di questo film, ma non ne sono mai venuto a capo. Da un lato, si sente che Handke dà corpo ai film di Wenders, da un altro si sente che li lega e diventa una palla al piede, il che è evidente soprattutto nei primi film di Wenders. Non saprei bene come continuare il discorso, e non so nemmeno se ho ragione o no: però quando si parla di Wenders si parla anche di Handke. Io preferisco Wenders da solo, perché parla per immagini: il cinema è questo, è il “circo Alekan” e non le discussioni più o meno filosofiche.
saludos
Giuliano

Solimano ha detto...

Così Angelo Signorelli su Cineforum n.272 nel marzo 1988:

"Nell'ultima parte di Paris Texas Wenders aveva già costruito una separazione cinematografica dal suolo americano; il groviglio di miti che ricopriva quel territorio immaginario svaniva nella trasformazione della messa in scena. Non era tanto il lungo racconto tra l'uomo e la donna a sancire il venir meno dell'illusione e anche della nostalgia, quanto l'imporsi di un movimento cinematografico, che via via annullava la profondità, fisica e ideologica, degli spazi del sogno e della scoperta. Il paese che aveva alimentato la tensione tra una cultura del disincanto (la vecchia Europa della rivoluzione mancata, della sintesi impossibile tra decadenza e alternativa) e una ricerca del diverso (il rock'n'roll, la sfida on the road, la spettacolarità della fuga) riproduceva ormai i tratti di una finzione finalmente consegnata agli archivi della memoria. Il passato si rivelava come tale, una chimera che aveva consumato la sua legittimità storica, il suo potere di fascinazione e in questo modo apriva ad un viaggio di ritorno. Quei due volti, che si scambiavano i loro riflessi, fino a sovrapporsi in una perdita di identità proprio come immagini, come segni di un presunto ritrovamento, negato dall'evidenza di una storia comunque ripiegata su se stessa, quei volti ponevano fine ad una geometria del movimento, ad un tempo che rinnovava le possibilità. Nel luogo dove non esiste più l'avventura, dove si paga per assistere alla propria impotenza, dove il ricordo conferma la delusione del presente, il cinema stesso proietta la lontananza; il vetro che divide i due esseri diventa alternatamente lo schermo che spegne l'idea stessa del futuro, della speranza e dissolve le strade del Grande Paese, nelle cui immagini c'era comunque la fiducia dell'ingenuità. Anche i volti non sono altro che riflessi, dietro i quali scorrono storie che non significano nulla, perché ormai non hanno alcun potere sul tempo. Wenders era arrivato come ad un limite estremo, ad una rottura cinematografica; il viaggio era terminato veramente. Il suo stesso modo di fare cinema doveva accettare il rischio di un silenzio espressivo, per mancanza di senso. Non era sufficiente tornare indietro, nella terra, nelle città abbandonate, nei luoghi che avevano fatto nascere il desiderio di un altrove, che avevano mosso l'immaginario con tutta la verità della loro insufficienza. Bisognava trovare uno sguardo sulle cose che non fosse ulteriormente falsificato dalle sovrastrutture della visione, ma che aprisse a nuove interrogazioni, attraverso un rapporto disincantato con l'oggetto e che lasciasse a quest'ultimo la «libertà» di essere anche attraverso il simbolo. Tutto quanto era stato consumato nella trascendenza di un apparato rappresentativo che vanificava, fino alla mistificazione, la stessa verosimiglianza, doveva riapparire, ma con tutta la realtà della sua indipendenza, della sua capacità di produrre segni. Così pure il soggetto poteva ritrovare la sua distanza e riprendere la riflessione sul proprio sguardo, riconquistando la propria trascendentalità e quindi riaprirsi alla scoperta, alla sorpresa. Wenders lascia un'idea, una visione dell'America, che va a far parte di un repertorio, di una storia conclusa, oggettivamente e soggettivamente, forse con la consapevolezza di una saturazione semantica, di una ridondanza che avrebbero potuto comprimere le sue energie d'autore. Egli comunque non realizza un semplice ritorno a casa; aggira la regressione mettendo in atto una visione sul mondo che, dopo la rinuncia, si interroga sulle realtà, sulle forme del presente riconsegnato ai suoi colori, alle sue tensioni, alle sue immagini. Wenders approda a Berlino, nel cuore della Vecchia Europa; una città paradossale, la cui divisione è parte integrante della sua vitalità, una città che mostra ancora di ricordare una tragedia ovunque dimenticata, un luogo che, quasi con esasperazione, vuole essere una meraviglia per gli stranieri che vi giungono o vi vengono condotti. La sua continua ricostruzione non impedisce che il visitatore si attenda di ritrovare, ad ogni angolo, le tracce di un tempo passato, miracolosamente risparmiate dalla furia degli eventi. Dove un muro eretto dall'intelligenza dell'uomo muove infiniti pensieri, tranne quello della sua possibile demolizione. Intorno a questa ferita e a questa frontiera, in questa terra di nessuno, la macchina da presa di Wenders si aggira per trovare storie, momenti di rappresentazione. Il cielo sopra Berlino inizia con l'immagine di una mano che scrive il testo di una poesia che parla di bambini; poi si vede il cielo, un occhio che guarda, una bambina che vede l'angelo, le rovine della chiesa, lasciate lì forse con la malafede di chi nasconde la propria violenza dietro la lezione del passato, un appartamento, un balcone, un giardinetto. Quindi la biblioteca, dove si ritrovano gli angeli, quasi a proteggere quelle menti che si nutrono di parole, e insieme di esperienze. È già un percorso tra gli elementi della cultura occidentale: la scrittura, lo sguardo, la memoria, l'immaginazione, il libro, il limite, l'altro, il sapere... È una visione dall'alto, una soggettiva dello spirito, ma l'angelo sente il bisogno di partecipare alla finitezza, alle circostanze che esauriscono l'esistenza degli individui. Egli di quelle cose percepisce la forma (il bianco e nero idealizza il referente, lo tratteggia, lo intensifica, lo sublima nel rinforzarne l'espressione) e la cattura, ma l'oggetto rimane, per essere toccato, per essere spostato, per essere la causa di un'azione, e quindi prendere parte alla gioia, al dolore. Gli angeli sono tristi perché di fronte a loro c'è un enorme schermo, che restituisce uno spettacolo di cose incomprensibili, ma che costruiscono la presenza di una persona: i gesti di ogni giorno, i desideri, le delusioni, le aspettative, una tazza di caffè. L'angelo è stanco della sua immortalità e della sua lontananza; nessuno lo può vedere (tranne i bambini, ma la loro è solo un'infinita curiosità), nessuno lo può toccare; egli desidera abitare tra coloro che ogni giorno correggono la propria conoscenza e sperano che almeno un sogno possa realizzarsi. La biblioteca è come un grande magazzino che raccoglie le infinite occasioni della specie umana per giungere all'autocoscienza, ma vi domina il vuoto, la morte quando non ci sono lettori che, attualizzando i tentativi trascorsi, leggono le ansie, gli «eroismi», le cadute di coloro che li hanno preceduti e, comunque, con loro, costruiscono il futuro della stirpe; gli angeli si ritrovano lì, come a convincersi della loro sconfitta, della loro inutilità. Non possono fare nulla per l'uomo che ha deciso di lanciarsi nel vuoto o per aiutare il vecchio che si aggira nei luoghi dove un tempo c'era la sua casa, la sua città, i suoi percorsi, le sue abitudini e dove ora non esiste più niente, un terreno che vedrà sorgere ulteriori prove della modernità. Come la studentessa che si prostituisce, non più vittima di una condizione sociale, ma naturale prodotto di una realtà che accetta qualsiasi prestazione, qualsiasi scambio. La città è un enorme congegno dove le persone possono trovare infinite occasioni per vivere e per morire, dove qualcuno può sempre sostituire chi vien meno e trovare lo spazio per produrre la propria originalità, che facilmente verrà inghiottita dalla potenza del sistema. In fondo gli angeli sono esseri senz'anima; essi non conoscono la contaminazione che ormai avvolge i gesti di ogni giorno. Probabilmente sono l'incarnazione di speranze, che appartenevano a persone morte da tempo, da lungo tempo, le quali credevano, allora, ad un futuro felice, al trionfo della luce. Perciò ora si aggirano attoniti, pensierosi, increduli di fronte ad uno spettacolo che non capiscono e che allo stesso tempo li trattiene dentro la loro impotenza. Nel loro sguardo si riflette una cultura incapace di spiegare le molteplici variazioni delle risposte individuali, la necessità dei gesti, delle parole. Chi, tra loro, sceglie di rinunciare per sempre alla propria natura, si veste di colori vivaci, di pessimo gusto, si fa subito imbrogliare, ma con gioia, e va alla ricerca di un incontro che forse potrà ancora giustificare quella cultura della speranza, del sogno, della moralità. È di una bellezza inquietante la dissolvenza che, dall'interno della macchina dove siede l'angelo trapassa nell'interno di un'altra macchina che sta attraversando la città distrutta dai bombardamenti, dove uomini comuni sono diventati improvvisamente testimoni di una catastrofe provocata da esseri simili a loro, nel corpo e nello spirito. Che di altri corpi hanno fatto mucchi, ora mossi dalle scavatrici, come ingombri, per essere ricoperti dalla terra che avrebbe potuto sostenere destini diversi. Qui l'angelo sembra non comprendere: appollaiato sulla sua immagine in metallo non vede che i predicatori di idee universali, di categorie, hanno soffocato nel sangue le classi che in quella universalità non si riconoscevano. L'angelo può penetrare oltre il muro, non visto, ma il suo movimento non determina alcuna storia, alcuna violenza; tutto resta come prima, nessuno si è accorto di nulla.
Wenders esce dall'America, ritorna in una patria martoriata dal passato, sbigottita dal presente, impossibilitata a pensare il futuro; in questo modo egli rovescia la comoda supposizione del rientro. Egli vuole che ogni piccola cosa, ogni immagine esprima il disagio, la difficoltà, l'inevitabile fatica che accompagna l'essere al mondo, l'essere per l'altro. Anche nel piccolo circo si sopravvive, mentre i bambini guardano e si divertono; il volo della trapezista è un'aspirazione di armonia in una scatola chiusa. Alla fine tutti si lasciano, ognuno con la propria peregrinazione e con la propria solitudine; anche la donna, che aveva riempito l'immagine con la bellezza del suo corpo, si ritrova sola, in mezzo alla pista, allo scoperto, senza un luogo sicuro dove andare. Quando trova un compagno, fa un lungo discorso, ma quelle parole affascinanti sono ancora un progetto, una possibilità, un mucchio di domande.
Ne Il cielo sopra Berlino c'è un ex-angelo che ha deciso di divertirsi facendo l'attore, è portatore di una saggezza pratica, gode di una buona reputazione tra gli uomini per le sue capacità di risolvere i casi più difficili, sa gustare i piccoli piaceri dalla vita, ha un fare paterno con coloro che si rivolgono a lui per avere consigli su come arrangiarsi, ha lo sguardo furbo di chi ha visto molto e capito: il tenente Colombo. Una figura della finzione diventa una sorta di presenza reale, conservando i propri connotati, quasi a colmare un vuoto di personaggi, una carenza di opportunità. Se da una parte Peter Falk rimane un oggetto cinematografico, una figura che sostiene narrativamente la presenza del cinema come momento di ulteriore riflessione, dall'altra egli propone una positività che si esprime semplicemente nella particolare forma di vita; egli è un naufrago disincantato, che lavora coscientemente con il travestimento, che gioca con gli oggetti e con la loro rappresentatività (come nella sequenza dei cappelli), che si ferma ad un chiosco e parla di cose concrete. È colui che è sceso dal cielo in senso letterale ed ora possiede la conoscenza, accompagnata da quel sorriso sornione che ammicca alla sua ambiguità di personaggio riconoscibile. Dietro di lui si muove la macchina del cinema, si costruisce un film, un noir ambientato nel periodo del nazismo, in una scenografia tarkovskiana fatta di sguardi, di detriti, di specchi d'acqua. Il cinema americano riaffiora, ma è quello classico, «puro», che sapeva costruire storie meravigliose, che aveva restituito senso alla tragedia, al melodramma, all'avventura, che aveva inventato le atmosfere del poliziesco, del western, della commedia, che, attraverso le storie, la messa in scena, aveva creato le emozioni ed era riuscito ad essere dolce e spietato, ricostruendo tante passioni e tante crudeltà. Quel cinema non conosceva limiti all'invenzione, poteva raccontare qualsiasi cosa, senza problemi di spazio e di tempo; Wenders sembra volerlo ricordare, riportarlo alla luce, anche solo per indicare la ripetitività dell'oggi, lo svuotamento simbolico, la mancanza di intrighi. Il cielo sopra Berlino, come del resto tutto il cinema di Wenders, traduce la ricerca di un linguaggio che vuole ancora porsi come una delle interpretazioni del concreto, attraverso l'intensificazione dei propri elementi espressivi, attraverso un rapporto appassionato con le contraddizioni del mondo".