Monsieur Ibrahim et les fleurs du Coran, di François Dupeyron (2003) Racconto di Eric-Emmanuel Schmitt, Sceneggiatura di François Dupeyron, Eric-Emmanuel Schmitt Con Omar Sharif, Pierre Boulanger, Gilbert Melki, Isabelle Renauld, Isabelle Adjani Musica: W.A. Mozart, Johnny Hallyday, Claude Vega, Chuck Berry, Léo Delibes Fotografia: Rémy Chevrin (74 minuti) Rating IMDb: 7.5
Giuliano
Non un bel film, però c’è Omar Sharif che ripaga almeno un po’ del biglietto.
Ma andiamo con ordine: siamo a Parigi, e c’è un ragazzo sui 14 anni che vive coi genitori, figlio unico. Il padre viene lasciato dalla moglie, e per un po’ tira avanti; poi non ce la fa più, scompare. Il ragazzo rimane da solo, non va più a scuola ed ha come unico interlocutore adulto il gestore di un piccolo negozio di quartiere, chiamato “l’arabo del negozio”. (L’arabo gli spiega sorridendo: “però io non sono arabo”). Lo sorprende a rubare qualche scatoletta, intuisce che ci sono dei problemi, gliene dà altre e lo invita a chiedere quando ne ha bisogno.
Nel frattempo, il ragazzo scopre il sesso: ci sono molte prostitute sotto casa, ma vogliono soldi; e per pagarle decide di vendere i preziosi libri del padre. Uno alla volta, li vende tutti: ed ora la casa è vuota. Suo padre collezionava libri bellissimi, vere edizioni d’arte, qualche incunabolo. Ne aveva la casa piena.
Ecco, a questo punto la mia sopportazione è finita. Probabilmente è una storia vera (dietro il film c’è un libro, che spero sia migliore del film), ma questo ragazzo è un vero asino, mi sono detto. Come si fa a provare simpatia, empatia, per un protagonista presentato in questo modo?
E’ su questi particolari che si giudica un regista. Il film è ben fatto, girato da professionista, e si vede: un buon prodotto della scuola francese. Ma un minimo di simpatia per il protagonista bisognerebbe pur provarla, e invece qui ci si limita alla successione dei fatti pura e semplice.
E’ così che il film viene salvato (in parte) dagli altri interpreti, dagli attori veri. E’ il caso del padre del ragazzo, per esempio; e delle attrici che interpretano le prostitute. E’ il caso soprattutto di Omar Sharif, che da questo punto in avanti – sornione come al solito – prende in mano il film e la vicenda. Infatti “l’arabo” (se non ricordo male si tratta di un cittadino turco) praticamente adotta il ragazzo, e quando deve tornare in Turchia per motivi personali se lo porta dietro. E’ qui, nel viaggio in macchina da Parigi all’interno della Turchia, che il film comincia a piacermi. Divertente la scena in cui Sharif insegna al ragazzo a riconoscere i vari templi a occhi chiusi: odore d’incenso, chiesa ortodossa; odore di candele, chiesa cattolica; odore di piedi, una moschea. Una notazione sorridente, che ci mette davanti alla realtà e non più alla finzione: odore di piedi perché ci si toglie le scarpe, e anche perché – notazione triste ma vera – alla moschea ci va tanta gente, e invece le chiese cristiane sono un po’ più vuote.
Il padre del ragazzo non tornerà più (si è suicidato); il vecchio “arabo” morirà nel viaggio di ritorno, e il ragazzo (ebreo parigino) avrà in eredità il negozio. E quando i clienti gli diranno “l’arabo del negozio”, lui risponderà sorridendo: “però io non sono arabo...”.
PS: Questo è un film che non ho deciso di vedere io: mi ci hanno portato, altrimenti non l’avrei mai visto. E’ un film al quale mi legano molti bei ricordi, che col film non hanno niente a che vedere. Ma, forse, se fossimo partiti da un film migliore...
Giuliano
Non un bel film, però c’è Omar Sharif che ripaga almeno un po’ del biglietto.
Ma andiamo con ordine: siamo a Parigi, e c’è un ragazzo sui 14 anni che vive coi genitori, figlio unico. Il padre viene lasciato dalla moglie, e per un po’ tira avanti; poi non ce la fa più, scompare. Il ragazzo rimane da solo, non va più a scuola ed ha come unico interlocutore adulto il gestore di un piccolo negozio di quartiere, chiamato “l’arabo del negozio”. (L’arabo gli spiega sorridendo: “però io non sono arabo”). Lo sorprende a rubare qualche scatoletta, intuisce che ci sono dei problemi, gliene dà altre e lo invita a chiedere quando ne ha bisogno.
Nel frattempo, il ragazzo scopre il sesso: ci sono molte prostitute sotto casa, ma vogliono soldi; e per pagarle decide di vendere i preziosi libri del padre. Uno alla volta, li vende tutti: ed ora la casa è vuota. Suo padre collezionava libri bellissimi, vere edizioni d’arte, qualche incunabolo. Ne aveva la casa piena.
Ecco, a questo punto la mia sopportazione è finita. Probabilmente è una storia vera (dietro il film c’è un libro, che spero sia migliore del film), ma questo ragazzo è un vero asino, mi sono detto. Come si fa a provare simpatia, empatia, per un protagonista presentato in questo modo?
E’ su questi particolari che si giudica un regista. Il film è ben fatto, girato da professionista, e si vede: un buon prodotto della scuola francese. Ma un minimo di simpatia per il protagonista bisognerebbe pur provarla, e invece qui ci si limita alla successione dei fatti pura e semplice.
E’ così che il film viene salvato (in parte) dagli altri interpreti, dagli attori veri. E’ il caso del padre del ragazzo, per esempio; e delle attrici che interpretano le prostitute. E’ il caso soprattutto di Omar Sharif, che da questo punto in avanti – sornione come al solito – prende in mano il film e la vicenda. Infatti “l’arabo” (se non ricordo male si tratta di un cittadino turco) praticamente adotta il ragazzo, e quando deve tornare in Turchia per motivi personali se lo porta dietro. E’ qui, nel viaggio in macchina da Parigi all’interno della Turchia, che il film comincia a piacermi. Divertente la scena in cui Sharif insegna al ragazzo a riconoscere i vari templi a occhi chiusi: odore d’incenso, chiesa ortodossa; odore di candele, chiesa cattolica; odore di piedi, una moschea. Una notazione sorridente, che ci mette davanti alla realtà e non più alla finzione: odore di piedi perché ci si toglie le scarpe, e anche perché – notazione triste ma vera – alla moschea ci va tanta gente, e invece le chiese cristiane sono un po’ più vuote.
Il padre del ragazzo non tornerà più (si è suicidato); il vecchio “arabo” morirà nel viaggio di ritorno, e il ragazzo (ebreo parigino) avrà in eredità il negozio. E quando i clienti gli diranno “l’arabo del negozio”, lui risponderà sorridendo: “però io non sono arabo...”.
PS: Questo è un film che non ho deciso di vedere io: mi ci hanno portato, altrimenti non l’avrei mai visto. E’ un film al quale mi legano molti bei ricordi, che col film non hanno niente a che vedere. Ma, forse, se fossimo partiti da un film migliore...
6 commenti:
Giuliano, quella dei tre odori è formidabile: odore di incenso nella chiesa ortodossa, di candele nella chiesa cattolica, di piedi nella moschea.
Ho apprezzato che tu abbia osservato non che nella maschea sono senza scarpe, men che meno che non si lavano i piedi, ma che le moschee sono più affollate delle chiese.
saludos
Solimano
La battuta sulle tre chiese la dice Sharif nel film, e anche il commento su quale delle tre è più piena. E' un peccato che non me la ricordi bene,è l'unico motivo per cui rivedrei il film.
In questo film c'è molto più di quel che sembra: riferimenti più o meno espliciti al talmud, ai vangeli, al corano, a discussi personaggi parigini, al rapporto tra le tre grandi religioni monoteistiche, con tanti (troppi) riferimenti che finiscono a tratti per essere fuorvianti (vendere TUTTI i libri ha un significato mistico molto chiaro). E, indubbiamente, a tratti possono lasciare perplessi.
Ma sarebbe come guardare "Il Derviscio" di Alberto Rondalli tralasciando completamente la componente sufi della narrazione.
Grazie.
E' un bel commento, grazie Mullah. Difatti è proprio quello di cui mi lamento: questo film si poteva fare meglio. Non so come sia il libro di Eric E. Schmitt, ma penso proprio che sia migliore del film. E' davvero un peccato, perché Sharif è in gran forma.
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