Solimano
Sharon Tate lesse "Tess of the d'Urbervilles" di Thomas Hardy e pensò che suo marito Roman Polanski avrebbe potuto fare un grande film ispirandosi a quel libro. Per questo glielo diede prima di ripartire per gli Stati Uniti, e fu l'ultima volta che si videro. Dieci anni dopo Polanski fece il film, che inizia con una dedica: "For Sharon".
Thomas Hardy è meno frequentato dai registi di Joseph Conrad e di Henry James, ma si dà il caso che per ognuno dei suoi quattro romanzi più importanti: "Far from the Madding Crowd", "The Major of Casterbridge", "Tess of the d'Urbervilles" e "Jude the Obscure" c'è almeno un film importante. Perché Thomas Hardy è meno frequentato? Anzitutto perché è meno noto, ma anche perché i suoi libri non hanno nulla di consolatorio: il lieto fine, o qualcosa del genere, è quasi del tutto ignorato. Non perché Hardy fosse un costruttore di storie tragiche che avevano (ed hanno) un buon pubblico di lettori, ma perché era tragica la sua visione dell'esistenza umana. La espresse sempre, anche nelle poesie a cui si dedicò negli ultimi anni, con una forte ambientazione in un luogo mitico ma esistente, il Wessex, che era poi il Dorset. Vi trascorse tutta la vita, in un rapporto con la natura che prevale su quello con i personaggi, una natura che è indifferente all'uomo, ma esprime i segni del suo destino in modo più concreto che idealizzato.
Il film di Polanski, che vinse molti premi, fra cui tre Oscar, è stato generalmente più criticato che lodato. Ritengo che sia un film da vedere e da rivedere, però parto dalle critiche perché non si può discernere con agevolezza il brutto dal bello, che in questo film sono mischiati in modo quasi inscindibile.
Prima di tutto il film è troppo lungo (190 minuti nell'edizione originale, 172 sul DVD), ed è vero, la storia si poteva raccontare con quasi un'ora in meno, ma la lunghezza, che porta all'iterazione di temi e comportamenti, esprime l'ineluttabilità delle sorti, per quanti siano i tentativi che Tess Durbeyfield (Natassja Kinski), ma anche Angel Clare (Peter Firth) e Alec d'Urbervilles (Leigh Lawson) fanno per sottrarsi al destino che hanno scelto senza esserne coscienti e che coerentemente perseguono.

La natura: a quasi tutti è piaciuta, con qualche definizione di estetizzante. Difatti è vero Wessex, solo che Polanski l'ha trovato in Normandia e in Bretagna, non nel Dorset. La natura in "Tess" è spesso bella, ma sa essere bruttissima, di nebbia, di fango, di freddo, di mani gelate, di cortilacci disordinati e pollai, di oscurità, di plein air perchè un posto al coperto non ce l'hai. Preferisco la natura di "Tess" a quelle troppo a modo di Ivory, anche a quella troppa romantica ma splendida di Schlesinger in Far from the Madding Crowd (1967) che sicuramente Polanski ha guardato e riguardato. E' difficile abbinare qualche pittore a questa natura, ottocentesca ma all'inizio della modernità, ogni tanto irrompono le macchine agricole ed i treni. Sono i registi, a volte, a suggerire la natura ai pittori, così è, oltre che per Polanski, per Bertolucci in Novecento e per Cimino in I cancelli del cielo. Una natura che la modernità rende un po' sordida, come le persone che la percorrono: così vedeva il mondo Thomas Hardy, in cui le persone e la natura sono spesso peggiorate, non migliorate, dall'essere in stretto rapporto.
Questo è forse il film più antireligioso che io abbia mai visto: nella scena di Tess, che ha battezzato personalmente nella notte il figlioletto che le muore la mattina, e che racconta tutto al pastore. Ma questi nega la sepoltura in terra consacrata perché la gente non approverebbe. Religiosa è Tess - purtroppo per lei - il pastore è solo un laido a prediche pagate, che non può credere al Dio che propaganda.
Nei 172 minuti che dura il film a volte capita di sbadigliare, forse di intristirsi, perché la rappresentazione della fatica bieca del lavoro nei campi e dell'accudire alle vacche (altro che Arcadia!) ce la riparmieremmo, siamo tutti per la primavera odorosa, ma non c'è spesso. Abbiamo un vantaggio, rispetto a quando scriveva Hardy: che sappiamo leggere in filigrana gli eventi, la nostra mancanza di illusioni è una forza che ci impedisce di cadere nella trappola del dover essere e della valle di lacrime - da cui c'erano comunque gli esenti per censo o perché si erano comprati il titolo. Malgrado un po' di manica larga di Polanski ma anche della fotografia a volte bella in eccesso, e della musica spesso di dolcezza crudele, il film l'ho visto volentieri, continuando a tifare per Tess malgrado la storia la sapessi già tutta. I motivi per cui finisce male sono quasi tutti dipendenti dall'orgoglio di Tess, da quella sua inesorabile "pulsione alla infelicità".
3 commenti:
Un po’ di commenti al volo, così come mi sono venuti leggendo:
- “il teatro e la vita non sono la stessa cosa”, dice il Pagliaccio di Leoncavallo; ed è vero. Sembrerebbe banale, ma lo spettatore non sempre se ne rende conto. La maggior parte della gente ha facce che non dicono molto, poco espressive, e tutta la loro vita passa così: sono gli attori che danno colore ad ogni momento, ma sono cose che si possono fare solo nei film, o a teatro. C’è gente che prova dolore e commozione fortissima, ma non glielo si legge in faccia... Polanski è bravissimo in queste cose, è più vero del vero; e non è facile da capire e da spiegare, ai critici e agli spettatori.
- bello anche il riferimento alle mani gelate, e alla verità della vita nella campagna. Anche questo è tipico di Polanski, ed è una delle cose che mi hanno conquistato (molto lentamente, a dire il vero) in trent’anni che vedo i suoi film. Quando si guarda “Il coltello nell’acqua”, i corpi nudi (in costume) sono quelli che vediamo davvero nella nostra vita, altro che abbronzature e corpi tirati a lucido... Sto guardando, dopo decenni, il “Kaspar Hauser” di Werner Herzog: anche lì, come in Novecento di Bertolucci, si vede il letame, i lividi, ciò che vediamo ogni giorno: e disturba, perché al cinema non ci siamo abituati. Un personaggio può camminare nel letame per mesi, ed avrà sempre le scarpe pulite: e io francamente preferisco così, ma è un po’ come vedere i cartoni animati, a pensarci bene.
- Polanski è sempre spiazzante. Sembra sempre di vedere un film normale, ma non è così. Non lo si riesce mai ad afferrare, ed è uno motivi di sconcerto più grossi che io abbia mai incontrato al cinema. Ancora oggi non so bene da che parte stare: se ammirarlo oppure no. (Che razza di animale è questo Polanski?).
Giuliano, a me ha sempre dato fastidio la prosopopea di molti attori di teatro rispetto al cinema, che vedevano come una vacca da mungere quando c'era bisogno di latte. E' una cosa cronica, in Cantando sotto la pioggia viene satireggiata, perché Debbie Reynolds finge di essere una attrice di teatro, creando problemi di identità a Gene Kelly, per poi saltare fuori dalla torta.
Per fare due esempi, non so se Nastassja Kinski e Catherine Spaak sapessero recitare oppure no (che anche qui occorrerebbero tribunali per deciderlo...), so che in certi film sono perfettamente in parte magari senza fatica e disprezzate sul set (succedeva anche questo).
La penso come te riguardo a "Il coltello nell'acqua": c'è la verità dei corpi e la verità dell'adulterio in quel triangolo forzato dalla convivenza in spazi stretti. Con Polanski viene voglia ogni tanto di criticarlo, per tanti motivi, specie perché la sua morale cinica (che non è cinismo morale) disturba, e l'ipocrisia non è mai morta. Poi dà fastidio la sua furberia, che lo rende capace di inserire dei minuti indimenticabili anche in film che si vede che si proponevano grossi incassi.
Per la vita in campagna, una volta mi mise in crisi un amico campagnolo riguardo all'Albero degli zoccoli, dicendomi che non c'erano mosche, ed aveva ragione.
E' un po' la stessa cosa quando nei film si inseriscono ambienti di lavoro, quindi anche per le fabbriche, salvo eccezioni piuttosto rare.
saludos
Solimano
Mi incanto di fronte alla cultura e alle recensioni come le vostre e ascolto le vostre discussioni. Vorrei rivedere tutti i film che proponete anche quando i vostri giudizi sono negativi perchè mi incuriosisce rivederlo alla luce di quello che voi descrivete. Non è adulazione... Ciao giulia
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