lunedì 22 ottobre 2007

Mahabharata - 1. Storia di Amba


Peter Brook, The Mahabharata
Anno di produzione 1989. Sceneggiatura: Peter Brook, Jean-Claude Carrière, Marie-Hélène Estienne Direttore della fotografia: William Lubtchansky Montaggio: Nicholas Gaster
Assistente regia: Marc Guilbert, Marie Hélène Estienne, Philippe Tourret
Scenografia: Emmanuel de Chauvigny Costumi: Chloé Obolensky, eseguiti da Barbara Higgins
Musica: Toshi Tsushitori, Kim Menzer, Kudsi Erguner, Mahmoud Tabrizi-Zadeh, Diamchid Chemirani, Sarmila Roy
Interpreti.
Robert Langdon Lloyd (Vyasa) Bruce Myers (Ganesh/Krishna) Vittorio Mezzogiorno (Arjuna)
Andrzei Seweryn (Yudhishthira) Mamadou Dioume (Bhima) Jean Paul Denizon (Nakula)
Mahmud Tabrizi-Zadeh (Sahadeva) Mallika Sarabhai (Draupadi) Myriam Goldschmidt (Kunti)
Erika Alexander (Madri/Hidimbi) Richard Ciezlak (Dritharashtra) Hélène Patarot (Gandhari)
Georges Corraface (Duryodhana) Jeffrey Kissoon (Karna) Yoshi Oida (Drona) Sotigui Kouyate (Bhishma/Parashurama) Ciaran Hinds (Aswattaman) Tapa Sudana (Salya/Shiva/Pandu) Corinne Jaber ( Amba/Sikandin) Velu Viswanadhan (Santanu) Leela Mavor (Satyavati)

Giuliano
MAHABHARATA – 1 . Storia di Amba

A Parigi, a metà anni ’80, in teatro, Peter Brook decise di mettere in scena una delle opere poetiche più grandi della storia dell’umanità: il Mahabharata. Si fece aiutare dallo scrittore Jean Claude Carrière, ed insieme misero mano ad una riduzione del grande poema indiano.
Quando si dice “grande”, riferito al Mahabharata, non è un modo di dire e nemmeno un’opinione: si tratta del più lungo poema epico conosciuto, diviso in 18 libri per un totale di 106.000 distici, corrispondenti a quindici volte la Bibbia, a sette volte e mezzo l'Iliade e l'Odissea messe insieme. Jean-Claude Carrière, che ha scritto la riduzione per il teatro e poi la sceneggiatura, ha detto che serve un anno solo per leggerlo. Il testo originale è in sanscrito e risale al quarto secolo dopo Cristo, ma è un testo che viene trasmesso per via orale da un tempo che si può soltanto immaginare. “Mahabharata” (l'accento tonico cade sulla terza a ) significa una apologia «grande» (maha) della nobile famiglia dei Bhàrata, da cui presero origine negli anni e nei secoli successivi le stirpi dei Kaurava e dei Pandava che, pur legati da stretti vincoli di sangue, si trovarono a guerreggiare ferocemente tra di loro. «Bharata» significa per estensione “hindu” e più generalmente “uomo”: dunque, Mahabharata è “la grande storia dell'umanità”. In India il «Mahabharata» è ovunque, come per noi la mitologia greca o romana, e ancora più popolare. Dodicimila pagine di epica e filosofia, che Brook riassume così: «E' un'epopea con eroi, dei, demoni ed animali favolosi, ma è anche un'opera intima: i personaggi, infatti, sono anche vulnerabili, pieni di contraddizioni, umani. Gli indiani ne parlano come se si trattasse di loro parenti che potrebbero suonare alla porta da un momento all'altro».
Lo spettacolo di Peter Brook andò in scena per la prima volta al Festival di Avignone, nel 1985, e durava nove ore: nove ore di teatro, divise in tre sere ma anche tutte di seguito. Si proseguì poi a Parigi; ha girato tutto il mondo ed è arrivato anche da noi, ma solo a Prato, in tre serate. Nel 1989 esce la versione filmata in due versioni, una di quasi sei ore che verrà trasmessa in tv e una ridotta a due ore e mezzo per il cinema. L’originale teatrale era in francese, la versione filmata è in inglese; il cast è internazionale, con attori di 16 paesi diversi. La versione completa è pubblicata su dvd dalla Dolmen Home Video.
Non si tratta di una ripresa dal teatro, ma di un lavoro diverso, fatto in studio e ripensato per il cinema a partire dall’allestimento teatrale, del quale conserva il cast intero, fatto di attori eccezionali ma quasi tutti poco noti. Il più famoso è forse Vittorio Mezzogiorno, che all’epoca era reduce dal grande successo internazionale della “Piovra”, e che ha uno dei ruoli principali. In un’intervista del 1989 Mezzogiorno raccontava il lavoro con Brook come esaltante ma anche molto impegnativo, sul piano fisico e non solo: « (...) è un lavoro improntato alla semplicità come punto di arrivo, all'essenzialità. Un giorno il regista si è presentato con una ruota: "Simboleggia un carro", ci ha detto. E ha aggiunto: “Se saremo bravi non avremo bisogno di altro, se non saremo bravi utilizzeremo carri dorati ed elefanti". »
La visione del film è dunque piuttosto impegnativa, ma il film è anche molto spettacolare, e ha attori favolosi dei quali ci si può solo innamorare. Viste le sue dimensioni, e viste le dimensioni di quello che c’è dietro, provo a raccontare il “Mahabharata” meglio che posso, una storia alla volta; e comincio da quella che più mi ha colpito. E’ una storia sulla reincarnazione, ed è una delle riflessioni più profonde che mi sia mai capitato di incontrare in proposito.


Storia di Amba e di Bhishma
Bhishma è un re guerriero, ma anche un filosofo e un uomo molto devoto. Si rivolge agli dèi, ed emette un voto solenne e molto complesso; gli dèi sono molto contenti di lui, e per questo suo voto Bhishma ottiene un dono che è molto vicino all’immortalità: potrà scegliere egli stesso il momento della sua morte. Ma del giuramento così complesso, con il quale si consacra agli dèi, fa parte anche il voto di castità: ne consegue che Bhishma non può più essere re, perché non potrà avere eredi. E così fa, lasciando il trono a suo fratello.
A questo punto entra in scena Amba: è una giovane che è stata vinta come sposa da Bhishma, in un torneo nel quale il valoroso guerriero ha combattuto. Amba supplica Bhishma di lasciarla andare: ha un fidanzato che ama e che la ama, e una famiglia che la riaccoglierà a braccia aperte. Bhishma la lascia andare, per via del suo voto di castità ma soprattutto perché il suo animo è buono e grande. Ma una brutta sorpresa attende Amba: il fidanzato la respinge, perché ormai (secondo il suo parere) è stata di un altro uomo; e il re suo padre la scaccia, perché in quella situazione (respinta due volte) non è più degna di stare a corte. Amba torna da Bhishma, che però le spiega che la accoglierebbe più che volentieri, ma il suo voto non glielo consente. Amba è colta da una terribile ira, e giura che ucciderà Bhishma per quel rifiuto, e che da quel momento solo a questa missione, che sa essere praticamente impossibile, sarà dedicata la sua vita.


Passano molte pagine del libro, e molti eventi succedono. Ritroveremo Amba sul campo della battaglia di Kurukshetra, nel finale. Si presenta a Bhishma, capo imbattibile di uno dei due eserciti, ed ha un aspetto terribile. E’ notte, e i due sono soli; Amba parla apertamente a Bhishma, e lo fa con estrema durezza; gli racconta le infinite prove che ha dovuto superare per poter essere degna di affrontarlo, e così conclude: « ..... Io sono morta, Bhishma. Sono morta e mi sono reincarnata in Sikhandin, un guerriero schierato con l’esercito di Arjuna; ora finalmente potrò darti la morte.»
Bhishma, colpito da quelle parole, chiama Krishna: poiché la battaglia non potrà mai terminare fino a quando Bhishma combatterà, egli comunica al dio che ha deciso che è giunto il momento della sua morte, così da porre fine alla carneficina che dilania i due rami della stessa sua famiglia. E pone una condizione: a scoccare la freccia che lo ucciderà deve essere un guerriero che si trova nelle loro fila, e che si chiama Sikhandin.


Ed ecco arrivare l’alba, e il momento fatidico: Sikhandin è davanti a Bhishma, che lo riconosce e si ferma, smette di combattere e lo guarda. Di fianco a Sikhandin, l’eroe Arjuna e il dio Krishna; Arjuna invita il giovane a scoccare la sua freccia, ma Sikhandin gli risponde che non può, non può uccidere quel vecchio così bello e così valoroso, dall’aspetto così saggio e dallo sguardo così benevolo nei suoi confronti. « Avanti, Amba! Che cosa aspetti? Scocca la tua freccia!» grida Bhishma. Sikandhin, pallido in volto, lascia cadere l’arco e arretra: « Perché mi chiami Amba? Io sono Sikhandin, l’arciere...»
Allora Krishna ordina ad Arjuna di scoccare la freccia; è Krishna stesso a guidarla, invisibile, fino al petto di Bhishma. Il vecchio guerriero, duramente colpito, riconosce dal dolore atroce che la freccia non proviene da Sikhandin: cos’è questo inganno? L’inganno è stato ordito da Krishna, non è il primo e non sarà l’unico. La vita è una partita a dadi, e spesso i dadi sono truccati.
Ed è appunto da una partita a dadi che parte la storia che è al centro del Mahabharata.
( Bhishma è interpretato dal magnifico Sotigui Kouyate, nero africano , uno degli attori preferiti di Peter Brook in teatro; Amba è la francese Corinne Jaber. Krishna è l’inglese Bruce Myers, Arjuna è Vittorio Mezzogiorno.)

8 commenti:

Giuliano ha detto...

Questo post, e gli altri che seguiranno, ha il solo scopo (il solito, l’idea sorregge questo blog) di poter dire: « Ho visto il Mahabharata di Peter Brook e lo racconto agli amici, che magari non lo conoscono.» Non sono un esperto di storia indiana, né tantomeno di mitologia: perciò spero di non aver fatto troppi errori. E se qualcuno mi corregge gli eventuali errori, lo ringrazio in anticipo.
I miei amici e le mie morose, dal 1990 in qua (quando lo vidi al cinema) si sono sempre immancabilmente annoiati a morte; spero che per voi sia diverso.

mazapegul ha detto...

Questo film e' l'opposto di un film minimalista: a me piacque tantissimo proprio per questa ambizione e per le trappole evitate nel perseguirla (oltre che per il film in se', e per avermi aperto una finestra su di un mondo a me sconosciuto). Noioso no di sicuro.

Grazie per la serie, il cui sviluppo attendo con ansia: un lavorio di approfondimento non l'ho mai fatto, la memoria del film e' vaga, e son contento di leggere quello che vai scrivendo in proposito.
Ciao,
Nicola

Giuliano ha detto...

C’è una storia simile a questa di Amba, ed è il racconto che riporta Platone nella “Repubblica”: un soldato, messo tra i morti dopo una battaglia, si risveglia e racconta quello che ha visto. E’ un racconto molto dettagliato: i trapassati possono scegliere la loro nuova vita, ma solo “dalla copertina”; poi arriveranno le sorprese. E, subito dopo, devono bere alla sorgente che toglie memoria delle vite precedenti e di quello che hanno appena visto.
E poi c’è il Libro Tibetano dei Morti, una specie di litania da leggere ai defunti, molto lunga, che dà istruzioni precise all’anima sperduta appena uscita dal corpo su cosa fare, su che strada prendere e quale non prendere, di stare attento alla luce rossa che si vede in fondo a sinistra, eccetera. Ci si potrebbe benissimo farne una parodia per uno sketch comico, così come per Platone, ma l’argomento lo sconsiglia vivamente (e inoltre il libro è bello e merita rispetto).
PS: Anche la storia di Bhishma e del suo voto è una storia di reincarnazione: ma Brook non ne parla, e forse è meglio così, altrimenti ci si perde tra tutti questi nomi complicati. Poi se uno vuole può andarsi a cercare la storia intera. (per fortuna si può, in quest’epoca fortunata: per esempio il riassunto del Mahabharata dello scrittore indiano R.K. Narayan, edito da Guanda; ma su internet c’è molto).

Solimano ha detto...

Ho provato, anni fa, a migliorare la mia conoscenza della metafisica indica, ma è una fatica immane, quando mi sembrava di cominciare a capire qualcosa venivo spiazzato.
Due differenze nolto grandi che quasi impediscono a priori di intendersi sono il nostro monoteisno, che c'è anche nei laici, e la reicarnazione, intesa come ciclo di nascite e morti. A dirla così sembra una favoletta, ma tale non è, viste le conseguenze: il rapporto con la morte è diversissimo, e tale si manifesta anche nei funerali, che hanno una normalità che noi neppure ci immaginiamo.
Una impressione analoga me l'ha data un grande mistico cristiano, Meister Eckart: lo leggi, generalmente non capisci, ma sei contento di leggerlo, non ti senti umiliato dal non capire e non ti sembra di buttare via il tuo tempo.
E la stessa cosa l'ho provata guardando il film tratto dal Mahabharata. Ma vedremo le prossime puntate...

saludos
Solimano

mazapegul ha detto...

C'è anche, Solimano, un altro aspetto diverso nelle grandi religioni indo-cinesi. Non c'è molta attenzione all'"essere", alla "radice", mentre ce n'è molta alla prassi.
Per dirne una, mentre la nostra medicina essenzialista vuol rimuovere la causa remota del dolore, andando al di là dei sintomi (che son pure apparenze); la medicina cinese va diritta al sintomo e al dolore, lasciando l'"essenza" fuori dalla porta.
Quando Krishna dice al nemico agonizzante qualcosa del tipo "il tuo dolore mi addolora, ma la tua sconfitta mi riempie di gioia", esprime un anti-assolutismo che in occidente è una filosofia di nicchia. Lo stesso dicasi per il riconoscimento "ho usato degli inganni, ma il nemico era molto forte".
Una delle cose migliori dell'occidente, i diritti umani individuali, si basa su una concezione astratta della persona umana: l'essenza dell'uomo non è individuale, ma sociale. Partire dall'individuo (come Cartesio, come Kant) per costruire il resto, come dai mattoni si fa la casa, è un procedimento del tutto speculativo: il mattone in sè esiste, l'individuo in sè no.

[Un pò confuso, ammetto]

Atsalud, Nicola

PS Giuliano: e la II parte!?

Solimano ha detto...

Nicola, la seconda puntata del Mahabharata è on line da qualche minuto, e non finisce qui.
Tu hai usato un termine appropriato: "confusione". E' quello che succede con le due grandi culture dell'Oriente: quella indiana e quella cinese.
Di per sé, i singoli tasselli non presentano particolari difficoltà, se non quella di essere attenti. Sono i nessi che mettono in crisi. Tu hai fatto l'esempio più clamoroso: l'individuo. In India non si parte dall'individuo, ma dal processo di individuazione (fra l'altro da tutti i punti di vista, compreso quello logico e quello biologico è la cosa più corretta). Noi abbiamo una serie di a priori a cui non è che sia difficile rinunciare o meno, cambiare idea, insomma. E' che riusciamo con molta difficoltà a prenderne le distanze. Ed è una strada difficile e che presenta anche dei pericoli, perché c'è ancora oggi che si rifugia in uno preudoinduismo di tipo coglione per coprire il suo irrazionalismo. Una scelta di tipo tardoromantico che mette in crisi le vecchie certezze senza raggiungerne di nuove. I figli dei fiori facevano solo ridere, in primis i guru indiani da cui volevano apprendere.
Preso da tante cose io ho deciso così: quando posso leggo con attenzione (come sto facendo con i post di Giuliano) tacitando la valutazione, l'essere d'accordo o meno: con questa civiltà il jump to conclusion non funziona (il che non vuol dire assolutamente mettersi in balìa di vaghezze senza capo né coda. Ascoltare, ecco quello che serve.

good night
Solimano

Giuliano ha detto...

Caro Solimano, "Ascoltare è quello che serve", dici, e mi fai sospirare.
Con un programma così, in Lombardia e in tutta Italia, prenderesti sì e no dieci voti. Ma questo, lo ammetto, è un discorso da iniziare su un altro blog...

mazapegul ha detto...

Mi viene in mente un libro letto di recente, Il Cervello del XX Secolo. L'autore, biochimico e neurobiologo, critica l'impostazione essenzialista della nostra (della sua) scienza. Per esempio, il culto del DNA. Oppure, la ricerca di una "sede della coscienza" nel cervello.
Per rimanere alla coscienza, per lui (allo stato delle conoscenze) non è altro che la contemporaneità e intercomunicazione di una molteplicità di funzioni cerebrali, che non sono del tutto isolabili: visione e gli altri sensi, sensazioni (panico, amore...), memoria. Tagliando prima l'una e poi l'altra non rimane una "coscienza pura": non rimane proprio nulla. [Semplificando].

Poi butta lì dei riferimenti generici e non sviluppati alla medicina aryuvedica. Si capisce che non ci ha pensato molto, ma che ci ha dato un'occhiata, come si fa a volte nella ricerca, per uscire dalle secche di un vicolo cieco (in questo caso, la riceca dell'essenziale e l'esagerato riduzionismo) che, per formazione e per esperienza, non si riesce a lasciare.

Mi fiondo a leggere la seconda puntata del Mahabarata.

Ciao,
Nicola