lunedì 3 settembre 2007

Ladri di biciclette


Ladri di biciclette, di Vittorio De Sica (1948) Racconto di Luigi Bartolini, Sceneggiatura di Cesare Zavattini, Suso Cecchi D'Amico, Vittorio De Sica Con Lamberto Maggiorani, Enzo Staiola, Lianella Carell, Gino Saltamerenda, Vittorio Antonucci, Elena Altieri, Giulio Chiari (92 minuti) Musica: Vittorio Cicognini Fotografia: Carlo Montuori Rating IMDb: 8.3
Solimano
In uno dei film più importanti di Robert Altman, "The Player", che è ambientato ad Hollywood e che è anche un film sul cinema, c'è un episodio determinante che si svolge attorno ad un cinema d'essai, anche all'interno della sala di proiezione: il film di quel pomeriggio è "Ladri di biciclette", di cui si vedono brevemente alcune immagini. E' stato così che mi è tornata la voglia di vederlo, dopo decenni dalla prima volta. Quello che ne pensavo era chiaro e per me assodato: un film importante, necessario, che era stato accusato con altri film da Andreotti per i famosi "panni sporchi".
Ma la sorpresa è stata grande, rivedendolo su DVD nella edizione restaurata. "Ladri di biciclette" è una tragedia, ma una tragedia picaresca, con delle componenti umorali come di un Chaplin però delicato, aggettivo che alcuni critici giustamente hanno usato per De Sica. Non ti prende di facile commozione, ti prende con le cose che mostra molto più che con le parole, quasi tutte stente e tutto sommato poche.
Antonio Ricci ed il figlio Bruno (Lamberto Maggiorani ed Enzo Staiola), inseguendo il ladro, entrano in un casino, in cui una erculea virago protesta perché le signorine stanno mangiando, tutte composte attorno ad un tavolone. La virago moralisticamente sgrida perché il bambino non deve entrare, e lo vedi, Bruno, da solo, un po' imbarazzato senza sapere il perché, in mezzo ad un corridoio piastrellato.
Antonio dice alla moglie Maria (Lianella Carell) che c'è il problema di disimpegnare la bicicletta, e lei piange e si dispera, ma non ha tempo per farlo troppo, e strappa con rabbia decisa le lenzuola dal letto matrimoniale.
Prima, lei piangeva reggendo due secchi pieni d'acqua, e lui non aveva parole da dirle, ma così, quasi meccanicamente, un secchio se lo prende lui, così hanno un secchio a testa.
Nello scantinato dove Antonio va a cercare aiuto da parte dell'amico netturbino, da una parte ci si dà da fare con la politica, tutti uomini ad ascoltare le proposte per la creazione di lavori, ma dall'altra parte ci sono le prove per un tentato spettacolino, canto, ballo e ragazze comprese.

Ogni tanto, nella ricerca della bicicletta e del ladro, Antonio e Bruno si perdono di vista, c'è persino un pedofilo che cerca di adescare il ragazzino con un campanello di bicicletta.
Il magazzino delle lenzuola del Monte dei Pegni è enorme, tante scansie una sopra l'altra, e la cinepresa sale vertiginosamente.
La santona, a cui Maria ricorre, e poi anche Antonio e Bruno, lo fa per soldi, ma rifiuta di toccarli, i soldi, li fa prendere alla parente assistente.
I benefattori della Messa dei poveri sono presentati senza apparente polemica, ma ognuno ha una sagoma di crudele buffoneria: i cappelli a larghe tese delle donne, distributrici di libretti e santini, la rasatura dei poveri che però viene interrotta perché la funzione religiosa ha la priorità, e ci sono i poveri con una guancia rasata e l'altra no.
La lotta di classe nella pizzeria, fra Bruno e la femminuccia snob del tavolo dei benefattori, con Bruno che fa il filo con la mozzarella che si sta mangiando. E Antonio, seduto a tavola, come prima cosa si beve un bicchiere di vinaccio come fosse acqua.
Passa il camion che porta allo stadio i tifosi, con un cartello che loda il Modena, e Antonio chiede a Bruno se gli piace il Modena, perché vuole distrarlo dalla fatica di quella domenica di caccia inutile al ladro. Bruno fa capire senza parole che il Modena non è poi 'sto gran che.
E tante ne potrei dire, tutto il film ne è intessuto, sono come garze attorno all'enorme ferita personale e sociale su cui è costruito. A loro modo lo addolciscono, lo rendono più visibile, più accettabile, ma perché lo fanno? Perché la tragedia sia ascoltata da quelli che la vedono, senza scorciatoia di commozione, sia vista in tutti i suoi aspetti.
In quella giornata domenicale a Roma tutte le persone debbono fare i conti col proprio vivere al limite della caduta irreparabile, compreso il ladro probabilmente epilettico, i complici, i ricettatori che verniciano le biciclette rubate il giorno prima. Ognuno, compresi Antonio e Maria, compreso perfino Bruno, esprimono per difendersi una propria cattiveria, persino il salire sugli autobus è una lotta. Ma quando tutto viene considerato insieme, quando si giunge alla fine del film, l'impressione non è quella di una grande meschinità come sommatoria delle cattiverie di ognuno, ma quella di una pietà commossa, e soprattutto, di un grande amore per la vita. De Sica lo ottiene non con il mezzuccio della commozione parolaia, ma con le facce prese dalla strada e che alla strada torneranno, persino con la pioggia che bagna tutti, compresi i seminaristi tedeschi, e Bruno si infagotta nella sua giacca di bambino costretto ad essere già uomo.
Con la bellezza, infine, che è la causa per cui questo film dura nel tempo, al di là dei problemi che mostra (più che denunziare, il mostrare così ha maggior forza).
Durò poco, il grande momento del neorealismo italiano, spregiato vergognosamente dagli Andreotti et similia, e costretto a ripiegare nelle tante furbissime commedie all'italiana. E questo è la conferma di una nostra strana condanna: siamo fieri dei nostri vizi e ci vergognamo delle nostre virtù.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Gran pezzo di critica, ottimo Solimano. Ma non era Umberto D. il film di Zavattini-De Sica per cui Andreotti tirò fuori la storia dei panni sporchi?

Anonimo ha detto...

Ero il Brian. Come al solito perennemente sloggato. ;)

Solimano ha detto...

Brian, hai ragione nel dettaglio, Umberto D. fu quello col preciso riferimento, ma nel totale tutto quel mondo, di cui Andreotti era solo la... la... gobba dell'iceberg, non poteva soffrire i film del neorealismo, e la bestia nera era ancor più Zavattini che De Sica.
Però, più che la censura potè l'autocensura, d'altra parte c'erano forti argomenti perché si adeguassero. Per dirne una, ancora diversi anni dopo, Ponti, che era il produttore del Disprezzo di Godard, volle una certa scena con Brigitte Bardot e Michel Piccoli, però solo per il mercato francese, ma in Italia non andava bene.e fu lo stesso Ponti a non volerla.
La farò altri esempi prossimamente è bene che non ci si dimentichi di queste cose, perché potrebbero succedere ancora.

saludos
Solimano

mazapegul ha detto...

Ci fu un documentario sull'Italia povera, committente il pur potente, democristiano e modernista Mattei, che però non fu mai mostrato nelle sale: troppo demoralizzante, per i suoi colleghi di strette vedute. Non so se ora è disponibile.