mercoledì 31 ottobre 2007

Tutti pazzi per Mary


There's Something About Mary, di Peter e Bobby Farrelly (1998) Sceneggiatura di Ed Decter e John Strauss Con Ben Stiller, Cameron Diaz, Matt Dillon Fotografia di Mark Irwin Musiche di Ned Claffin (119 minuti) Rating IMDb: 7,2
Roby
Tutti pazzi tranne me, s'intende: se c'è un genere cinematografico che detesto (e neppure troppo cordialmente) è proprio quello demenziale d'oltreoceano, di cui questo film è uno squisito esempio. Se non l'avete visto, e se qualcuno ve ne ha magnificato i pregi (?), esaltandolo come una pietra miliare (!) del politicamente scorretto (#*%!?!), non affannatevi troppo a cercarlo in internet, in videoteca o su You-tube: una veloce scorsa a trama ed immagini in rete sarà sufficiente a darvi un'esauriente idea della sua sconvolgente pochezza, contrabbandata come geniale umorismo controcorrente da parte dei sostenitori dei due registi, i fratelli Farrelly, già noti per capolavori del calibro di Scemo e più scemo. Ora, sarà che io ho qualche difficoltà a trovare divertenti le battute di spirito "all'americana"... sarà che Ben Stiller mi riesce insopprimibilmente antipatico... sarà che trovo Cameron Diaz tanto graziosa quanto insignificante... fatto sta che -se proprio devo affrontare doppi e tripli sensi anatomosessuali- preferisco farlo, restando sul suolo natìo, con una delle innumerevoli edizioni di Vacanze di Natale della coppia Boldi-De Sica. Natale sul Nilo -qui lo dico e qui lo nego- mi ha fatto scompisciare dalle risate, per quanto capisca da me che si tratta di una boiata pazzesca.

Al contrario, la s-garbata comicità dei Farrelly prende di mira senza distinzione individui sani e malati, abili e disabili, mandando in visibilio una parte della critica e del pubblico, secondo cui sarebbe ora di finirla con il proteggere ipocritamente le classi sociali più deboli, evitando accuratamente la satira a loro carico. Ma sì, perbacco, sbeffeggiamo pure con la massima insensibilità un ragazzo cerebroleso, prendiamoci gioco crudelmente di paraplegici e di vecchiette inermi: solo così, finalmente, avremo creato un genere comico all'avanguardia, moderno e (soprattutto) imbattibile al botteghino. E poi, cari signori maschietti, non avete trovato anche voi irresistibilmente buffa la deliziosa trovata (vecchia come il cucco) della cerniera dei pantaloni che s'impiglia (sì sì, proprio !!!)? Per non parlare della gag del gel per capelli che non è affatto un gel, ma che invece proviene fisiologicamente sempre da (sì sì, proprio da !!!).
Ebbene, non ho più parole. Anzi, ne ho spese anche troppe per una paccottiglia del genere. E adesso, lo confesso, mi sento meglio. Forse i fratelli Farrelly non hanno tutti i torti: fa bene, ogni tanto, prendersela con i deboli (di spirito!).




La ciociara (2)

La ciociara, di Vittorio De Sica (1960) Dal romanzo di Alberto Moravia, Sceneggiatura di Cesare Zavattini e Vittorio De Sica Con Sofia Loren, Jean-Paul Belmondo, Eleonora Brown, Carlo Ninchi, Andrea Checchi, Pupella Maggio, Antonella Della Porta, Franco Balducci, Luciano Pigozzi, Raf Vallone, Ettore Mattia, Renato Salvatori Musica: Armando Trovajoli Fotografia: Gabor Pogany (100 minuti) Rating IMDb: 7.8
Solimano
Vittorio De Sica ci sapeva fare, a far recitare i ragazzi. Molti ricordano le partite a carte col bambino de L'oro di Napoli, con De Sica (regista ed attore) che faceva la parte di un anziano gentiluomo ridotto in miseria dal vizio del gioco, che si sfogava a giocare col figlio del portinaio, perdendo regolarmente. De Sica si adombrava e dava (se non vado errato) del lei al bambino. Pochi ricordano le scene di Pane amore e gelosia, in cui De Sica aveva il suo daffare col ragazzino figlio della levatrice che non l'aveva in simpatia. De Sica (il Maresciallo Carotenuto naturalmente) cercava di comprarselo regalandogli un pallone, con cui la prima cosa che faceva il ragazzino era di rompere il vetro. Ma soprattutto Sciuscià e Ladri di biciclette, anche se sicuramente, fra i tanti film che ha fatto come attore e/o regista ce ne saranno stati altri di questo tipo. Capiva il modo di ragionare e di sentire dei bambini, le loro priorità, cosa non semplice come si crede. Per me, li capiva perché dentro di lui era vivissimo il ragazzo che era stato e che continuava ad essere, e questo spiega una sua dote unica: arrivare con semplicità geniale al gesto ed allo sguardo giusto, più ancora che alle parole. Non è che spiegasse come si fa a recitare, sapeva che sarebbe stato tempo perso, dava ai ragazzi delle parti in cui si riconoscessero. Difatti evitava con naturalezza le carinerie, che i ragazzi sono i primi a non volere, ma che fanno invece sdilinquire tanti adulti.

Quindi, quando scelse la dodicenne Eleonora Brown per la parte di Rosetta ne La ciociara, sapeva benissimo che fare, anche se molti non se ne sono accorti, ed hanno tacciato Rosetta di legnosa. Per forza, è una ragazzina allevata dalle suore, con la mamma sempre addosso e che in pochi giorni se ne trova di novità. Prima il viaggio in treno, poi camminare a piedi con la valigia sulla testa (e mamma Cesira le spiega come si fa). Nel letto grande dove dorme con la mamma, una mattina fa finta di faticare a svegliarsi, perché le è venuto per la prima volta il flusso mestruale, e non lo dice, fa in modo che la mamma se ne accorga da sola. Poi Michele, di fronte a cui Rosetta è in adorazione come se fosse un Santo in Chiesa, e le dispiace, quando vede che lui bada di più alla mamma. E' tutta scena, quando nella tinozza la mamma la lava ed arriva dal pertugio la testa di Michele, difatti è Michele che si spaventa e arretra di dieci metri. La mamma mette fuori la testa a fargli una risata, perché ha capito com'è Michele, e a chi starebbe dietro, non è come quel fascista che cercava di fare il ganascino a Rosetta.

Poi la tragedia, sì, la tragedia. Rosetta fa esattamente come Edith (Susan Strasberg) nel film Kapo di Gillo Pontecorvo, 1959, appena un anno prima. Edith sa che tutte le settimane c'è la visita medica nel lager, e quelli che non la passano vanno nella camera a gas, quindi, quando si trova di fronte al medico, per distrarlo dalle mani rovinate si scopre il seno. Nello stesso film c'era Terese (Emmanuelle Riva), più in età, che quando si vede lottare per le briciole di una pagnotta, decide di non imbestiarsi oltre e si butta sui filo spinato ad alta tensione. Non è vero che Michele è morto per niente, da mezzo prete di cui nessuno ascoltava le prediche, la sua morte serve a Rosetta per aprire gli occhi e la mente, piange per qualcuno che non è sé stessa. De Sica era tutto tranne che un sadico truccato da gentile, si trovò il libro di Moravia in cui la giovane si perdeva e gli venne una soluzione che molti non apprezzarono.
La ciociara di De Sica è come La grande guerra di Monicelli: due grandi film italiani in cui i registi si trovarono a rispondere a tanti: politici, militari, religiosi. E scrittori, critici, produttori ed attori. E il pubblico pagante. Fecero il possibile e l'impossibile. Per me, nella situazione data, non potevano fare di meglio. Una cosa mi piacerebbe, che questi film li si guardasse senza retorica, ma con commozione lucida ed onesta, perché dicono cose belle su noi stessi non nascondendo le brutte, che c'erano e ci sono: è il caso di guardarle, anzi, di specchiarsi.
A me Sofia Loren è piaciuta. Il suo personaggio è sicuramente diverso da come lo aveva inventato Moravia e forse da come lo volevano De Sica e Zavattini, ma ne esce, compreso il chiaroscuro dei traffici da negoziante fin troppo avveduta, una figura vitale, appassionata e fantasiosa, furba e verso la figlia amorosissima. Mi piacerebbe chiamarla più spesso Cesira, anziché Sofia Loren, ma in questo, che vuol dire fare un passo indietro che poi sono due in avanti, ci riuscì una volta per tutte ne Una giornata particolare (1977) di Ettore Scola, diciassette anni dopo. Lì è definitivamente Antonietta, e mi ha fatto piacere leggere di recente che è la prima a saperlo.

Mahabharata - 5. La morte di Bhishma

Giuliano
Questa è un’altra delle scene più misteriose, e più suggestive, del film di Peter Brook. Un altro momento in cui si parla dell’aldilà, e del trascendente. Anche qui, vista l’enorme difficoltà dell’argomento, mi limito a riportare il lavoro di adattamento fatto dallo sceneggiatore Jean Claude Carrière.
Ci si avvale ancora una volta, all’inizio, della grande presenza scenica di Sotigui Kouyaté, che è forse il vero centro di tutta l’operazione tentata da Brook e da Carrière. Poi tutto il resto è lasciato ai primi piani, intensi e molto ispirati, degli altri due attori: il polacco Andrzei Seweryn che è Yudhìshthira, e il francese Ken Higelin, che quando fu girato il film aveva sedici anni, e forse per questo è così adatto alla parte. E’ una scena molto breve, basata tutta sulla suggestione delle parole e dei primi piani.

Yudhishtira, fratello maggiore di Arjuna e capo dei Pandavas, si sente in colpa dopo l’uccisione di Ghatokatcha, mandato da Krishna a sicura morte con l’inganno (l’ennesimo inganno) per togliere a Karna un colpo mortale, e si reca da Bhishma morente per chiedere ragione di tutto questo, e se ha senso continuare la battaglia. Bhishma, il grande guerriero, riferimento morale e spirituale di tutti i contendenti, è sul suo letto di morte, fatto di frecce. Colpito da Sikhandin (anzi, no: da Arjuna) sta lentamente morendo, mentre infuria la battaglia. Yudhishthira si reca da lui per chiedergli che senso ha tutta questa carneficina. Il vecchio guerriero si alza per un attimo dal suo letto di morte ed evoca “the deathless boy” , il ragazzo che non conosce la morte; a lui Yudishthira potrà rivolgere le sue domande. Il ragazzo appare.

Yudishthira: Sei tu il ragazzo che non ha morte?
Ragazzo: Sì.
Yudishthira: Sei tu che hai detto “La morte non esiste”?
Ragazzo: L’ho detto.
Yudishthira: Ma, se perfino gli dei compiono sacrifici per non dover morire...
Ragazzo: Entrambe le cose sono vere. I poeti rendono omaggio alla morte e la glorificano nelle loro canzoni; ma io ti dico che la morte è negligenza ed ignoranza, e che vigilare è l’immortalità. La morte è una tigre acquattata nei cespugli. Noi facciamo figli per la morte, ma la morte non può divorare chi si è scrollato la vita di dosso come polvere. La morte non ha potere davanti all’eternità. Il vento e la vita scorrono partendo dall’infinito. La luna beve il respiro della vita, il sole beve la luna, e l’infinito beve il sole. Il saggio si libra tra i mondi. Quando il suo corpo è distrutto, quando non ne rimane traccia, allora la morte stessa è distrutta a sua volta, e il saggio contempla l’infinito.
(scompare)
Yudishthira: (tra sè) Per tutta la mia vita ho sentito i saggi che dicevano: “ Se il dharma è protetto, protegge; se è distrutto, distrugge.” Stiamo proteggendo il dharma?
Krishna (apparendo brevemente): Spesso, l’unico modo per proteggere il dharma è dimenticarlo.

La battaglia continua, ma ormai Drona è stato ucciso, Karna non ha più difesa, la vittoria dei Pandavas è certa. Ora Bhishma può morire.

P.S.: Riporto la definizione di “dharma”: così come appare nell’appendice al riassunto del “Mahabharata” fatto dallo scrittore indiano R.K.Narayan (editore Guanda):
dharma: ordine stabilito; giustizia, dovere, virtù; regola, legge (in campo sociale, morale e cosmico)
Dharma: il dharma personificato e divinizzato; identificato a volte con Yama.

martedì 30 ottobre 2007

La ciociara (1)

Solimano
Nelle righe in cima alla home page, appena sotto il nome del blog, c'è scritto che questo non è un blog di critica cinematografia, e penso che gran parte dei post pubblicati confermino che volutamente non ci impanchiamo a critici, ma raccontiamo le nostre esperienze personali con i film di cui scriviamo.
Però non c'è scritto che non avremmo fatto la critica ai critici, ed oggi scelgo di farla, perché ho letto, sempre sul benemerito sito Mymovies, alcune recensioni de "La ciociara" (1960) scritte in tempi di poco successivi all'uscita del film. La conclusione a cui sono giunto è che fra gli addetti ai lavori circolassero dei bei pugnali avvelenati, pugnali spesso truccati da carezze. Commento qui sotto alcune frasi dei critici, ed è questo il modo che scelgo per La ciociara, che è un film importante. Prima scrivo dei critici e poi del film, rovesciando la freccia del tempo.

Giuseppe Marotta su Facce dispari, Bompiani 1963
"Su un piatto di bilancia stanno Vittorio De Sica, Alberto Moravia, Cesare Zavattini, Sofia Loren; sull'altro i nostri dissensi o consensi di gente qualunque, senza un'oncia di rinomanza, di prestigio, magari d'ingegno".
Basterebbero queste tre righe per evidenziare la falsa umiltà di Marotta: sotto la veste di lodare in realtà denigra, facendo intendere che quelli che stanno sopra sono una lobby che la gente qualunque deve subire. Si tratta di puro qualunquismo, di nome e di fatto. In questo, invece di fare opera di acculturazione, vellicava gli istinti di chi voleva sentirsi tagliato fuori, mentre in reltà lo tagliava fuori solo l'ignoranza. Questo atteggiamento di sprezzo vittimistico verso gli intellettuali, è ben vivo anche oggi, ed è pericoloso oltre che sciocco. In realtà Marotta credeva di essere migliore di quelli da cui si sentiva escluso, mentre ad escluderlo erano i suoi ragionamenti di questo tipo. E' una umiltà maligna, stile Uriah Heep. Nel 1954 Marotta aveva collaborato con De Sica e Zavattini al film "L'oro di Napoli", evidentemente non si erano lasciati bene.

"Zavattini mi confidò (è teneramente, poeticamente invaghito di sé): «Ho avuto, per la sceneggiatura, un'idea fenomenale»; di Carlo Ponti mi fu detto che gongolava genericamente: nei limiti, oso credere, del suo buffo cappellino tirolese".
Così Marotta dà una sistemata al narcisismo di Zavattini ed ai limiti intellettuali di Carlo Ponti, che i limiti ce li aveva eccome, basti ricordare "Il disprezzo" di Godard, censurato in Italia per volontà dello stesso Ponti, che invece decise la proiezione integrale in Francia. Ma suvvia, non si vede cosa c'entri il cappellino tirolese, per quanto buffo.

"Mi duole, caro Cesare, ma ti è mancata ogni audacia; le tue ali (indubbie) questa volta non hanno saputo o voluto battere".
Qui lo trovo sgradevolissimo: tira una stoccata sotto l'apparenza di una carezza.

"Le donne e gli uomini di Moravia sono invece ritagliati nei foglietti del calendario".
Prendersela con Moravia era la cosa più naturale, per il mondo a cui apparteneva Marotta. Non dico che sarebbe stato il caso di lodarlo, ma metterla giù in questo modo mi sembra un cercare la compiacenza di chi non sa, e pur di continuare a non sapere, apprezza la denigrazione del cosiddetto ceto intellettuale. Uno che scriveva queste cose, faceva comodo: certe riviste come il Borghese e Candido ci campavano, fra l'altro avendo fra le firme alcuni scrittori ben dotati, che di fondo rimpiangevano le prebende fasciste. Si sentivano tagliati fuori e la loro reazione era simile a quella di Marotta che, avendo una scrittura brillante, era un comodo alibi.

"Valutate questo Michele (a Sant'Eufemia) che s'infiamma di Cesira. È un laureato, un intellettuale dei più nuvolosi e improbabili".
Assai ben detto, Marotta non li poteva vedere, 'sti nuvolosi ed improbabili, i suoi veri motivi sono facilmente intuibili: non si faceva una ragione che per questi nuvolosi ed improbabili ci fosse maggior considerazione di quella rivolta a lui. Il personaggio di Michele (Jean-Paul Belmondo) fu oggetto di critiche delle più varie provenienze.

"Questo fondamentale errore del mutamento di Rosetta da verginella a sgualdrina, lo commise l'autore dell'arcigno romanzo. Egli affetta, sulla pagina, una vasta scienza sessuale; mentre è inchiodato, specificamente, al sillabario".
Che nei primi anni Sessanta si potesse ragionare di sessualità e sensualità ancora a colpi di verginella e di sgualdrina pare incredibile ma è purtroppo vero. Su questi temi basta fare tre date. 1898: Senilità di Italo Svevo, 1919: Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi, 1929: Gli indifferenti di Alberto Moravia. Rendono evidente l'arretratezza di Marotta. Un ragionamento di questo tipo era da Barone Cefalù (non da Pietro Germi!), quello di Divorzio all'italiana, che è quasi contemporaneo (1961). La sottocoltura di tipo postribolare era diffusissima, ne erano a loro modo affetti anche Montanelli e lo stesso Fellini. Fra tante critiche che si possono fare al '68, va comunque mantenuta una lode: l'aver innescato una vera rivoluzione di costume di cui c'era assoluto bisogno. L'Italia era un paese più arretrato di quello che oggi immaginiamo.

"Florindo è Renato Salvatori, non fatica molto ad apparire contundente e selvatico".
Indubbiamente un modo singolare per dire che Renato Salvatori era personalmente rozzo, cosa che fra l'altro fu smentita proprio nel 1960 dal film Rocco e i suoi fratelli.


Giulio Cattivelli su Cinema Nuovo 1960
"Per esempio il carattere di Rosetta, l’entità e il significato della sua brusca metamorfosi dalla quasi-santità alla depravazione più sfacciata restano forzatamente generici e appena accennati (e ciò nonostante la corruzione della tredicenne, a poche ore di distanza dal tremendo “choc”, è una reazione difficilmente credibile)".
A molti critici diede fastidio non tanto lo stupro di branco subito da madre e figlia, me il fatto che la figlia, a cui è crollato il mondo addosso, andasse a letto con Florindo e ne ricevesse in compenso un paio di calze. Anche qui, una singolarità: sia il romanzo di Moravia che il film di De Sica sono finzioni, e uno avrà pure diritto a fingere quello che gli pare. Marotta giunse al punto di dire che era andato negli ospedali di Napoli a vedere come si comportavano le ragazze in casi simili, e scrisse che regredivano a livello di giochi con le bambole. Anche Cattivelli, che scriveva su Cinema Nuovo, invece di criticare la rappresentazione che ne dà De Sica critica che la storia (una finzione) andasse così.

Filippo Sacchi sul Corriere della Sera 2 gennaio 1961
"Dopo questo non vedo che bisogno c’era di far andare la piccina con un altro uomo quella sera stessa. Mi pare che sporchi inutilmente tutto".
Filippo Sacchi, come Cattivelli e come Marotta, batte sullo stesso tasto sincronicamente, nessuno che si soffermi sulla cosa realmente importante: l'efficacia rappresentativa che ha De Sica nel dare questa svolta al suo film.

"E quindi non si deve tacere che raramente ci fu esempio di attrice più ostinatamente appoggiata di lei, e nella quale, malgrado i magri risultati, sono stati impiegati sforzi somme e mezzi pubblicitari più ingenti".
Questa frase, che riguarda Sofia Loren, mostra con chiarezza quale fosse l'atteggiamento generale riguardo il rapporto fra una attrice emergente ed il produttore. Quando uscì La ciociara, la TV realizzò una intervista a Sofia Loren. L'intevista non fu mai messa in onda perché si capiva che era realizzata a casa di Carlo Ponti che a quei tempi non era ancora il marito.

Provvisoria conclusione: le critiche negative si rivolsero soprattutto alla figura dell'intellettuale catto-comunista ed al comportamento della ragazza dopo lo stupro. Queste vecchie storie del 1960 sono presenti anche oggi?

lunedì 29 ottobre 2007

La moglie celebre


The farmer's daughter, di Henry C. Potter (1947) Da una commedia di Hella Wuolijoki Con Loretta Young, Joseph Cotten, Ethel Barrymore, Charles Bickford Musiche di Leigh Harline Fotografia di Milton Krasner (97 minuti) Rating IMDb 7,5
Roby
Per la serie "il cinema pomeridiano su Tele37", ecco un esempio davvero curioso di film d'amore e di politica nell'America del secondo dopoguerra, tratto da una commedia della finlandese Hella Wuolijoki, che pare fosse addirittura una ghost-writer di Bertolt Brecht.
Appartiene senz'altro alla mentalità nord-europea l'idea di una giovane cameriera di origine svedese, Katrin Holstrom (Loretta Young, Oscar 1947 per questo ruolo), che a Washington lavora alle dipendenze del senatore Glenn Morley (Joseph Cotten), al solo scopo di pagarsi un corso per diventare infermiera, finendo però con l' appassionarsi tanto alla politica da accettare di candidarsi al congresso tra le file del partito opposto.
Le è di appoggio nell'impresa la madre del senatore (Ethel Barrymore), vedova di un famoso uomo politico, che in lei probabilmente vede rivivere le aspirazioni del marito ed anche le sue: così, mentre il figlio assiste con estatica ammirazione e con qualche perplessità all'ascesa della giovane "avversaria", la matriarca la difende a spada tratta, malgrado militi nel versante opposto. La ragazza ha temperamento, a dispetto dell'aria fragile e angelica, ed i suoi discorsi infiammano gli elettori al punto da portarla in testa alle proiezioni. E quando il candidato ufficiale del partito di Morley -un tipo adeguatamente viscido e infido- tenta di screditarla, temendo di essere scavalcato, con chiacchiere infamanti ("quella sgualdrina ha dormito in una camera d'albergo insieme a vari uomini"), la signora Morley & figlio si danno da fare per riabilitarla, ovviamente riuscendoci. Alla fine, defenestrato il candidato imbroglione, Katie resta la sola in lizza, ed ottiene pressochè in contemporanea il seggio al congresso e la domanda di matrimonio da parte di Glenn, completamente soggiogato dalle sue grazie, dalla sua grazia e -probabilmente- dagli ordini della mamma/padrona.
A questo punto, devo confessare che mi aspettavo -nel finale ormai imminente- la giudiziosa rinuncia di Katie alla carriera politica, in nome dei sacri doveri di moglie, sposa e futura madre. Invece -sorpresa, sorpresa!- è il marito stesso ad accompagnarla al Campidoglio, il giorno dell'insediamento, in apparenza felice e contento di avere una moglie "onorevole", sicuramente più celebre di lui. L'unico sfizio che si concede è quello di prenderla in braccio, sulla soglia del palazzo, così come lo sposino fa con la mogliettina per introdurla nella nuova casa.

Film curioso, come dicevo all'inizio, e curiosa è anche l'origine, quell'opera teatrale a cui accennavo, scritta guarda caso da una donna, alla quale non dovevano certo mancare le capacità drammaturgiche, se Brecht se ne servì -si vocifera in rete- come collaboratrice più o meno ufficiale.
Gli uomini, in questa storia, non fanno proprio una bella figura: il bravo Glenn fin dal primo momento scodinzola come un cagnolino agli ordini di Katie, sotto lo sguardo vigile e compiaciuto di mammà; i fratelli di lei sono solo un terzetto di atletici bamboccioni; i politicanti, tutto intorno, fanno a gara per risultare antipatici; l'unico che si salva, tutto sommato, è il padre di Katie, il severo e onesto fattore del titolo originale inglese.
In definitiva, nel generale clima pre-elettorale e post-primarie degli ultimi tempi, la figura della battagliera ragazza di campagna con le idee semplici ma chiare e con la voglia e la determinazione di esprimerle in pubblico mi ha colpito, e non poco, specie se si pensa al periodo in cui è ambientata. Certo, non mi sarebbe dispiaciuto un Act two in cui fosse mostrata la vita quotidiana della congressista, divisa fra discorsi e pannolini (nel '47, fra l'altro, non esistevano i Pampers usa-e-getta!), fra sedute in notturna e problemi di dentizione. Chissà se il marito, a quel punto, sarebbe stato ancora tanto giulivo e soddisfatto di fare il principe consorte?


Loretta Young, una candidata da Oscar

La ragazza sul ponte

La fille sur le pont, di Patrice Leconte (1999) Sceneggiatura di Serge Frydman Con Vanessa Paradis, Daniel Auteil, Frédéric Pfluger, Demetre Georgalas, Catherine Lascault, Isabelle Petit-Jacques, Mireille Mossé Musica: Tante canzoni, cantate o suonate da Brenda Lee, Benny Goodman, Noro Morales, Marianne Faithfull, Orchestra Secondo Casadei, Banda Ionico, Calicanto, Istanbul Oriental Ensemble, Marcello Colasurdo etc e "Land der Berge, Land am Strome" di Mozart Fotografia: Jean-Marie Dreujou (90 minuti) Rating IMDb: 7.4
Laura
Di questo film cado vittima ogni volta che ne capto un fotogramma in tv. Di solito succede in orari impopolari e questo me lo rende ancor più caro perché mi piace pensare che il film sia lì per me, che mi aspetti. Solo la fotografia, un ipnotico b/n tessuto da Jean-Marie Dreujou, può tranquillamente valere la visione del film. Quindi, arrendersi docilmente alla storia senza farsi spiazzare definitivamente dalla bellezza impertinente della Paradis e da quella magnetica di Auteil (ma vi avverto, ci sono primi piani dove è impossibile riuscirci.)

Adele (Vanessa Paradis) è una ragazza tormentata. Così tormentata, depressa e sfortunata che si ritrova presto su un ponte della Senna pronta a buttarsi giù per farla finita. Che abbia l'aria di commettere un' azione sciocca glielo dice Gabor (Daniel Auteil), un lanciatore di coltelli a cui le cose non vanno proprio bene ma che la convince a rinunciare proponendole di diventare la sua assistente nei pericolosi numeri di lame volanti. Adele accetta e i due iniziano a girare l'Europa. Inaspettatamente per entrambi inizia un periodo sfacciatamente fortunato: gli ingaggi sono ottimi, i numeri perfetti tanto da osare sempre di più, il pubblico li acclama. Tutto, anche la decisione più stupida e azzardata per testare la sorte, ha sempre un esito positivo. La coppia, che ha un rapporto solamente professionale (delizioso come Adele dia sempre del lei a Gabor fino alla fine -o quasi- del film) sembra essere protetta da una bolla fatata, una speciale benedizione da parte della Fortuna, ovunque vadano e qualsiasi cosa facciano. Adele scommette e vince, gioca e vince, vuole un uomo e se lo prende senza difficoltà alcuna. Gabor sfida addirittura un treno in corsa e il treno passa su un altro binario a un millimetro dall'inevitabile. Benché convinti di essere una coppia invincibile, Adele decide di lasciare Gabor per correre dietro a Takis (Demetre Georgalas), un fresco sposo che per lei pianta la moglie in bianco nuziale sulla nave. Poco tempo e tutto cambia. La Fortuna, separatamente, non si prende lo scomodo di seguirli. Gabor ha sempre saputo il trucco ma evidentemente Adele doveva vederlo con i suoi occhi.
La Fortuna non ce la vediamo mai addosso. Questo credo succeda quando rimaniamo in bilico sul cornicione della nostra vita. Quando abbiamo paura di fidarci della voce del nostro istinto, quando non scegliamo, quando ci dimentichiamo di avere delle doti, quando non ci autosfidiamo. Ma soprattutto quando non siamo disposti a rischiare nulla per metterci in gioco. Perdere la fiducia in se stessi significa farsi abbandonare dalla buona sorte. La perdita raddoppia quando si salta di partner in partner, alla ricerca di una Felicità standardizzata, quando magari l'altra metà, quella perfetta e a noi complementare, ce l'abbiamo proprio sotto il naso. Questo è il trucco del gioco che Adele scopre alla fine, quando ritrova un Gabor disperato, pronto a buttarsi dal ponte dopo aver perduto lavoro, coltelli, aspirazioni, schiacciato da un destino avverso. Insieme funzionavano semplicemente perché Fortuna significa anche rimettersi all'altro incondizionatamente creando quasi una sorta di legame telepatico, uno stato di grazia soggettivo da saper riconoscere e tenere a mente.

Certo, può anche succedere di gridare "Takiiisss!" tutta la vita mentre quello è lì a cambiar donna ogni due giorni senza sentirsi minimamente "chiamato". Gabor ha sempre saputo che Adele E' di fatto la sua Dea Bendata. Eppure non la trattiene contro la sua volontà, pur sapendo che andranno incontro alla rovina. La prova del nove si rivela nel finale, per tutti e due. Toccante l'abbraccio a più riprese, molto più di un prevedibile bacio e proprio per questo risulta essere un gesto forte, vibrante. Leconte si diverte a buttare la pietra per poi nascondere la mano. Suggerisce ancora una volta invece di dire. Crea equilibri instabili dall'inizio alla fine, si diverte quasi alle spalle dei protagonisti ficcandoli in situazioni sempre nuove. Memorabili gli abiti di Gabor, le atmosfere felliniane, l'aria del circo e lo scintillio dei lustrini. Per chi se lo chiedesse, "Who Will Take Your Dreams Away" è la canzone che nel film sottolinea i momenti di maggiore intensità. La voce è quella di Marianne Faithfull.

Mahabharata - 4. Il Canto del Beato (Bhaghavadgita)

Giuliano
Siamo di fronte ad uno dei momenti più grandi, ma anche più oscuri e più lontani dalla nostra logica occidentale. La Bhaghavadgita, il “Canto del Beato”, è un vero e proprio libro di filosofia, più che di religione; parla dell’aldilà e del trascendente, ed è spesso oscuro e incomprensibile, e dotato di un enorme fascino. Confesso di aver provato a leggerla, e di non averne ricavato molto. Immagino cosa deve aver provato Jean Claude Carrière, dovendola ridurre a un testo per il teatro, e anche piuttosto breve. E’ soprattutto per queste due ragioni, oltre per il fatto che questo è un blog sul cinema e non di questioni filosofiche o religiose, che mi limito a trascrivere qui la Bhaghavadgita come è stata riassunta nel film, cercando di rendere il senso del testo e delle immagini meglio che posso.

Sta per iniziare la grande battaglia finale, la battaglia di Kurukshetra (è una località precisa, che porta ancora questo nome) nella quale si trovano di fronte gli appartenenti alla stessa famiglia. da una parte i Pandavas, guidati da Arjuna, al cui fianco c’è il dio Krishna; dall’altra i Kauravas, loro cugini, guidati da Bhishma e da Drona, guerriero imbattibile e maestro d’armi. Tra le fila dei Kauravas, c’è anche Karna. E tutto è pronto per cominciare, ma ecco che Arjuna, proprio mentre sta per soffiare nel corno che darà inizio alla battaglia, si ferma, passa una mano sul volto, guarda smarrito Krishna che è alla guida del suo carro, e depone le armi.

Arjuna: Krishna, le mie gambe si piegano. La mia bocca è secca, il mio corpo trema. L’arco mi sfugge dalle mani... Bhishma, il re mio zio, i miei cugini, i miei nipoti, e Drona, il mio maestro, sono tutti là... Io non posso portare la morte alla mia famiglia. (scende dal carro) Ho preso la mia decisione, non mi difenderò. Aspetterò qui la morte.
Krishna: Cos’è questa vergognosa e folle debolezza? Alzati e combatti!
Arjuna: L’angoscia mi assale. Non riesco a vedere dove sia il dovere. Insegnami...
(pausa)
Dhritarashtra: Cosa fa Krishna?
Vyasa: Parla con Arjuna.
Dhritarashtra: Cosa gli dice?
Vyasa: Sta dicendo ad Arjuna che la vittoria e la sconfitta sono la stessa cosa. Lo spinge ad agire, e a non riflettere sui frutti delle sue azioni. Gli dice: “ Cerca il distacco, combatti senza il desiderio di farlo.”


(riprende su Arjuna e Krishna)
Arjuna: Tu dici: “ Dimentica il desiderio, cerca il distacco”; e tuttavia mi spingi alla battaglia, al massacro? Le tue parole sono ambigue, io sono confuso.
(pausa)
Vyasa: Krishna gli dice: “Non ritirarti nella solitudine. La rinuncia non è abbastanza. Devi agire, ma non devi farti dominare dall’azione.
(riprende su Arjuna e Krishna)
Krishna: Nel cuore dell’azione, devi rimanere libero da ogni legame.
Arjuna: Come posso mettere in pratica ciò che mi domandi? La mente è instabile, capricciosa, è evasiva, febbrile, tumultuosa, tenace. Sarebbe più facile domare il vento.
Krishna: Devi imparare a guardare nello stesso modo, con l’identico sguardo, una montagna di terra e una montagna d’oro, una mucca e un uomo saggio, un cane e un uomo. C’è un’altra intelligenza oltre la nostra mente.
Arjuna: Le passioni ci trascinano lontano, oscurano e rendono ottusi i nostri sensi. Come posso trovare quest’intelligenza? Con quale volontà?
(pausa)
Vyasa: per rispondere a questa domanda, Krishna condusse Arjuna attraverso l’intricata foresta dell’illusione. Cominciò a insegnargli l’antica sapienza yoga, e il misterioso sentiero dell’azione. Gli parlò per un tempo lungo, molto lungo, in mezzo ai due eserciti erano pronti a distruggersi.
(riprende su Arjuna e Krishna)
Arjuna: L’umanità è nata nell’illusione. Come può un uomo raggiungere la verità, se è nato nell’illusione?
(pausa)
Vyasa: Lentamente, Krishna condusse Arjuna attraverso le fibre dello spirito. Gli mostrò i più intimi movimenti del suo essere, e il suo vero campo di battaglia, dove non c’è bisogno né di guerrieri né di armi, dove ogni uomo deve combattere da solo: è la sapienza più segreta. Gli mostrò l’intera verità. Gli insegnò come si dispiega il mondo.
(riprende su Arjuna e Krishna)
Arjuna: Le mie illusioni sono svanite ad una ad una. Ora, se posso guardare dentro di essa, mostrami la tua forma universale...
(pausa)
Ti vedo. In un unico punto io vedo l’intero mondo. Tutti i guerrieri si gettano nella tua bocca, e tu li mastichi fra i tuoi denti. Essi vogliono essere distrutti, e tu li distruggi. Attraverso il tuo corpo io vedo le stelle. Vedo la vita e la morte, vedo il silenzio. Dimmi chi sei. Sono scosso nel mio intimo più profondo, ho paura.
Krishna: Io sono tutto ciò che tu pensi, tutto ciò che tu dici. Ogni cosa è appesa a me, come le perle su di un filo. Sono l’essenza della terra, sono il calore del fuoco. Sono ciò che appare, e ciò che scompare. Io sono la beffa dell’imbroglione. Io sono il fulgore di tutto ciò che riluce, io sono il tempo che invecchia. Tutti gli esseri precipitano nella notte, e tutti gli esseri sono riportati alla luce. Io ho già sconfitto tutti questi guerrieri. C’è chi pensa di poter uccidere, c’è chi pensa che verrà ucciso, entrambi sbagliano. Nessuna arma può prendere la vita che tu porti, nessun fuoco può bruciarla, non c’è acqua che possa annegarla, non c’è vento che possa asciugarla. Non aver paura, e alzati, perché io ti amo. Ora puoi dominare il tuo misterioso e incomprensibile spirito, ora puoi vedere il suo lato oscuro. Agisci come devi agire. Anch’io, io non sto mai senza agire. Alzati, e combatti.


Arjuna risale sul carro, le sue paure sono svanite. Soffia nella conchiglia, e i due eserciti si scagliano uno contro l’altro.

Vyasa è il narratore del poema, l’equivalente indiano di Omero, interpretato dall’attore Robert Langdon Lloyd; Dhritarashtra è il re cieco, padre dei Kauravas, interpretato dal polacco Ryszard Cieslak: a lui Vyasa racconta le sorti della battaglia.
Krishna è l’inglese Bruce Myers, e Arjuna è Vittorio Mezzogiorno.

(Ma poi, alla fine di tutto, dopo molto tempo, dopo la battaglia, ormai prossimo egli stesso alla morte, Krishna dirà che “Arjuna ha dimenticato tutto...”.)

domenica 28 ottobre 2007

Fiorile


La prima volta che ho visto Fiorile mi era piaciuto moltissimo. Sarà perché lo vidi a tarda notte, e a quei tempi la solitudine era merce rara e preziosa, così come il silenzio. Starsene da sola davanti alla tv a guardare un film non commerciale era un lusso che poche volte mi potevo permettere.
L’ho rivisto poche sere fa, e, in generale, mi è piaciuto ancora. E’ una felice idea fare degli ideali di libertà e uguaglianza i protagonisti che, subito uccisi, riaffiorano via via nella storia familiare e sociale attraverso un secolo e mezzo. E’ felice l’idea di consegnare la sopravvivenza di questi ideali alle donne, che li coltivano, anche se più per propensione sentimentale che per intelletto. Ma gli uomini, anche loro, la calpestano, più per avidità e interesse che per scelta razionale. Tutto questo rivisitato attraverso il racconto di un padre a due bambini curiosi della storia di una famiglia a loro del tutto ancora sconosciuta.
Bella l’ambientazione, bella, anche troppo, la cura del particolare che sfiora l’estetismo; e già questo incomincia a disturbarmi, come mi disturbano l’eccesso di richiami e di simmetrie, che rendono la storia un po’ troppo intellettualistica. Ma più di tutti mi disturbano i tempi, dilatati fino allo spasimo, il lungo indugiare della camera su un’inquadratura, i silenzi, oh i silenzi… che sembra quasi che gli attori abbiano dimenticato la parte, e invece magari c’è un significato recondito che noi, poveri normali spettatori, non riusciamo a individuare.
E del resto sono gli stilemi tipici di un certo “film d’autore” italiano: geniale sotto certi aspetti, per altri talmente estetizzante da rendere il racconto di difficile sopportazione. E sì che la storia è intrigante, e si vuole sapere come continua e come finisce. Se solo finisse un po’ più alla svelta, ecco.
E poi, quando la fine arriva, come spesso succede è deludente; la mia impressione (mi capita spesso con autori italiani) è che i registi non trovassero il modo di finire il film, e l’abbiano strascicata in lungo in modo artificioso, caricandola sempre più di simboli e significati, ma in realtà scendendo a capofitto in una quasi ghost-story. E comunque si inserisce nel filone dei finali aperti, tanti cari a certi registi; non è chiaro se l’idea di libertà e di uguaglianza possa avere ancora un posto fra le colline toscane, o se se ne andrà definitivamente oltralpe: ciascuno decida per sé. Ma il nome “Fiorile” scritto da mano ignota sul finestrino dell’auto - che dovrebbe, credo, essere simbolo di futura speranza - mi sembra un escamotage degno di più dozzinali produzioni. O magari non ho capito proprio niente.

P.S. La locandina è stato tutto quello che sono riuscita a trovare sul film. Lascio il compito a Solimano, che certo è più esperto di me, di trovare immagini che rendano giustizia a quelle, bellissime, del film

Frantic

Frantic, di Roman Polanski (1988) Sceneggiatura di Roman Polanski e Gérard Brach Con Harrison Ford, Betty Buckley, Emmanuellle Seigner, Djiby Soumare, Dominique Virton, Gérard Klein, Stéphane D'Audeville, Laurent Spielvogel, Bruce Johnson, John Mahoney Musica: Ennio Morricone Fotografia: Witold Sobocinski (115 minuti) Rating IMDb: 6.6
Giuliano
In “Frantic” ad un certo punto Harrison Ford si ritrova senza scarpe, a piedi nudi. E’ lui a togliersi scarpe e calze, e in una situazione giustificatissima: ma è anche la stessa situazione in cui mi sono trovato spesso nei miei sogni, e so che non capita solo a me. Conoscendo qualcosa di Polanski, mi sono chiesto se questo sia un caso; e propendo per il no, che non sia un caso ma qualcosa di cercato, una piccola chiave di lettura del film, un premio per gli spettatori più attenti. Perchè in “Frantic” (una parola inglese che secondo il mio dizionario significa “frenetico, furibondo, pazzo di gioia, terribile”) la situazione è la stessa che troviamo in molti sogni: Harrison Ford vede sparire la moglie, rapita non si sa da chi né perché, e si trova a doverla cercare in un paese di cui non capisce la lingua, e dove anche le persone a cui si rivolge, e che pure dovrebbero aiutarlo, sembrano non capirlo.

In questo caso, non essere di madre lingua inglese è un ostacolo per chi guarda il film; un ostacolo difficilmente aggirabile, perché per calarsi bene nella parte del protagonista bisognerebbe essere americani e non capire una parola di francese. Anch’io non avrei capito bene questo dettaglio se non avessi letto le recensioni prima di vedere il film, e siccome può capitare ancora che uno di noi si sieda davanti alla tv senza capire bene cosa succede, metto questo particolare tra i difetti del film. E’ un dettaglio essenziale ed affascinante, ma certo ci complica un po’ la vita; anche perché il film viene presentato come un thriller, un omaggio a Hitchcock oltretutto, e quindi lo si vorrebbe guardare in completo relax senza chiedersi ogni cinque minuti cosa succede. Ma è comunque un bel film, e il richiamo a Hitchcock, soprattutto ai film eleganti con Cary Grant, è più che giustificato. Harrison Ford se la cava benissimo anche nelle situazioni più strane, è sempre elegante, quasi come Cary Grant in “Intrigo internazionale”. Diversissima da Grace Kelly è invece Emmanuelle Seigner, giovanissima compagna di Polanski ed eccellente attrice; al rapporto tra Polanski e la Seigner dobbiamo alcune della battute che alleggeriscono un po’ la tensione nei momenti più drammatici (battute del tipo “in quel locale ci vanno solo i vecchi come te”, rivolta ad Harrison Ford).
Dietro al rapimento della moglie dell’ignaro Harrison Ford (un chirurgo a Parigi per un convegno) c’è un equivoco basato sullo scambio di una valigia in aeroporto, un segreto militare celato molto bene che verrà svelato solo nel finale. Ci sono altri particolari da segnalare, oltre al thriller che do per scontato (non amo molto i thriller), e che non rivelo perché fanno parte dello svolgimento della trama. Posso però dire che trovo commovente che la moglie (amatissima) del protagonista abbia i capelli grigi. L’attrice si chiama Betty Buckley, e mostra tranquillamente la sua età: la stessa di Harrison Ford all’epoca dei film, sui 45-50 anni. Mi chiedo quante volte sia successo, nella storia del cinema, che una storia d’amore così forte si svolga tra due persone che mostrano la loro vera età, e la risposta è che si tratta di un caso pressoché isolato.

sabato 27 ottobre 2007

I triangoli nel cinema: Le due inglesi

Muriel, Claude, Ann

Les deux anglaises et le continent, di François Truffaut (1971) Racconto di Henri-Pierre Roché, Sceneggiatura di François Truffaut e Jean Gruault Con Jean-Pierre Léaud, Kika Markham, Stacey Tendeter, Sylvia Marriot, Marie Mansart, Philippe Léotard, Irène Tunc Musica: Georges Delerue Fotografia: Néstor Almendros (116 minuti) Rating IMDb: 7.3
Solimano
E' la storia, che dura anni e anni, dei rapporti del parigino Claude Roc (Jean-Pierre Léaud), con due sorelle inglesi: la concreta e curiosa di vita Ann (Kika Markham) e l'idealista, puritana, anche religiosa Muriel (Stacey Tendeter). Nella storia entrano le due madri, Claire Roc (Marie Mansart) e Mrs. Brown (Sylvia Marriott), amiche fra di loro ed entrambe vedove. Tutto inizia nel 1899, quando Ann conosce Claude a casa sua e lo invita nel Galles, previo consenso delle madri. Lì entra in gioco anche Muriel, che soffre di malattie che oggi chiameremmo psicosomatiche ed ha spesso gli occhi bendati.

Ann farà la scultrice, Claude il critico d'arte

Tutto sembra congiurare per un matrimonio fra Claude e Muriel, auspice Ann, ma la madre di Claude si oppone e viene presa la decisione che per un anno i due giovani non si vedranno né si scriveranno. Se alla fine dell'anno saranno ancora della stessa idea potranno sposarsi senza opposizioni. Claude, figlio unico, è succube della madre, quindi accetta, ma entro sei mesi ha già cambiato idea, perché si è creato un piacevole giro di rapporti nell'ambiente artistico (pittrici e modelle) . La madre lo sa e ne è in fondo contenta, finisce che Claude scrive a Muriel le solite storie che si scrivono in questi casi: che sarà per lei sempre un fratello etc etc. Muriel, che all'inizio era la più fredda dei due, la prende male: nuove malattie, parla ad alta voce camminando per strada, si propone di scrivere a Claude ma non si risolve a farlo.
L'ambiente in cui sono cresciute le due sorelle è puritano, mentre Claude si è abituato al mondo libero degli artisti nella Parigi di fine secolo.
Poi succede che Ann, che vuol fare la scultrice, viene a Parigi, e si incontra con Claude. I due diventano amanti ed Ann rapidamente si appropria delle possibilità parigine ed ha un altro amante, Diurka (Philippe Léotard), mantenendo però il rapporto con Claude, i due uomini sanno l'uno dell'altro. Diurka e Ann partono per la Persia e per la seconda volta sembra che tutto finisca. Muriel di questo non sa nulla, non ha cessato di pensare a Claude, ma imparerà dalla sorella quello che è accaduto. Altre traversie, passa il tempo e Ann, che ha lasciato anche Diurka, torna nel Galles e muore per affezione ai polmoni. Claude impara da Djurka - che ha amato Ann sino alla fine - che Muriel verrà sul continente per insegnare a Bruxelles, va ad aspettarla a Calais. Così avranno la prima notte insieme - Muriel è vergine a trent'anni. Sembra quindi che ci sia un altro finale, stavolta lieto, ma Muriel la mattina dopo parte per Bruxelles. Altri anni, ci sarà la prima guerra mondiale, e Claude imparerà che Muriel si è sposata ed ha una figlia, ma le sue lettere vengono respinte, si rifiutano di riceverle. Un mattino, vicino alla statua del Bacio di Auguste Rodin (un'altra volta compaiono i Borghesi di Calais), Claude vede una comitiva di ragazzine inglesi, gli viene in mente Muriel e pensa che lì in mezzo ci potrebbe essere la figlia di Muriel, poi passa vicino ad un tassì, vede il suo volto nel vetro e dice a sé stesso "ho l'aria di un vecchio, oggi" e si infila in un portone che dà o in una stazione o in un museo attorniato dalle ragazzine. Claude, che aveva cominciato come critico d'arte, ha poi avuto un certo successo come scrittore, raccontando sotto il velame ciò che gli è accaduto, ma non si è sposato e non ha figli. Fine del film.

Muriel alza la benda, e vede Claude per la prima volta

Truffaut aveva fatto Jules et Jim nel 1962, qui torna ad utilizzare un testo di Henri-Pierre Roché, che come si vede è rovesciato, là era una donna fra due uomini, qui un uomo fra due donne. Se si vuole essere cattivi, si può ricordare che la donna in Jules et Jim era Jeanne Moreau, mentre qui l'uomo è Jean-Pierre Léaud, e la differenza c'è, ma si sarebbe ingiusti verso questo film, che racconta benissimo amori che si vorrebbe ci fossero, che si rimpiangono, che durano nel ricordo proprio perché non hanno trovato una definizione nella vita reale: si è sempre a mezza strada. Sono rapporti che proprio per questo motivo non finiscono mai, è una coazione a ripetere in cerca della delusione ormai abituale.
Un bel tema, più importante e diffuso di quello che si crede. Nei rapporti mai del tutto chiusi c'è una persistenza della memoria, ed i ricordi possono riaffiorare con immutata sofferenza a distanza di mesi, anche di molti anni. Solo che i personaggi non riescono ad esprimere con efficacia il sentimento d'amore, né quello trionfante né quello infelice, che avrebbe comunque forza e dignità. Un'altra virtù vera di questo film è nel trapasso psicologico di Ann dal perbenismo vittoriano alla libertà parigina, intesa anche come libertà sessuale.

Claude e Muriel si incontrano per l'ultima volta

E' un film che crede nel desiderio ma non nell'amore, però Truffaut mentiene la giusta ambiguità, forse perché lui stesso la risposta non la sa. Desiderio sublimato e comunque mai del tutto domato, pronto a manifestarsi perché i conti non si sono mai fatti del tutto. Truffaut fa il semplice, ma è complesso (a volte complicato): c'è anche il rapporto con le madri, quella di Claude riesce quasi a perpetuare il controllo sul figlio. Truffaut esprimeva benissimo i personaggi femminili, mentre quelli maschili avevano meno forza di per sé, così si spiega la scelta iterata di Jean-Pierre Léaud: è una proiezione del regista, come se, attraverso la debolezza del ruolo, potesse emergere meglio il suo mondo irrisolto di uomo desiderante, sempre in cammino verso non si sa dove, e diviso fra alternative. Truffaut, l'uomo che amava le donne, mai titolo di film fu più appropriato.

Claude, attorniato da ragazzine inglesi, entra in un portone
E' la scena finale del film

venerdì 26 ottobre 2007

Immagini (1)

Max Von Sydow e Bibi Andersson nel Settimo sigillo di Bergman

Solimano
Siamo contenti di come procedono le cose nel nostro blog, però alcuni problemi li abbiamo e li avremo. I problemi fanno parte della vita, l'importante è accorgersene e cercare di risolverli. Il problema più serio dei primi mesi del blog è stato il reperimento di immagini derivanti dai film di cui scrivevamo. E' un problema che c'è ancora, però un po' meno, e non la faccio lunga nel raccontare come stiamo ovviando a questa difficoltà reale.
Su questo tema, in rete ci sono due atteggiamenti molto diversi fra di loro.
Il primo è l'atteggiamento dei siti di critica cinematografica, e ce ne sono di molto seri che meritano attenzione e rispetto. Per me a volte esagerano con la serietà, perché sembra un loro status symbol mettere poche immagini in genere piccole.
Il secondo è l'atteggiamento di siti e blog che puntano più sulle immagini che sui testi. Dal mio punto di vista vorrei che fossero di più, perché noi avremmo meno problemi, da un altro punto di vista è un atteggiamento non corrispondente al nostro progetto. L'ideale è un rapporto au pair: il testo non deve soffocare le immagini e le immagini non debbono schiacciare il testo. Ci vorrebbe una corrispondenza piena fra immagini e testo, un vero e proprio dialogo. A volte ci riusciamo a volte no, ma le immagini ci vogliono, se no sarebbe come un libro di storia dell'arte senza le immagini dei quadri.
Quindi stiamo procedendo ad aggiungere o a modificare le immagini dei post, specie quelli iniziali. Abbiamo appena cominciato e così procederemo in futuro, perché ci farebbe piacere che chi viene a trovarci si divertisse a scavare nel nostro archivio, che era un libretto e vorremmo diventasse un librone facilmente consultabile. Una volta che si è capita l'organizzazione della colonna molto lunga sulla destra (servono un decina di minuti), la ricerca è relativamente agevole. Qui di seguito indico dieci film che abbiamo provveduto a rimpolpare di immagini (sempre senza esagerare...), e ogni tanto provvederò a segnalare altre novità di questo tipo perchè abbiamo intenzione di andare avanti così. Metto prima il nome ed il cognome del regista per facilitare la ricerca nella colonna a destra:

Agnès Jaoui: Il gusto degli altri
Akira Kurosawa: Rashomon
Anna Di Francisca: La bruttina stagionata
Fred Zinnemann: Mezzogiorno di fuoco
Gabriele Salvatores: Mediterraneo
Ingmar Bergman: Il settimo sigillo
Mario Monicelli: Brancaleone alle crociate
Michelangelo Antonioni: L'avventura
Rainer Werner Fassbinder: Lola
Roger Vadim: Il piacere e l'amore

Oltre a film messi all'inizio del blog, ce ne sono altri messi recentemente. La nostra logica è che tutti i film sono sullo stesso piano, sia quelli messi prima che quelli messi dopo, anche se le modalità dei blog portano a privilegiare i film che sono in home page. Faremo anche in futuro tutto il possibile perché desideriate sfogliare il nostro libro. Ogni suggerimento anche critico è ben gradito, ci aiuta a sbagliare un po' meno.

Barbara Sukowa in Lola di Fassbinder

Mahabharata - 3. Storia di Karna

Giuliano
La giovane Kunti viene presa in simpatia da un santo asceta, che le fa un dono impegnativo e anche pericoloso: è un mantra, una frase che può evocare un dio. La ragazza, per curiosità, ci prova: ed evoca il dio Sole, che appare. Kunti cerca di scusarsi, ma il Sole le spiega, con gentilezza, che questo non è un gioco e che non si può evocare un dio così alla leggera. Il dio si intrattiene piacevolmente con la ragazza, e da questo intrattenimento nascerà un bambino, figlio del Sole. Kunti non sa cosa fare, è quasi una bambina. E’ riuscita a nascondere la cosa, ma adesso il piccolino c’è e non si potrà continuare a fare come se non ci fosse: così lo mette in un canestro e lo affida alle acque del fiume.
Sembrerebbe una storia inventata, da tanto che è simile a quella di Mosè. Eppure è nel Mahabharata da tempo immemorabile; così come nell’epopea babilonese di Gilgamesh, anch’essa precedente alla Bibbia, c’è il racconto del diluvio universale. Ma questo è un argomento troppo serio, e io non sono in grado di trattarlo; mi limito a sottolineare la similitudine, e vado avanti con la storia così come viene raccontata nel film di Peter Brook. Anche perché, a questo punto, le somiglianze con la storia di Mosè finiscono subito. Tanto il racconto del Diluvio, a Babilonia, è simile a quello della Bibbia, quanto questo racconto differisce dalla storia di Mosè nel suo proseguimento.

Il bambino, ovviamente bellissimo, si chiama Karna. Viene raccolto lungo il fiume dalla famiglia di un carrettiere, e in quella famiglia cresce senza sapere nulla delle proprie origini. Riceve però un’educazione marziale molto accurata. E, quando diviene adulto, arriva alla reggia di Dhritarashtra: dove si riconosce subito il suo valore, e dove si evidenzia subito la sua rivalità con l’infallibile arciere Arjuna, uno dei cinque fratelli Pandavas. E sarà proprio Arjuna, sfidato da Karna, a rinfacciare al nuovo venuto le sue origini. “Di chi sei figlio?”, chiede a Karna; e Karna non sa rispondere, perché lo ignora. E’ il figlio del carrettiere, ecco tutto quello che di lui si conosce.
Respinto dai Pandavas, Karna trova accoglienza nell’altro ramo della famiglia, quello dei Kauravas. Duryodhana, il maggiore dei figli del re, lo accoglie come un fratello e fa in modo che abbia da subito un titolo nobiliare. Ma la ferita tra Karna e Arjuna, entrambi arcieri infallibili e valorosi, è ormai insanabile.
I due in realtà sono fratelli, entrambi figli di Kunti. E quindi sono fratelli di Karna tutti i Pandavas, che sono e anch’essi di ascendenza divina (Arjuna è figlio di Indra e di Kunti: ma questa è un’altra storia, troppo lunga per essere raccontata oggi). Kunti è infatti riuscita a tenere nascosta la sua prima maternità.

La rivalità continuerà fino alla grande battaglia di Kurukshetra, dove Arjuna e Karna si troveranno di fronte in eserciti contrapposti. Nei 12 anni dell’esilio dei Pandavas, prima della battaglia, Arjuna ottiene da Shiva un’arma potente e letale, che potrà evocare in caso estremo. Quando Karna lo viene a sapere, si reca da un asceta divino che conosce lo stesso segreto, e si sottomette a lui diventandone il servitore. L’asceta – che in realtà è Parasurama, sesta incarnazione di Vishnu - non si fida mai completamente del misterioso giovane che è giunto al suo servizio, ma si compiace della sua devozione e gli fa finalmente dono della terribile arma. Lo yogi sospetta che il giovane sia uno kshatriya (cosa che realmente Karna è), cioè, nel sistema indiano delle caste, uno dei gradi più alti: al vertice stanno infatti ancora oggi bramini (sacerdoti) e kshatriya (guerrieri), poi gli altri, e infine all’ultimo grado gli intoccabili. L’asceta disprezza profondamente la casta guerriera, e non avrebbe mai accettato di avere per allievo uno di loro; Karna lo sa e per questo ha taciuto la sua appartenenza agli kshatriya.
Ecco, - dice l’asceta scrivendo qualcosa su un pezzo di corteccia – questa è il mantra da recitare quando sarà il momento. Ma devi impararlo a memoria: già non esiste più.” E infatti dal pezzo di corteccia la scritta svanisce non appena Karna ha finito di leggerla.
Adesso lo yogi è stanco, e vuole dormire. Karna, umilmente, gli fa appoggiare la testa sulla propria gamba. Ma sbuca un serpente, che morde Karna in profondità e con morso doloroso; Karna non si muove, stringe i denti per non svegliare il suo maestro. Quando lo yogi si sveglia, vede il sangue, vede il dolore sul volto del giovane, ed esplode in un’ira terribile: « Solo uno kshatriya poteva essere così stupido da non reagire al morso del serpente! Tu sei uno kshatriya, e quindi mi hai mentito.» Scaccia subito Karna, e gli lancia una maledizione: nel momento in cui avrà bisogno dell’arma terribile si dimenticherà del mantra che ha appena imparato.
E così succede. Nella grande battaglia finale, si incrociano i due carri: quello di Arjuna, con Krishna come guida, e quello di Karna. Krishna fa impantanare una ruota del carro di Karna, e così Karna è costretto a scendere e a cercare di rimuoverla. In quel preciso momento, una nube oscura il Sole; Karna si sente perduto e cerca di salvarsi recitando il terribile mantra, ma lo ha dimenticato.
Un furente Krishna spinge Arjuna, che esita, a scoccare la freccia; e la freccia colpisce il segno.

Solo dopo la morte di Karna, Kunti spiegherà ad Arjuna che erano fratelli; ma Karna già sapeva, eppure aveva continuato lo stesso a combattere. I Pandavas lo avevano respinto e umiliato, e Karna non poteva dimenticarlo.
Karna riceve funerali solenni, tutti i Pandavas, suoi fratelli, vi partecipano commossi. “Una morte degna del figlio di un carrettiere”, è il tragico e ironico commento di Krishna, che pure lo aveva sorretto al momento della sua morte.

Nel film di Peter Brook, Karna è interpretato in modo perfetto dal nero americano Jeffrey Kissoon. Sua madre Kunti è l’altrettanto perfetta Myriam Goldschmidt, anch’essa nera ma berlinese; Krishna è l’inglese Bruce Myers, Arjuna (da pronunciarsi con la j alla francese) è Vittorio Mezzogiorno. Una menzione particolare per Sotigui Kouyaté, nato a Bamako nel Mali nel 1936: già interprete di Bhishma, in questo episodio impersona anche lo yogi Parashurama. E’ un attore che avrei voluto vedere più spesso, ma forse Hollywood non si merita un interprete così grande.

giovedì 25 ottobre 2007

Riccardo III - un uomo, un re

Looking for Richard, di Al Pacino (1996) Da "The Tragedy of Richard the Third" di William Shakespeare, Narrazione di Al Pacino e Frederic Kimball Con Penelope Allen, Harris Yulin, Alec Baldwin, Al Pacino, Kevin Conway, Kevin Spacey, Estelle Parsons, Winona Ryder, Julie Moret, Frederic Kimball, Aidan Quinn, Viveca Lindfors, Judith Malina, Kenneth Branagh, Kevin Kline, James Earl Jones, Peter Brook, Derek Jacobi, John Gielgud, Vanessa Redgrave Musica: Howard Shore Fotografia: Robert Leacock (112 minuti) Rating IMDb: 7.1
Solimano
William Shakespeare
di per sé sarebbe un cinefilo, di quelli tosti: 694 volte è stato al cinema, cominciando con un King John del 1899 e finendo con quattro pre-produzioni che saranno ultimate nel 2008. Solo nel 2007 otto film sono usciti o stanno uscendo. Però se dovessimo dire i dieci film della nostra vita, non ce ne sarebbe nessuno tratto da Shakespeare, salvo forse Ran o West Side Story o i due di Orson Welles. Lo stesso Henry V di Laurence Olivier gode di ammirazione universale, ma di amore comandato. L'amore al cinema sappiamo tutti benissimo com'è, lo abbiamo provato e continuiamo a provarlo: è un coinvolgimento totale (però lucido) che fa sì che noi - e magari anche la persona seduta al nostro fianco - ci sentiamo lì su quel lenzuolo bianco su cui scorrono le immagini. E questo già la dice lunga sul problema, perché tale è: parrebbe che per fare un grande film da Shakespeare occorra in qualche modo essergli in parte infedeli. Il punto naturalmente non è Shakespeare, è il rapporto teatro-cinema, già di per sé conflittuale, ma per Shakespeare reso complicato dall'appropriazione che i teatri inglesi ne hanno fatto non per decenni ma per secoli. Così un magnifico uomo di teatro come Kenneth Branagh ha fatto film ottimi: Molto rumore per nulla, Enrico V, Amleto, ma un po' patisce sulla sua pelle l'imprinting iniziale di essere nato col teatro.

Al Pacino queste cose le sapeva benissimo, a parte l'esperienza teatrale e cinematografica, figuriamoci se un Padrino come è stato lui poteva cadere in trappola. Ha sparigliato in modo geniale: ha dichiarato che stava facendo un documentario sul Riccardo III, e non ha mentito, il documentario c'è, solo che è il modo con cui ha veramente fatto il Riccardo III.
Si è messo a girare per New York con l'amico Frederic Kimball e un operatore con la camera a mano a rompere le scatole a gente indaffarata per strada, ai semafori, nei bar, chiedendo com'è il loro rapporto con Shakespeare. Ne sono uscite alcune frasi geniali, molte sciocchezze ed un po' di menzogne, tipo uno che sembrava svenisse a sentire il nome di Shakesperare, solo che non è mai stato a teatro e le poche volte che Shakespeare compare in TV cambia canale, figuriamoci se l'ha letto!

Intanto Al Pacino comincia a crearsi uno spazio in cui inserire il tarlo non nella testa dei passanti di New York, ma nella nostra, che già eravamo pronti a gustarci il solito spettacolo in cui ammirazione fa rima con distrazione: per forza, Shakespeare di cose ne dice tante, o non ne ascolti qualcuna o perdi il filo. Al Pacino non va solo per strada, ha scritturato gli attori per il suo Riccardo III, e li riunisce attorno ad un tavolone. Come prima cosa se lo leggono insieme, ognuno la sua parte, ma anche scambiandosele. E questi attori, generalmente famosi, e tutti bravissimi, hanno una propria vita privata - non vivono d'aria - e si raccontano i fatti propri guardandosi un po' amorosamente un po' di sottecchi. La loro è arte, ma anche mestiere, guai se no. Un attore di teatro ha la trappola dell'eventuale successo: a quel punto gli tocca dire tutte le sere le stesse parole e fare gli stessi gesti per anni di seguito, in certe sere deve per forza supplire il mestiere. La sera dopo magari lo stato d'animo è invece tale che quelle parole sembrano pronunciate e pensate per la prima volta. L'impressione, a vederli e sentirli mentre si preparano parlando anche di sé, è di gente con una lunga coda di paglia, ma con una intelligenza, una furberia un po' gaglioffa, una passione, eccola la parola, più grande persino del loro enorme narcisismo.
E tu, prima sei stato messo in medias res dalle interviste stradaiole, ora ti ci appassioni a questa compagnia, in cui vedi i volti noti ed amati di Kevin Spacey, Winona Ryder, Alec Baldwin. Il Padrino, intendo Al Pacino, a quel punto sa che può fare di noi quello che vuole, e spariglia ancora: perché far parlare solo l'attrice Penelope Allen? Stiamo scherzando, nel Richard è Queen Elizabeth, ed eccola, conciata da Queen Elizabeth che fa le sue tirate, dice il perché e il per come, conduce la sua lotta di potere. Così il Buckingham di Kevin Spacey e l'Hastings di Kevin Conway e gli altri e le altre.
Crea confusione? No, perché il Padrino sa che il Richard non c'è bisogno di cercarlo perché la storia la conosciamo tutti, con la successione dei delitti: Clarence, Hastings, i figli piccoli di King Edward. Sappiamo anche i delitti precedenti, i parenti di Lady Anne trucidati da Richard, compreso il marito, il figlio dell'ultimo re Lancaster. Sappiamo come Richard riesce a comprarsi le quattro donne, in particolare come riesce a sedurre Lady Anne, davanti alla bara del marito, ucciso da chi la seduce. Sappiamo l'abilità di Richard nell'intromettersi negli odi reciproci, eliminando chi gli fa ombra per interposta persona, non si rendono conto che è lui a condurre il gioco: fino all'ultimo suo fratello Clarence crede che sia lui a difenderlo da King Edward. E Hastings passa in pochi minuti dal Consiglio Reale alla mannaia (fatto storicamente vero).
Al Pacino gioca altre due carte, i luoghi e i libri, anzitutto: stiamo facendo un documentario, e facciamolo fino in fondo, andiamo a Stratford-on-Avon nella casa di William, facendo pure scattare l'allarme così arrivano i pompieri. E prendiamoli, tocchiamoli, quei grandi libri rilegati con l'opera omnia e le illustrazioni.
Non basta ancora: ci sono i famosi attori e registi, i grandi critici, ed arrivano John Gielgud, Vanessa Redgrave, Peter Brook, Kenneth Branagh, così si può anche discutere sul complesso che gli americani hanno riguardo a Shakespeare, perché lo fanno poco e quello che hanno gli inglesi, perché lo fanno troppo. Al Pacino non fa il super partes: americano è, e crede ad un modo di essere irriverenti verso Shakespeare, ma per un di più di rispetto: Shakespeare è uno di noi, non una sublimità che finisce in accademia.

Queste apparenti contraddizioni sono rese coerenti dal disordine studiatissimo con cui si presentano, creando un continuo effetto sospresa. Finché, con alcune grandi scene, specie quella con Lady Anne, quella con Hastings e quella con Buckingham appare chiaro il senso che Al Pacino ha voluto dare al suo Richard: non il malvagio assoluto, ma la conquista del potere. Richard è sostenuto dalla coerenza nel cercare sempre la leva opportuna e l'alleanza giusta, ma Richard non è il malvagio istrionico, la quintessenza di quello che non vogliamo essere. Il Richard che ha fatto Al Pacino è una metafora incarnata del potere, come si manifesta oggi, perché non è solo Richard a godere della seduzione di Lady Anne, è l'attore Al Pacino, perfettamente identificato in quel momento, a fregarsi le mani ed a gridare il suo Ah! di gioia feroce, in quel momento è un Ah! di verità totale. Dieci minuti dopo ci sarà modo di farsi un drink con Winona Ryder, parlando e sparlando insieme, ma in quel momento preciso c'è solo da dire Ah! Bocca aperta ed occhi trionfanti che ci guardano, pienamente coinvolti e - in quel momento - completamente dalla sua parte. Poi, il 22 agosto 1485, in una brevissima battaglia a Bosworth, Richard, senza cavallo, perderà giustamente il trono e la vita, a 34 anni. Il fascino del potere, e l'autodistruzione della persona quando il suo mondo è fatto solo di potere: persino nella splendida compagnia che si è fatta Al Pacino le vediamo in azione, queste pulsioni inevitabili, salvo che pochi minuti dopo si è in grado di ridersi addosso. Ma dopo aver visto "Looking for Richard" non si può credere che esista un grande attore o autore senza una fortissima e consapevole pulsione per il potere: come farebbe a sedurci così, altrimenti?

Il marito della parrucchiera

Le mari de la coiffeuse, di Patrice Leconte (1990) Sceneggiatura di Claude Klotz, Patrice Leconte Con Jean Rochefort, Anna Galiena, Roland Bertin, Maurice Chevit, Philippe Clévenot, Yveline Ailhaud, Claude Aufaure, Julien Bukowski, Albert Delpy, Youssef Hamid Musica: Michael Nyman Fotografia: Eduardo Serra (82 minuti) Rating IMDb: 7.3
Laura
C'è una caratteristica nei film di Patrice Leconte che personalmente apprezzo molto ed è quella di arrivare subito al punto, al nocciolo della questione. Sfoglia gentilmente i veli della storia da raccontare come se fosse una cipolla per poi rimanere lì, nel cuore, senza troppe distrazioni. In questo film, si spia. Il regista dà modo allo spettatore di farlo attraverso la vetrina, gli specchi, gli sguardi dei protagonisti. Si spia soggetto, oggetto e il gioco del Fato.
Ne Il marito della parrucchiera Leconte ci racconta del piccolo Antoine e delle sue prime esperienze sensoriali tutte fantasticate attorno alle forme generose di una parrucchiera del quartiere.

La luminosità della pelle, le curve gonfie del petto accolte e incorniciate dalla scollatura, la gentilezza materna e conturbante al tempo stesso sono oggetto del suo primo, profondo desiderio, che gli fa decidere che da grande sposerà proprio una parrucchiera. I capelli non sono mai abbastanza corti e il ragazzino è quasi sempre lì, in quel negozio, fino a quando un giorno scopre che lei, la parrucchiera, si è uccisa. Antoine cresce, diventa un uomo dall'intenso e nobile volto di Jean Rochefort (Leconte lo sceglie anche per L'uomo del treno, Ridicule,Tandem, Il cadavere era già morto) e, anche questa volta complice la vetrina, vede e s'innamora di una parrucchiera, Mathilde, una bravissima Anna Galiena. I due si sposano e Antoine inizia a dare vita a quella fantasia che l'ha inebriato fin dalla adolescenza. Non ha occhi che per sua moglie mentre il tempo scorre quasi lateralmente senza disturbarli. Nulla distoglie la coppia (lei lavora, lui la guarda, si guardano sempre, ogni minuto, ogni ora, tanto da azzerare le lancette.) I clienti entrano ed escono, lui a volte li intrattiene con garbate e divertenti danze turche ma niente interrompe il silenzioso cinguettio erotico-amoroso tra Antoine e Mathilde. Le fantasie si animano di giorno e di notte in quello scrigno a vetri dove vivono perennemente -il negozio, unico spazio in cui i protagonisti si muovono- dando vita, sulle note di Michael Nyman, persino a privatissime feste a due in bagni di acqua di colonia, voluttuose sorsate di profumo lasciate scivolare da bocce e bottigliette che col blu della notte sembrano acquistare mistero e magia. L'harem di Antoine, dove Mathilde è Donna in quanto somma di un intero genere, e Desiderio. Eppure, il negozio è di fatto una gabbia dorata. Perché se è vero che Antoine è riuscito a vivere di quell'antico sogno trasformandolo in realtà, sua moglie ne è prigioniera. Felicemente consenziente, sì, ma pur sempre intrappolata nella spirale di travolgente passione.

Antoine tramite Mathilde raggiunge il suo sogno senza conoscere la delusione. Mathilde invece inizia a nutrire la paura di essere abbandonata, di perdere l'aura irresistibile che suo marito vede irradiarsi attorno al suo corpo, ad ogni suo gesto, ogni sguardo. Le rassicurazioni non bastano e Mathilde si uccide. Fu il destino del piccolo Antoine ad avvertirlo facendo capolino dalla vetrina quel giorno in cui anche la prima parrucchiera si tolse la vita? La morte in acqua di Mathilde diventa un fatto quasi naturale. Ci si scopre ad accettarla quasi senza turbamento, come se per tutto il film concepissimo per lei l'unica via d'uscita da un rapporto claustrofobico. Ovviamente non per la coppia, non per Mathilde che non fugge da Antoine perché amorevolmente onnipresente, bensì dalla paura di non riuscire più a sorreggere il mito, dalla possibilità di non essere più LA parrucchiera di suo marito ma una moglie come tante, con le rughe. Come tutte.