lunedì 6 agosto 2007

Ingmar Bergman da bambino

Ingmar Bergman a scuola (secondo da sinistra)
Giuliano
Dovevo qualcosa a Nicola, che ha scritto un commento all’intervista a Ingmar Bergman che abbiamo messo on line la settimana scorsa in occasione della morte del grande regista. Quel qualcosa mi è venuto davanti, come capita spesso, cercando un altro qualcosa tra i miei appunti. Si tratta di una pagina da un libro per specialisti, “Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé” di Alice Miller, editore Bollati Boringhieri. E’ un libro che non avrei mai letto se una gentilissima signora, che si occupa a livello professionale di questi temi, non me lo avesse messo tra le mani qualche anno fa. Sono temi delicati, come tutti quelli connessi alla psicanalisi (soprattutto a quella infantile), e mi disturba molto quando, soprattutto in tv, se ne parla con grande leggerezza; e quindi ho un po’ di titubanza nel portare qui questa pagina; lo faccio solo perché mi sembra che siamo tra persone mature e responsabili, e che quindi eventuali commenti saranno ben ponderati. C’è comunque una pagina dedicata a Bergman, e la trascrivo perché è interessante; aggiungo solo che Bergman stesso, in interviste recenti, ha raccontato del rapporto con suo padre ormai anziano, e di come tutto si sia appianato nel corso della loro vita. Il più delle volte ragioniamo sulle cose del mondo guardando alla nostra vita di persone normali, ed è difficile rendersi conto di quanto difficile possa essere stata la vita degli altri, anche delle persone famose e stimate (il padre di Ingmar era, per l’appunto, un rispettabilissimo pastore protestante; e di certo era sicuro di agire nell’interesse dei figli, per il loro bene).

(...) Molto diverso appare l'atteggiamento di Ingmar Bergman, che in una trasmissione televisiva ha parlato in modo molto consapevole della sua infanzia, con maggiore comprensione (sia pure solo intellettuale) di certi nessi. L'infanzia di Bergman era stata, secondo le sue parole, una storia di umiliazioni: l'umiliazione era stata il mezzo pedagogico fondamentale. Quando si bagnava i calzoncini, per esempio, doveva portare per tutto il giorno un vestito rosso, in modo che tutti lo potessero vedere ed egli si vergognasse di fronte a tutti. Bergman era il figlio minore di un pastore protestante. In quella intervista rievocava una scena che doveva essersi ripetuta spesso nella sua infanzia: il fratello maggiore viene frustato sulla schiena dal padre, mentre la madre tampona col cotone il sangue delle ferite e lui sta a guardare, seduto in disparte.
Bergman descrive questa scena senza scomporsi, con un tono assai freddo. È facile immaginarselo bambino mentre se ne sta seduto tranquillo a guardare; non sarà certo fuggito, non avrà chiuso gli occhi, né urlato. Si ha l'impressione che questa scena, certo realmente accaduta, sia però un ricordo di copertura per ciò che è capitato proprio a lui. E’ infatti estremamente improbabile che il padre picchiasse solo suo fratello.
Molti pazienti sono da tempo convinti che solo i loro fratelli abbiano subìto delle umiliazioni. Ci vuole lo smascheramento operato dalla terapia, perché riescano a ricordare e a vivere con sentimenti di collera e di impotenza, nonché di rabbia e di sdegno, quanto si fossero sentiti essi stessi umiliati e abbandonati, quando erano stati riempiti di botte dal loro amato padre.
Nell'accostarsi alla sua sofferenza, comunque, Bergman è riuscito a trovare un'alternativa allo spostamento e alla negazione: girando dei film, ha delegato i suoi spettatori a vivere quei sentimenti che aveva respinto. Potremmo immaginare che noi spettatori riceviamo il compito di percepire i sentimenti che il figlio di quel padre non aveva potuto vivere apertamente, ma che ha sempre custodito nell'animo. Seduti davanti allo schermo, come un tempo il ragazzino dinanzi alla scena descritta in precedenza, siamo messi a confronto con la crudeltà che « nostro fratello » patisce e non ci sentiamo capaci o disposti a recepire tanta brutalità con sentimenti sinceri. La respingiamo. Quando poi Bergman si rammarica di non aver capito prima del 1945 che cos'era il nazismo, malgrado i suoi frequenti viaggi in Germania nel periodo hitleriano, questa mi pare una conseguenza di quell'infanzia. La crudeltà aveva per lui un'aria familiare, l'aria che aveva respirato sin da piccolo. Come avrebbe potuto balzargli agli occhi? (...)
( Alice Miller “Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé”, editore Bollati Boringhieri., pag.86)
(L’infanzia di Bergman è descritta da Bergman stesso nei suoi libri, come “Lanterna magica”, ed. Garzanti)

La mamma di Ingmar Bergman

4 commenti:

Habanera ha detto...

Leggendo questa pagina, bella ed emozionante, non ho potuto fare a meno di pensare che se fosse visibile il fardello che ognuno si porta sulle spalle ci sarebbe molta più comprensione, e tolleranza, tra gli esseri umani.
H.

mazapegul ha detto...

Caro Giuliano,
grazie per la bella, impressionante e utile pagina. Il padre di Bergman si situa in un luogo intermedio tra il vescovo di Fanny e Alexander e il padre della sceneggiatura autobiografica. Interessante che anche il secondo mascheramento di Fanny e Alexander, la figura troppo artisticamente positiva dell'ebreo, venga indirettamente affrontata.
Come ti dicevo, la manipolazione del reale, che rende la finzione narrativa affine al sogno, è segno di una grandezza interiore del regista, più che del suo contrario.
Dopo aver letto questa pagina, stupisce meno che Bergman abbia voluto tornare alla sua infanzia per farsene una nuova (o per testimoniare l'infanzia che si stava facendo interiormente per liberarsi di quella esteriore).

Mi viene in mente solo ora uno degli ultimi momenti del film, quando Alexander incontra il fantasma del vescovo, che gli dice che non si libererà mai della sua presenza. Un film molto più proustiano e molto meno onirico (dove la materia dell'interiorità e del desiderio non è fatta di sogni, ma di memoria) è Distant Voices, Still Present, di Terence Davies. In quel film c'è una figura di padre violento -anche quella, credo, autobiografica-, che, se ben ricordo, muore e riappare sotto forma di fatasma pure lui, dando uno scappellotto al bambino in aggiunta e dicendo le stesse parole del vescovo di Bergman. Il film di Bergman è dell'82, quello di Davies dell'89: forse l'inglese ha voluto citare lo svedese; forse la maniera in cui reagiamo alla violenza famigliare è la stessa per tutti.
Ciao,
Nicola

Giuliano ha detto...

Caro Nicola, una volta che avevo ritrovato questo brano di Alice Miller, questo era un atto dovuto.
Però non si può non pensare a quanto siamo stati fortunati, noi che abbiamo vissuto con genitori sì forti, ma che mai e poi mai avrebbero picchiato i figli... Le sberle di mio padre si contano su metà delle dita di una mano (non solo a me, ma a tutti i tre figli), e poi non erano neanche sberle. Però mi ricordo a scuola, quando avevo preso un brutto voto e un mio compagno di classe mi venne vicino per chiedermi: “...ma poi tuo padre ti mena?”. No, io almeno quella preoccupazione lì non ce l’avevo. Sarei stato male per come ci sarebbe rimasto male lui (che da me si aspettava molto ed ebbe poco), e non è poco.

Solimano ha detto...

Ho riflettuto sul "quando si bagnava i calzoncini".
Si è andati avanti per migliaia di anni a non saper che fare con i bambini che facevano la pipì a letto durante il sonno. In genere li si menava o comunque li si sgridava, salvo negli ultimi cinquant'anni, che i genitori si chiedevano se avessero sbagliato qualcosa loro, magari andando a fare terapia di coppia da uno psicoterapeuta, e spendendo un sacco di soldi.
Dopodiché, da non molto tempo si è scoperto che tutto dipende da una particella del DNA con cui si nasce: se è fatta in un modo non si piscia (per la maggioranza è così), se è fatta in un altro modo si piscia senza remissione, fino all'età della pubertà in cui tutto si aggiusta.
Credo che vi rendiate conto di cosa significa una faccenda del genere.
Il biologico avanza e lo psicologico arretra, è fatale che sia così, come è inevitabile che la crisi del freudismo sia irreversibile: una ottima griglia di interpretazione che, con quello che succede a livello di biologia, servirà sempre di meno.
Il baco non è nel fatto che la psicanalisi non sia scientifica, tante cose non lo sono, il guaio vero è che si atteggia a scientifica senza esserlo, dippiù, a religione, cosa voluta da Freud, che come aveva ben capito Jung, di irrisolto non aveva complessi sessuali ma una irresistibile pulsione di dominanza: si era psicoterapeuti se si passava sotto le forche caudine di un altro psicoterapeuta, e così via, risalendo fino a Freud.
Il tempo, giustamente, sta spazzando via questo vero e proprio monoateismo, che ha vizi del tutto analoghi ai vizi del monoteismo. Ma di monoateismi ne abbiamo conosciuti diversi, nel corso del Novecento, e sappiamo cosa hanno combinato. Almeno Jung, non scientifico anche lui, era un grande inventore di miti simpaticissimi.

saludos
Solimano