venerdì 12 ottobre 2007

Re per una notte

The King of Comedy, di Martin Scorsese (1983) Sceneggiatura di Paul D. Zimmerman Con Robert De Niro, Jerry Lewis, Diahnne Abbott, Sandra Bernhard, Shelley Hack, Catherine Scorsese, Liza Minnelli, Martin Scorsese, Tony Randall, Richard Dioguardi Musica: Bob James, Canzoni cantate da Ray Charles, David Sanborn, Frank Sinatra, The Pretenders, Talking Heads, Rickie Lee Jones, Van Morrison Fotografia: Fred Schuler (109 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
E' la solita storia. Appena un regista importante fa un film in cui c'è anche da ridere gliela fanno pagare, come se tutti gli importanti fossero seri e tutti i seri fossero importanti. Chiedete quali sono i cinque film pù importanti di Ingmar Bergman, vi sfido a trovare uno che ci metta dentro "Sorrisi di una notte d'estate". E' così anche per Scorsese riguardo a questo film, a suo tempo alcuni critici dissero che s'era preso una piacevole vacanza.
Perfino Giovanni Grazzini, di solito assai gentile, così scriveva il 4 settembre 1983 sul Corriere della Sera: "La commedia italiana dovrebbe rincuorarsi dopo consimili film. Se soltanto avesse una più incisiva politica economica che ci consentisse di penetrare più addentro i mercati stranieri, potremmo persino reggere talvolta la concorrenza di Hollywood sul versante del film leggero". Si vede che era di cattivo umore. Sono passati quasi venticinque anni dalle parole di Grazzini, io di film italiani sulla TV dei talk show non ne ho visti nessuno o quasi. Film su divismo televisivo, sulle ambizioni dei frustrati, che per appagarle sono disposti a tutto (come in "Ricordati di me" di Muccino).
Rupert Pupkin (Robert De Niro) per riuscire a debuttare nel talk show di Jerry Langford (Jerry Lewis) lo rapisce, aiutato da Masha (Sandra Bernhard), una ragazza in preda ad una ossessione amorosa nei riguardi di Jerry. Così, per pagargli un riscatto, lo fanno debuttare come primo ospite della serata, e fa il suo numero di comico che a trentaquattro anni non ha ancora trovato nessuno che gli dia retta. Subirà quindi un processo in cui sarà condannato a sei anni di prigione, di cui sconterà meno della metà, divenendo così un mito: lo attendono polposi contratti per la sua autobiografia, e un suo seguitissimo talk show. Ottiene, dopo che il film è finito, quello che voleva, il successo che non è mai riuscito a conseguire. Ce ne sarebbero, di Rupert Pumkin, fra quelli che ritengono che debuttare in TV sia come toccare il cielo con un dito. Esserci, ed esserci in quel modo, è il sogno comune, non una ossessione maniconiale. E' il messaggio che si riceve quando si accende la TV: "Noi siamo qui attivi e contenti perché ce l'abbiamo fatta, tu sei lì, passivo e scontento, che ci guardi e ci invidi".

Quando arrivò la TV i più svegli se ne accorsero subito: la TV è ben diversa dalla lettura di un libro, anche dalla visione di un film o dall'ascolto della radio. La TV rende gregge. Difatti è finita che tutto si somiglia: politica, varietà, talk show, reality, interviste, soap opera, persino i film che ricevono il marchio TV anche al di là degli spot che li interrompono. Esserci o non esserci, in quello scatolotto, è la controprova del successo o del fallimento. Molti ne parlano male, eppure la sera le tre ore di TV non se le fanno togliere da nessuno. Quindi, Rupert Pumkin non è l'ultimo dei Mohicani, è un profeta, basta riflettere sui meccanismi di identificazione e di amore/odio con cui gli spettatori guardano il Grande fratello o L'isola dei Famosi.
Chi crede che la rete prenderà il posto della TV si sbaglia, perché per navigare in rete occorre essere attivi, metterci del proprio, anche se uno non scrive mai, se non altro deve scegliere da che parte andare, e le possibilità sono migliaia. Solo se si riflette con attenzione sul bisogno di riconoscimento (anche l'identificazione è riconoscimento) si può capire che come al solito il problema è a monte: vite di solitudine o di compagnie sempre uguali, di conoscenze molteplici e di false intimità. Persino nella più sordida delle chat della rete si trova qualcosa che in molte vite reali non c'è, perché nella scuola, sul lavoro, in famiglia la litania è sempre la stessa. E la curiosità - virtù somma - se rimane inappagata, qualche compensazione la deve trovare.
Rupert non è folle, è ossessionato ma lucido. Le prova tutte, più viene respinto più rilancia, nella realtà e nei sogni. Parla spesso da solo a voce alta, mitizza se stesso, un sé che finalmente ce l'ha fatta. Masha, la ragazza che l'aiuta, è invece proprio da ricovero, ma sarà dura mettere la camicia di forza ad una come Sandra Bernhard, che in questi ultimi vent'anni ne ha fatto di tutti i colori, a parte che è bravissima. Durante il rapimento di Jerry, è lei che lo custodisce con tanto di pistola (scarica, ma si imparerà dopo). Rimasero famosi i battibecchi fra lei e Jerry Lewis sul set, se qualcuno li avesse ripresi ci sarebbe da divertirsi, anche perché entrambi hanno lo spirito della tribù di Israele.
Poi c'è Rita, che è una amica un po' credulona che Rupert convince ad andare con lui nella casa fuori città di Jerry, Rupert non è stato invitato, ma fa niente, Rupert è uno che ci prova sempre e comunque. E Rita, che si era vestita benissimo per l'occasione - anche se viaggiano in metrò - scopre che è tutto un castello in aria in cui è stata coinvolta, e fa una scenata a Rupert. Per chi non lo sapesse, l'attrice che fa Rita, Diahnne Abbott, era allora la moglie di De Niro, quindi ci mette un po' di gusto suo, a dirgliene quattro.

E Jerry Langford, come è Jerry Langford? Tristissimo, fa specie vedere Jerry Lewis così, sembra malato. Ma è il modo giusto: lessi anni fa una intervista ad una coppia celebre, Costanzo e De Filippi. Tutte le mattine, alle 10, hanno quel drammatico momento della verità, quello dell'audience della sera prima. Il cuore fa tum-tum e debbono spesso buttare nel cestino il lavoro del giorno prima: fatto, finito, cancellato, tocca inventarne delle altre. A vivere così la tristezza è inevitabile. Poi Jerry capisce che il rapimento non è uno scherzo, che Masha potrebbe perdere la testa e sparargli. Jerry Lewis non fa ridere una volta che sia una, non sorride neppure, ma è l'interprete giusto, perché inatteso.
Mentre Rupert, che vede frustrati i suoi tentativi di aprirsi la strada verso Jerry, spesso ride e fa ridere, anche per i vestiti, le scarpe, il cravattino, i baffi, la pettinatura, tutto: mezzo chierichetto mezzo mafioso. I sogni ad occhi aperti che fa sono determinati e vincenti: la ragazza che chiede l'autografo a lui senza chiederlo a Jerry, il ritratto del pittore da ristorante, in cui la sua caricatura attira lo sguardo più di quella di Jerry. Rupert è ingenuo e furbissimo: telefona da una cabina in strada, gli rispondono che Jerry ci sarà nel pomeriggio, lui risponde dando il numero telefonico dell'ufficio (quello della cabina telefonica) e rimane lì, fra le maledizioni di quelli che sono in coda - ma la telefonata di Jerry non ci sarà, fa niente, un altro modo si trova. Un po' si fa il tifo per lui un po' no, perché è un seccatore appiccicoso e cronico.
Mi piace Masha, la povera ragazza innamorata di Jerry, che non avrà nessun successo, neppure dopo il rapimento. Sandra Bernhard, per comprarsi l'amore di Jerry, improvvisa uno spogliarello di fronte a lui che se ne sta lì, oltre che triste, legato ed imbalsamato proprio da lei. Però quando lui, appena slegato, invece di farle una carezza le tira un cazzotto e se ne va, e lei mezzo svestita gli corre dietro per strada gridando Jerry, Jerry!, ho sperato che lui si fermasse commosso, ma niente da fare, chi ha un talk show tutti i giorni deve avere un cuore di pietra, se vuole reggere, quasi come noi che abbiamo un blog.

1 commento:

Giuliano ha detto...

Un film notevole, me lo ricordo però come qualcosa di amaro e di imbarazzante, più che come un film divertente. Qualcosa di simile è "Ginger e Fred" di Fellini, molto più chiassoso perché girato in Italia, e anche molto più profetico, visto che viene subito prima del fenomeno Berlusconi.
E' indicativo il nome del protagonista, che suona come "Pumpkin", cioè il Grande Cocomero di Linus; e infatti DeNiro passa metà del film a spiegare che no, il suo cognome è PUPKIN, e non Pumpkin.