giovedì 25 ottobre 2007

Riccardo III - un uomo, un re

Looking for Richard, di Al Pacino (1996) Da "The Tragedy of Richard the Third" di William Shakespeare, Narrazione di Al Pacino e Frederic Kimball Con Penelope Allen, Harris Yulin, Alec Baldwin, Al Pacino, Kevin Conway, Kevin Spacey, Estelle Parsons, Winona Ryder, Julie Moret, Frederic Kimball, Aidan Quinn, Viveca Lindfors, Judith Malina, Kenneth Branagh, Kevin Kline, James Earl Jones, Peter Brook, Derek Jacobi, John Gielgud, Vanessa Redgrave Musica: Howard Shore Fotografia: Robert Leacock (112 minuti) Rating IMDb: 7.1
Solimano
William Shakespeare
di per sé sarebbe un cinefilo, di quelli tosti: 694 volte è stato al cinema, cominciando con un King John del 1899 e finendo con quattro pre-produzioni che saranno ultimate nel 2008. Solo nel 2007 otto film sono usciti o stanno uscendo. Però se dovessimo dire i dieci film della nostra vita, non ce ne sarebbe nessuno tratto da Shakespeare, salvo forse Ran o West Side Story o i due di Orson Welles. Lo stesso Henry V di Laurence Olivier gode di ammirazione universale, ma di amore comandato. L'amore al cinema sappiamo tutti benissimo com'è, lo abbiamo provato e continuiamo a provarlo: è un coinvolgimento totale (però lucido) che fa sì che noi - e magari anche la persona seduta al nostro fianco - ci sentiamo lì su quel lenzuolo bianco su cui scorrono le immagini. E questo già la dice lunga sul problema, perché tale è: parrebbe che per fare un grande film da Shakespeare occorra in qualche modo essergli in parte infedeli. Il punto naturalmente non è Shakespeare, è il rapporto teatro-cinema, già di per sé conflittuale, ma per Shakespeare reso complicato dall'appropriazione che i teatri inglesi ne hanno fatto non per decenni ma per secoli. Così un magnifico uomo di teatro come Kenneth Branagh ha fatto film ottimi: Molto rumore per nulla, Enrico V, Amleto, ma un po' patisce sulla sua pelle l'imprinting iniziale di essere nato col teatro.

Al Pacino queste cose le sapeva benissimo, a parte l'esperienza teatrale e cinematografica, figuriamoci se un Padrino come è stato lui poteva cadere in trappola. Ha sparigliato in modo geniale: ha dichiarato che stava facendo un documentario sul Riccardo III, e non ha mentito, il documentario c'è, solo che è il modo con cui ha veramente fatto il Riccardo III.
Si è messo a girare per New York con l'amico Frederic Kimball e un operatore con la camera a mano a rompere le scatole a gente indaffarata per strada, ai semafori, nei bar, chiedendo com'è il loro rapporto con Shakespeare. Ne sono uscite alcune frasi geniali, molte sciocchezze ed un po' di menzogne, tipo uno che sembrava svenisse a sentire il nome di Shakesperare, solo che non è mai stato a teatro e le poche volte che Shakespeare compare in TV cambia canale, figuriamoci se l'ha letto!

Intanto Al Pacino comincia a crearsi uno spazio in cui inserire il tarlo non nella testa dei passanti di New York, ma nella nostra, che già eravamo pronti a gustarci il solito spettacolo in cui ammirazione fa rima con distrazione: per forza, Shakespeare di cose ne dice tante, o non ne ascolti qualcuna o perdi il filo. Al Pacino non va solo per strada, ha scritturato gli attori per il suo Riccardo III, e li riunisce attorno ad un tavolone. Come prima cosa se lo leggono insieme, ognuno la sua parte, ma anche scambiandosele. E questi attori, generalmente famosi, e tutti bravissimi, hanno una propria vita privata - non vivono d'aria - e si raccontano i fatti propri guardandosi un po' amorosamente un po' di sottecchi. La loro è arte, ma anche mestiere, guai se no. Un attore di teatro ha la trappola dell'eventuale successo: a quel punto gli tocca dire tutte le sere le stesse parole e fare gli stessi gesti per anni di seguito, in certe sere deve per forza supplire il mestiere. La sera dopo magari lo stato d'animo è invece tale che quelle parole sembrano pronunciate e pensate per la prima volta. L'impressione, a vederli e sentirli mentre si preparano parlando anche di sé, è di gente con una lunga coda di paglia, ma con una intelligenza, una furberia un po' gaglioffa, una passione, eccola la parola, più grande persino del loro enorme narcisismo.
E tu, prima sei stato messo in medias res dalle interviste stradaiole, ora ti ci appassioni a questa compagnia, in cui vedi i volti noti ed amati di Kevin Spacey, Winona Ryder, Alec Baldwin. Il Padrino, intendo Al Pacino, a quel punto sa che può fare di noi quello che vuole, e spariglia ancora: perché far parlare solo l'attrice Penelope Allen? Stiamo scherzando, nel Richard è Queen Elizabeth, ed eccola, conciata da Queen Elizabeth che fa le sue tirate, dice il perché e il per come, conduce la sua lotta di potere. Così il Buckingham di Kevin Spacey e l'Hastings di Kevin Conway e gli altri e le altre.
Crea confusione? No, perché il Padrino sa che il Richard non c'è bisogno di cercarlo perché la storia la conosciamo tutti, con la successione dei delitti: Clarence, Hastings, i figli piccoli di King Edward. Sappiamo anche i delitti precedenti, i parenti di Lady Anne trucidati da Richard, compreso il marito, il figlio dell'ultimo re Lancaster. Sappiamo come Richard riesce a comprarsi le quattro donne, in particolare come riesce a sedurre Lady Anne, davanti alla bara del marito, ucciso da chi la seduce. Sappiamo l'abilità di Richard nell'intromettersi negli odi reciproci, eliminando chi gli fa ombra per interposta persona, non si rendono conto che è lui a condurre il gioco: fino all'ultimo suo fratello Clarence crede che sia lui a difenderlo da King Edward. E Hastings passa in pochi minuti dal Consiglio Reale alla mannaia (fatto storicamente vero).
Al Pacino gioca altre due carte, i luoghi e i libri, anzitutto: stiamo facendo un documentario, e facciamolo fino in fondo, andiamo a Stratford-on-Avon nella casa di William, facendo pure scattare l'allarme così arrivano i pompieri. E prendiamoli, tocchiamoli, quei grandi libri rilegati con l'opera omnia e le illustrazioni.
Non basta ancora: ci sono i famosi attori e registi, i grandi critici, ed arrivano John Gielgud, Vanessa Redgrave, Peter Brook, Kenneth Branagh, così si può anche discutere sul complesso che gli americani hanno riguardo a Shakespeare, perché lo fanno poco e quello che hanno gli inglesi, perché lo fanno troppo. Al Pacino non fa il super partes: americano è, e crede ad un modo di essere irriverenti verso Shakespeare, ma per un di più di rispetto: Shakespeare è uno di noi, non una sublimità che finisce in accademia.

Queste apparenti contraddizioni sono rese coerenti dal disordine studiatissimo con cui si presentano, creando un continuo effetto sospresa. Finché, con alcune grandi scene, specie quella con Lady Anne, quella con Hastings e quella con Buckingham appare chiaro il senso che Al Pacino ha voluto dare al suo Richard: non il malvagio assoluto, ma la conquista del potere. Richard è sostenuto dalla coerenza nel cercare sempre la leva opportuna e l'alleanza giusta, ma Richard non è il malvagio istrionico, la quintessenza di quello che non vogliamo essere. Il Richard che ha fatto Al Pacino è una metafora incarnata del potere, come si manifesta oggi, perché non è solo Richard a godere della seduzione di Lady Anne, è l'attore Al Pacino, perfettamente identificato in quel momento, a fregarsi le mani ed a gridare il suo Ah! di gioia feroce, in quel momento è un Ah! di verità totale. Dieci minuti dopo ci sarà modo di farsi un drink con Winona Ryder, parlando e sparlando insieme, ma in quel momento preciso c'è solo da dire Ah! Bocca aperta ed occhi trionfanti che ci guardano, pienamente coinvolti e - in quel momento - completamente dalla sua parte. Poi, il 22 agosto 1485, in una brevissima battaglia a Bosworth, Richard, senza cavallo, perderà giustamente il trono e la vita, a 34 anni. Il fascino del potere, e l'autodistruzione della persona quando il suo mondo è fatto solo di potere: persino nella splendida compagnia che si è fatta Al Pacino le vediamo in azione, queste pulsioni inevitabili, salvo che pochi minuti dopo si è in grado di ridersi addosso. Ma dopo aver visto "Looking for Richard" non si può credere che esista un grande attore o autore senza una fortissima e consapevole pulsione per il potere: come farebbe a sedurci così, altrimenti?

9 commenti:

Giuliano ha detto...

Non è un film vero e proprio, è a metà tra documentario e film; però qui dentro ci sono almeno due Shakespeare favolosi: la scena della prigione (impressionante), e quella della battaglia finale, che è realizzata quasi per scherzo e invece straordinaria.
Se non avete mai capito il senso di “il mio regno per un cavallo”, Al Pacino dimostra (alla grande) perchè questa frase è diventata così famosa. A queste altezze c’è solo Orson Welles, che però da Shakespeare ha fatto tre film veri, tre film tutti interi.
PS per Solimano: a me l’Enrico di Olivier è piaciuto per davvero, è un capolavoro vero e grande. Se poi uno vuole sapere cos’era il Globe e come si recitava nell’epoca di Elisabetta Prima, è il film ideale. A me piacciono soprattutto quelle scenografie di cartone che diventano subito dopo battaglie campali, e quasi non ci si fa caso, quel passare dal palcoscenico alla vita vera senza che si avverta il salto. E’ bello l’Enrico V, ed è bello anche l’Amleto di Olivier.

Anonimo ha detto...

Ah, Al Pacino, Al PAcino... Darei dieci anni di vita per passare con lui una serata a bere amarone, e chiacchierar di cinema ed altre cose.

Ha degli occhi... Basta, basta pensarci troppo, sennò mi ci innamoro! ;)

Brian

Solimano ha detto...

Giuliano, per me è un film che Al Pacino ha voluto costruire in quel modo, non è mezzo e mezzo, tutto è volutamente mischiato, ed è proprio qui la novità grande nell'affrontare Shakespeare. Di Riccardo III se ne sono fatti molti, compreso uno molto curato di Olivier, ma se si vuole fare un film su Shakespeare oggi, o fai un film in cui Shakespeare è la sorgente (non spunto, sorgente) o fai del buon teatro filmato.
E' un problema che Branagh correttamente si pone, anche se non ha ancora scelto un suo modo. Perché il punto di fondo è rispettare o meno le parole di Shakespeare. Al Pacino ha scelto di rispettarle, ma non dirle tutte, solo quelle delle scene che vedeva coerenti col suo progetto. Dopo di che si può fare tutto, Shakespeare non si lamenta, trovo però più aderenza allo spirito di Shakespeare in questo film rispetto a certi esercizi calligrafici, rigorosi, tutto quello che vuoi, ma in fondo congelati. Olivier è un altro discorso, faceva film più di cinquant'anni fa, quando in Inghilterra vigeva la religione di Shakespeare. Ma il Riccardo III di Olivier è un cattivaccio circondato da ingenui, quello di Al Pacino è uno che lotta per il potere, e attorno anche gli altri lottano per il potere, solo che sono meno capaci di Riccardo.
Brian, non ti sapevo così pacinizzato ma riconosco che in certe parti non c'è di meglio di lui. Le parti sopra le righe, che gli escono perfette.

saludos
Solimano

Giuliano ha detto...

Caro Solimano, sono d'accordo quasi su tutto. Io ho avuto per Branagh, ai suoi inizi, un sentimento simile a quello che prova Brian per Pacino: poi alcune scene troppo crude del Frankenstein mi hanno fatto desistere (l'impiccagione della ragazza, se qualcuno se la ricorda, è davvero troppo e non è nemmeno giustificata dal testo).
Ad essere del tutto sinceri, a Branagh invidio molto gli anni con Emma Thompson... (ma anche quelli con Helena Bonham Carter, sia ben chiaro)

Anonimo ha detto...

Ha ha ha ha

Silvia ha detto...

L'ho letto d'un fiato, commenti compresi.


AH!


L'ho letto d'un fiato, commenti compresi.
Io non l'ho visto pensa. Ho visto lo Shakespeare di Branagh e non ho visto l'amore mio.
Però hai fatto una recensione così precisa Solimano e puntuale nella sequenza e nelle emozioni e nel divenire che è come se l'avessi visto.

AH! Che è una sua tipica espressione trionfale e diabolica.
Erotismo, allo stato puro.

Brian prima ci sono io.
Poi a lui piacciono bionde.
Naturali.
Sorry.

Solimano ha detto...

Silvia, questo è un post a cui ho pensato a lungo, perché l'operazione svolta da Al Pacino è geniale ma complessa, e alla fine convincente. Per dirla tutta, sono contento di aver scritto questo post e contentissimo di aver visto un film così acuto come intelligenza e coinvolgente come passione. Perché, alla fine, ed è questa la cosa più bella, senti il film come un tutt'uno dei diversi piani di lettura, una specie di Shakespeare che vive oggi restando perà Shakespeare. Il che è su un piano molto più alto di certe operazioni di modernizzazione che sono state fatte di frequente.
Una modalità anticlassica che rafforza la classicità dell'Autore.

grazie Silvia e saludos
Solimano

Silvia ha detto...

Hai scritto e scrivi di solito, cose molto belle, ma questa a mio avviso, ti è riuscita particolarmente bene.
Complimenti.

Elena ha detto...

Proprio oggi si è parlato di Al Pacino in questo ufficio, in termini molto meno intelligenti di questo post nemmeno a dirlo, commenti di livello infimo che non potrei mai riportare qui senza vergogna.. Comunque, tutto è scaturito da una foto che campeggia da giorni sul desktop di una giovane collega (il ritratto di un certo Scamarcio..) Io, che da ultraquarantenne quale sono posso tranquillamente definirmi "tardona" nei confronti della giovane collega in questione, ecco qui che ho tirato subito fuori la mia carta (vincente senza confronto): Al Pacino. Personalmente tentavo di esprimere la mia idea sull'origine del suo fascino ineguagliabile, la scintilla cupa che sprigiona dagli occhi, che, a questo punto ne sono ancora più convinta, è la scintilla dell'intelligenza. Quella che, come spesso accade sfocia appunto, come si diceva e pur in un fisico per nulla particolarmente prestante, in un erotismo allo stato puro...
Beh di questo suo lavoro non sapevo nulla, ma il post è davvero intrigante, cercherò di procurarmelo..