Shijie, di Jia Zhang-ke (2004) Con Thao Zhao, Taiseng Chen, Jue Jing, Zhong-wei Jiang, Yi-qun Wang, Hong Wei Wang, Jing Dong Liang Musica: Giong Lim Fotografia: Nelson Yu Lik-wai (140 minuti) Rating IMDb: 7.1
Giuliano
Il “mondo” è un parco tematico, una specie di Swiss Miniatur a Pekino, dove ci sono tutti i monumenti del mondo, dalla Tour Eiffel alla Torre di Pisa. Il regista, cinese-cinese (è di Pekino), classe 1970, ci racconta la vita di chi ci lavora, ragazzi e ragazze molto giovani e le loro famiglie.
Jia Zhang-ke non nasconde niente: sa essere positivo e felice, ma la fotografia che fa al mondo del lavoro è disperata e angosciante. Racconta di amori e di speranze, ma anche di incidenti mortali sul lavoro, e lo fa con una lucidità che nel nostro cinema si è persa da tempo. Per i film di Jia si è parlato di una specie di neorealismo cinese. C’è molto di vero, ma è diverso l’approccio, diversissimo: Rossellini e De Sica non erano così duri e così spietati. Diversissimo è anche l’approccio visivo di Jia Zhang-ke: quasi tutti campi lunghi e lunghissimi, primi piani quasi inesistenti, il che comporta difficoltà serie non solo nel guardare il film, ma anche nel riconoscere i protagonisti e distinguerli l’uno dall’altro; e forse è proprio questo che cerca di dirci l’autore. Un destino collettivo, noi che ci illudiamo di avere una vita, un destino nostro personale, e invece siamo come pesci in un acquario? Può darsi, ma non mi azzardo a continuare nella mia analisi perché due difficoltà insormontabili mi si pongono davanti: non ho diciott’anni e non sono cinese. Alla seconda posso cercare di supplire in qualche modo, alla prima no; e quindi cedo volentieri la parola a qualcun altro che possa commentare questo film meglio di me. Per parte mia, mi limito a sottolineare l’enorme talento di Jia Zhang-ke.
Però di Jia ho visto anche un’intervista in tv, trasmessa ovviamente alle tre di notte (è così che si fa cultura, in Italia). L’intervista è del 2004, da Venezia, ed è realizzata con l’aiuto di un’interprete italiana della quale ci si potrebbe anche innamorare. Jia sembra un ragazzo anche lui, è di bell’aspetto, molto fine, piccolo di statura e minuto, quasi un bambino; e invece ha già 34 anni. Parla in cinese, sottovoce, e l’interprete traduce velocemente. L’intervista è anche disturbata da una lampada mal messa, molto fastidiosa; ma quello che dice Jia mi convince ad ascoltare e a prendere nota.
Jia dice, per l’appunto, che i film con cui è cresciuto non parlavano mai della vita reale; e la vita reale è questa, le fanciulline coi telefonini e le morti sul lavoro, anche in Cina 2004. Dice cose molto belle, che ne dimostrano la preparazione e la personalità. dice che alla scuola di cinema erano tutti figli di registi, e che per questo lui l’ha abbandonata presto e crede così tanto nel cinema indipendente. Dice di aver girato i suoi film in maniera “illegale”, clandestini o quasi; che sono stati girati in dvd e poi riversati su 35mm; che gli fa piacere che i suoi film, mai distribuiti ufficialmente, circolino con ogni mezzo, comprese le copie pirata. Dice anche, ed è importante, che oggi il digitale costringe a rivedere l’estetica del cinema, a ripensare tutto, dalle luci alla recitazione, e che è un passaggio come quello dal muto al sonoro, o dal bianco e nero al colore.
Ripensandoci, Frank Capra non aveva fatto studi di cinema, e nemmeno Orson Welles, o Fellini, o Rossellini, Billy Wilder, Blake Edwards... Erano tutti venuti su da soli, le scuole di cinema le hanno inventate dopo. Forse è per questo che i film occidentali recenti sembrano tutti uguali, e che per trovare cose nuove dobbiamo andare così lontano, in Corea o in Iran o giù giù fino a Pechino...
Giuliano
Il “mondo” è un parco tematico, una specie di Swiss Miniatur a Pekino, dove ci sono tutti i monumenti del mondo, dalla Tour Eiffel alla Torre di Pisa. Il regista, cinese-cinese (è di Pekino), classe 1970, ci racconta la vita di chi ci lavora, ragazzi e ragazze molto giovani e le loro famiglie.
Jia Zhang-ke non nasconde niente: sa essere positivo e felice, ma la fotografia che fa al mondo del lavoro è disperata e angosciante. Racconta di amori e di speranze, ma anche di incidenti mortali sul lavoro, e lo fa con una lucidità che nel nostro cinema si è persa da tempo. Per i film di Jia si è parlato di una specie di neorealismo cinese. C’è molto di vero, ma è diverso l’approccio, diversissimo: Rossellini e De Sica non erano così duri e così spietati. Diversissimo è anche l’approccio visivo di Jia Zhang-ke: quasi tutti campi lunghi e lunghissimi, primi piani quasi inesistenti, il che comporta difficoltà serie non solo nel guardare il film, ma anche nel riconoscere i protagonisti e distinguerli l’uno dall’altro; e forse è proprio questo che cerca di dirci l’autore. Un destino collettivo, noi che ci illudiamo di avere una vita, un destino nostro personale, e invece siamo come pesci in un acquario? Può darsi, ma non mi azzardo a continuare nella mia analisi perché due difficoltà insormontabili mi si pongono davanti: non ho diciott’anni e non sono cinese. Alla seconda posso cercare di supplire in qualche modo, alla prima no; e quindi cedo volentieri la parola a qualcun altro che possa commentare questo film meglio di me. Per parte mia, mi limito a sottolineare l’enorme talento di Jia Zhang-ke.
Però di Jia ho visto anche un’intervista in tv, trasmessa ovviamente alle tre di notte (è così che si fa cultura, in Italia). L’intervista è del 2004, da Venezia, ed è realizzata con l’aiuto di un’interprete italiana della quale ci si potrebbe anche innamorare. Jia sembra un ragazzo anche lui, è di bell’aspetto, molto fine, piccolo di statura e minuto, quasi un bambino; e invece ha già 34 anni. Parla in cinese, sottovoce, e l’interprete traduce velocemente. L’intervista è anche disturbata da una lampada mal messa, molto fastidiosa; ma quello che dice Jia mi convince ad ascoltare e a prendere nota.
Jia dice, per l’appunto, che i film con cui è cresciuto non parlavano mai della vita reale; e la vita reale è questa, le fanciulline coi telefonini e le morti sul lavoro, anche in Cina 2004. Dice cose molto belle, che ne dimostrano la preparazione e la personalità. dice che alla scuola di cinema erano tutti figli di registi, e che per questo lui l’ha abbandonata presto e crede così tanto nel cinema indipendente. Dice di aver girato i suoi film in maniera “illegale”, clandestini o quasi; che sono stati girati in dvd e poi riversati su 35mm; che gli fa piacere che i suoi film, mai distribuiti ufficialmente, circolino con ogni mezzo, comprese le copie pirata. Dice anche, ed è importante, che oggi il digitale costringe a rivedere l’estetica del cinema, a ripensare tutto, dalle luci alla recitazione, e che è un passaggio come quello dal muto al sonoro, o dal bianco e nero al colore.
Ripensandoci, Frank Capra non aveva fatto studi di cinema, e nemmeno Orson Welles, o Fellini, o Rossellini, Billy Wilder, Blake Edwards... Erano tutti venuti su da soli, le scuole di cinema le hanno inventate dopo. Forse è per questo che i film occidentali recenti sembrano tutti uguali, e che per trovare cose nuove dobbiamo andare così lontano, in Corea o in Iran o giù giù fino a Pechino...
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