Solimano
Quella mattina, al corso Capi, il responsabile del corso entrò in aula - eravamo in venti, la class size giusta - con un libro sospetto. Riconoscevo infatti l’editore dal tipo della copertina, e quel libro aveva la copertina arancione delle edizioni Ubaldini-Astrolabio, libri che io etichettavo come adatti ai mezzi matti. La casa editrice ne aveva poi un’altra serie con la copertina azzurra, che ritenevo adatti ai matti totali e irrecuperabili. E comunque anche la copertina arancione mi faceva specie, ad un corso Capi della grande multinazionale, un corso sulla comunicazione interpersonale. Quel libro era “La Pragmatica della Comunicazione Umana” scritto da Watzlawick, Beavin, Jackson, cioè dalla scuola di Palo Alto, California, che mise i piedi nel piatto delle scuole psicanalitiche e psicodinamiche allora imperanti.
Quella mattina, al corso Capi, il responsabile del corso entrò in aula - eravamo in venti, la class size giusta - con un libro sospetto. Riconoscevo infatti l’editore dal tipo della copertina, e quel libro aveva la copertina arancione delle edizioni Ubaldini-Astrolabio, libri che io etichettavo come adatti ai mezzi matti. La casa editrice ne aveva poi un’altra serie con la copertina azzurra, che ritenevo adatti ai matti totali e irrecuperabili. E comunque anche la copertina arancione mi faceva specie, ad un corso Capi della grande multinazionale, un corso sulla comunicazione interpersonale. Quel libro era “La Pragmatica della Comunicazione Umana” scritto da Watzlawick, Beavin, Jackson, cioè dalla scuola di Palo Alto, California, che mise i piedi nel piatto delle scuole psicanalitiche e psicodinamiche allora imperanti.
Quel libro, che distribuirono ad ognuno di noi alla fine del corso, ce l’ho ancora, un po’ sinistrato e pieno di segnacci di evidenziazioni (segnacci arancioni eh… eh…); è qui accanto a me mentre scrivo e l’ho aperto a caso un momento fa: c’è una vignetta in cui si vede un editore seduto comodo di fronte ad uno scrittore seduto scomodo, e l’editore dice: “You sure write good!” Non sforzatevi, o si capisce subito, altrimenti non c’è niente da fare. Non mi dilungo, riporto soltanto una riga e mezzo che dice una cosa chiara: la comunicazione è considerata come un rapporto qualitativamente differente dalle proprietà degli individui che l'attuano. Anche qui, niente spaventi, o si capisce o no. Se un padre assiste all’ennesimo litigio fra moglie e figlia, forse dice la sua meglio se ad un certo punto si alza serio, va dalla figlia, le dà un euro e torna a sedersi stando zitto. Oppure, se è lui a litigare con la figlia, si accorge – non ci aveva mai badato – che la figlia se ne va indignata in camera sua sbattendo la porta, difatti non riesce a chiuderla adagio, perché ha voglia di dire al padre che loro due dormono in camere separate, e ha trovato il modo comunicativo per dirglielo.
Fine degli esempi, vengo al film, perché, dopo la mattutina spiega sul libro, al pomeriggio ci fecero vedere il film e ci mettemmo quattro ore. Il film è già lungo di suo, ma ogni tanto lo fermavano perché discutessimo su quello che veramente Albee ci stesse dicendo, attraverso Mike Nichols, Elizabeth Taylor, Richard Burton e gli altri due. Se avete visto una volta questo film, comprendete che è ben diverso il modo di Albee da quello - ad esempio - di Tennessee Williams e di Elia Kazan, scrittori e registi geniali, ma anche grandi inquinatori. Mentre Chi ha paura di Virginia Woolf a parte che è il massimo in assoluto che abbia mai fatto quel prodigio - per pochi anni – di Elizabeth Taylor , ci lascia alla fine non oppressi, non intorcinati in problematiche irresolubili, ma belli freschi come dopo una doccia, consigliabile in questi giorni di primo caldo vivo. Perché, infine, se te la prendi con la persona non cavi un ragno dal buco, se ti accorgi che la comunicazione è disturbata metacomunichi, comunichi sulla comunicazione, dicendo ad esempio: “Lo so che non ti piaccio, ascolta solo la cosa che ti dico”, all’altro - o altra – può darsi pure che cominci a piacergli, con un discorso così diretto. In rete uso di frequente le modalità che ho appreso. E’ divertente, nel mondo dei blogger così apparentemente disinvolti ma così cautelosi, nella realtà quotidiana. Certo, si rischia di perdere dei vecchi amici, perché si è fuori dalle strettoie dell’aggressivo vittimismo tipico delle amicizie passate di cottura, ma il mondo è largo, esistono gli amici - e le amiche – nuovi/nuove, e poi dategli tempo, prima o poi i vecchi si svegliano e si danno una regolata.
Di che parla “Chi ha paura di Virginia Woolf”? Sono due coppie, quella più vecchia (Taylor e Burton) fa la scena di fronte a quelle più giovane (Segal/Dennis). Quello che conta è il modo, basato sulla folie à deux, ma sembra che dopo tanti discorsi di pragmatica, di analisi transazionale, e mettiamoci pure il signor Laing, i recensori filmici non si siano ancora accorti del perché questo film costituì una rottura del piagnisteo irrefrenabile e colpevolizzante a 360 gradi che fino a quel 1966 avevano imperversato in lungo e in largo, provocando commozione e lacrime, ma lasciando, alla fine della commedia o del romanzo o del film la situazione esattamente al punto in cui era alla prima pagina o inquadratura. Molto rumore per nulla, e forse esagero, ma non tanto. Ma se non mi credete, gustatevi pure il testo di quel cervello scintillante di Albee, la regia piena di vigore e di finezza di Nichols, e la meraviglia degli attori, in primis Elizabeth: si imbruttisce, è ingrassata, beve come una spugna (beve davvero, secondo me) e rimani lì, come Richard Burton (che beve anche lui) che non sa se ringraziare o maledire il cielo di quello che gli è capitato. Dopo, se volete, tornate pure a quel furbacchione di Tennessee Williams, ma deve stare attento, adesso i suoi trucchi li conoscete, non solo a teatro o al cinema ma anche in due piccoli argomenti del vostro quotidiano: l’amore e il lavoro, non roba teorica, roba molto pratica a cui può darsi che teniate.
Di che parla “Chi ha paura di Virginia Woolf”? Sono due coppie, quella più vecchia (Taylor e Burton) fa la scena di fronte a quelle più giovane (Segal/Dennis). Quello che conta è il modo, basato sulla folie à deux, ma sembra che dopo tanti discorsi di pragmatica, di analisi transazionale, e mettiamoci pure il signor Laing, i recensori filmici non si siano ancora accorti del perché questo film costituì una rottura del piagnisteo irrefrenabile e colpevolizzante a 360 gradi che fino a quel 1966 avevano imperversato in lungo e in largo, provocando commozione e lacrime, ma lasciando, alla fine della commedia o del romanzo o del film la situazione esattamente al punto in cui era alla prima pagina o inquadratura. Molto rumore per nulla, e forse esagero, ma non tanto. Ma se non mi credete, gustatevi pure il testo di quel cervello scintillante di Albee, la regia piena di vigore e di finezza di Nichols, e la meraviglia degli attori, in primis Elizabeth: si imbruttisce, è ingrassata, beve come una spugna (beve davvero, secondo me) e rimani lì, come Richard Burton (che beve anche lui) che non sa se ringraziare o maledire il cielo di quello che gli è capitato. Dopo, se volete, tornate pure a quel furbacchione di Tennessee Williams, ma deve stare attento, adesso i suoi trucchi li conoscete, non solo a teatro o al cinema ma anche in due piccoli argomenti del vostro quotidiano: l’amore e il lavoro, non roba teorica, roba molto pratica a cui può darsi che teniate.
4 commenti:
Leggendo il titolo originale, mi è venuto subito il gioco di parole con “who’s afraid of the big bad wolf?”, “chi ha paura del lupo cattivo?”.
Non mi ricordo molto del film, e non ho mai particolarmente amato questo genere di commedia, forse per colpa del doppiaggio italiano. Lo dico non perché io capisca al volo l’inglese (magari!), ma perché mi è capitato tempo fa di vederlo in lingua originale, e sono rimasto sbalordito. Davvero è un peccato non ascoltare le voci dei grandi attori: provate un po’ a pensare Gassman, Manfredi, Tognazzi, Monica Vitti, doppiati in tedesco...
Forse non c’è nemmeno bisogno di capire i dialoghi, con due attori come la Taylor e Burton. Eliminando il doppiaggio (troppi birignao e troppe voci sempre uguali, soprattutto quelle femminili, in quegli anni 50-60) emerge un gran film, di spessore notevole.
Non pensavo che potesse essere utile a dei futuri manager, però è vero che i rapporti umani passano attraverso i gesti più che le parole. Penso che dovremmo rileggerci Desmond Morris e Konrad Lorenz, e tenerli sempre ben presenti: anche quando andiamo a votare. (ascoltare le parole, prenderne nota e guardare i fatti che ne conseguono, dimenticarsi dell’espressione con cui vengono dette: perché molti politici hanno preso lezioni di recitazione, soprattutto quelli collegati con il mondo della tv) (gli altri, quelli che non sanno recitare – pardon, “comunicare” - perdono voti e consensi anche quando lavorano bene...)
Certo hai ragione per quanto riguarda le voci originali (poter gustare gli originali è sempre meglio in tutto e dappertutto, anche in letteratura, ovviamente), ma per chi non conosca bene la lingua è molto faticoso seguire per la prima volta un film in originale anche se con didascalie. La prima volta io preferisco vedere il film doppiato (anche perchè in Italia abbiamo ottimi doppiatori) e poi, avendo il DVD, passare all'originale prima con sottotitoli e poi gradualmente all'originale e basta. Però questo significa amare molto un film, tanto da volerlo vedere molte volte...
In un film come questo del post, in cui moltissimo è affidato al testo, non capire bene i (serratissimi) dialoghi non mi pare buona cosa, come primo impatto...
Beh, ovvio che hai ragione: magari fossi bilingue!!
Però le voci originali, e magari il suono in presa diretta, hanno sempre un fascino non riproducibile. Pensa ai musical...
Giuliano, per i musical il discorso non si pone nemmeno, secondo me. Le parole dei musical non sono fondamentali (tranne rare eccezioni), ed anche se non si capisce tutto che importa? Lì è più importante il ritmo, la concordanza tra suono delle parole e suono delle musiche (forse non riesco a spiegarmi bene ma sono sicura che capisci quello che intendo dire).
Non c'è niente di più ridicolo del doppiaggio delle parti cantate di un musical. Anche lì, con qualche eccezione (penso a "My Fair Lady", ad es.) che però rappresentano, appunto, eccezioni.
Se poi passiamo all'opera lirica, io non conosco il tedesco, ma mi è capitato, ahimè, di ascoltare opere di Wagner cantate in italiano ed era roba da far venire l'itterizia :-(
Posta un commento