sabato 1 settembre 2007

Sogni d'oro

Il professor Sigmund Freud (Remo Remotti)

Sogni d'oro, di Nanni Moretti (1981) Con Nanni Moretti, Nicola Di Pinto, Alessandro Haber, Laura Morante, Gigio Morra, Remo Remotti, Giampiero Mughini, Vincenzo Salemme, Miranda Campa, Sabina Vannucchi, Piera Degli Esposti (105 minuti) Musica: Franco Piersanti Fotografia: Franco Di Giacomo Rating IMDb: 7.1
Solimano
La cucina è abbastanza grande, ed i due ragazzi - saranno fra gli otto e i dieci anni - sono già seduti a tavola, si vede che sono affamati. La mamma sta aggeggiando attorno ai fornelli: la pastasciutta è quasi al punto giusto di cottura... ecco, il momento è arrivato, si tratta solo di versarla nel colapasta. Ma improvvisamente scatta un lucido raptus, e la pasta viene invece versata sul pavimento della cucina, figurarsi la desolazione dei due ragazzi. La mamma esce tranquilla e decisa, senza neanche voltarsi indietro, né spiegare il perché o il percome. Una grande missione, anzi Missione, l'attende. La vediamo poi seduta nello scompartimento del treno. Ci sono due altre persone con lei, due uomini. Nessuno dei tre parla, ma il loro sguardo è intento, perché la Missione è la stessa. Scesi dal treno, eccoli camminare fianco a fianco - la donna in mezzo - lungo la pensilina della stazione. La gente, impressionata, si scosta, persino le forze dell'ordine non si intromettono. Negli occhi dei tre che camminano determinati ma senza fretta brilla una luce-forza da fare impallidire tutti i sergioleone della storia del cinema, la luce della Missione. Entrano poi in uno stanzone in cui è in corso il dibattito, e c'è il solito critico rompicoglioni che dice, rivolto a Michele Apicella: "Ma che penseranno la casalinga di Treviso, il bracciante lucano, il pastore abruzzese?" "Eccoci, siamo qui!" Missione adempiuta, ed il rompicoglioni, ormai scornato, risale in disordine la valle che aveva disceso con orgogliosa sicurezza. Dimenticavo, prima ci sono state due scene ugualmente strazianti, come quella della cucina trevigiana: il bracciante che sta falciando le messi d'oro e che ex abrupto abbandona la falce (e agli altri braccianti tocca fare anche il lavoro suo, che Dio lo strafulmini!), ed il pastore che lascia il suo gregge di pecore, che dalla paura, poverelle, si stringono l'una con l'altra. Cosa vorrebbe veramente il critico da Michele, mandando avanti casalinga, bracciante e pastore? Vorrebbe che Michele stesse basso, basso però retorico. Così non darebbe fastidio a nessuno.

Poi c'è il regista rivale, Gigio Cimino (Gigio Morra) che non è il facitore di cinema commerciale come certi critici, più furbi che ingenui, ci hanno raccontato. No, è uno che vorrebbe portare avanti la rivoluzione e la gnocca, le zozzerie però romantiche, la denuncia sociale e il tutti insieme appassionatamente, cinismo e lacrimucce. Con Gigio Cimino non si butta niente, come col maiale. C'è lo striscione rosso VIETNAM VINCERA' e il coro lo scandisce, così davanti allo striscione si balla a tempo di slogan. E quindi, altro che ve lo meritate Alberto Sordi punto e basta. Dietro - soprattutto davanti - Gigio Cimino ci sono i grandi registi della commedia all'italiana, che lo capirono benissimo, difatti da allora la giurarono a Moretti.
Cimino non cerca la guerra con Michele, vorrebbe la collusione del non usciamo in contemporanea nelle sale, fare il gioco dei ladri di Pisa, gioco sommamente italico, che però Michele rifiuta, dichiarandosi unico, che è imperdonabile in un paese di tanti piccoli Uriah Heep che si credono unici senza però dirlo. Se ci si vuole convincere che questo, di Gigio Cimino, è stato - e forse è ancora - un grande problema del cinema italiano, si confronti il finale del pur ottimo film La grande guerra con i finali de La grande illusione, di Orizzonti di gloria, di La vita e niente altro, quelli sì di una sublimità vera, perché senza riserve di censura o di autocensura, che è ancora peggio. A noi piacciono le scorciatoie consolatorie, mentre il punto è proprio che non bisogna scorciare, bisogna dirle tutte, le cose.

Poi c'è il Freud fatto magnificamente da Remo Remotti, che fa Bu! alla sua mamma nascondendosi dietro la porta d'entrata, che mette su un banchetto per vendere i suoi capidopera nei mercati rionali, che telefona ad Jung per andare insieme in America, ospitalità squisita, per esportare la peste psicanalitica in quel grande ed ingenuo paese. Woody Allen riguardo a Freud non ha mai osato tanto. Peccato che non compaia di persona Jung, magari assatanato - però castamente, Moretti è un puritano - dietro alle pazienti.

Poi, poi, poi... ce ne sarebbe da dire, per pagine e pagine, perché non è che si rida, ma la nostra intelligenza e la nostra cultura (ammesso che esistano, credo di sì) rimangono estasiate di fronte ad un film in cui nulla accade per caso, in cui ogni minimo gesto, fosse pure la mano che si appoggia sull'avambraccio della suora, per dirle che a lei suora Michele vuol bene, seppure non credente, ogni cosa è studiata e decisa con fatica e piacere. E dalla parte nostra, di spettatori, vedere Sogni d'oro costa una fatica che dà piacere.

Ultima cosa: il flipper. Compare Michele che gioca a flipper in un bar. E' l'unica volta che il film risulta datato, perché i flipper nei bar non ci sono più da diversi anni. Ma per il resto, questo film, come quasi tutto di Moretti, sembra girato ieri, certe volte addirittura girato domani. L'intervista di coppia a Gigio Cimino e signora è più vera, nella sua ipocrisia sentimentale, nella sua libertà di sola facciata alla si fa ma non si dice, delle odierne prodezze della De Filippi e della Bignardi, venticinque anni prima. Sogni d'oro è da vedere e da rivedere - titolandolo magari "La mamma di Freud". Alla casalinga di Treviso, al bracciante lucano ed al pastore abruzzese si associa l'ingegnere brianzolo, così siamo in quattro, e sembriamo il finale del Mucchio Selvaggio: non si può lasciarla passare, a Mapachi.

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