martedì 5 agosto 2008

Mare dentro

Mar adentro, di Alejandro Amenabar (2004) Sceneggiatura di Alejandro Amenabar, Mateo Gil Con Javier Bardem, Belén Rueda, Lola Dueñas, Mabel Rivera, Celso Bugallo, Clara Segura, Joan Dalmau, Alberto Jiménez, Tamar Novas, Francesco Garrido, Josep Maria Pou, Alberto Amarilla, Andrea Occhipinti Musica: Alejandro Amenabar Fotografia: Javier Aguirresarobe (125 minuti) Rating IMDb: 8.1

Giulia sul suo blog Pensare in un'altra luce

Mare dentro” (Mar adentro), il film di Amenabar, è un'opera che lascia il segno e ci apre alla domanda. I fatti che racconta, tratti da una storia vera, non permettono risposte dogmatiche né facili semplificazioni. Amenabar, nato a Santiago del Cile, si tiene lontano da moralismi e falsi sentimentalismi, ma ci narra l'uomo così com’è nelle sue infinite sfumature e contraddizioni, nei suoi infiniti modi di affrontare la vita e la morte, di rispondere a ciò che l’esistenza ti dà o ti toglie. Il suo protagonista non è un tetraplegico, un "più debole", un handicappato. No, Ramón Samperdo è un uomo, semplicemente un uomo, al di là di ogni etichetta e di ogni schematizzazione.

Di fronte a chi è portatore di un handicap, di chi è malato, uno dei pericoli che si corre è quell'essere 'denominati', etichettati e’ quindi, cristallizzati in una forma che tradisce sempre la ricchezza interiore, l’assoluta unicità di ogni essere umano: troppo spesso, direi quasi sempre, si tende a nascondere dietro la menomazione l’uomo.

L'intrinseca debolezza di questo metodo è la sua semplicità sommaria, il suo ingenuo tentativo di spiegare la complessità umana facendola rientrare in supposte categorie esplicative. Al contrario, la forza e la verità dell'individuo albergano proprio nella sua incommensurabilità, nel fatto che nessuno potrà mai distruggere la sua individualità con il suo diritto a scegliere ciò che è bene o male per se stessi, ciò che si vuole fare della propria vita e della propria morte.

Il film è la vera storia di Ramón Sampedro, spagnolo, nato a Xuño, nella provincia di La Coruña, il 5 gennaio del 1943. A 22 anni Ramón si imbarca su un mercantile norvegese come meccanico e percorre tutto il mondo. Il 23 agosto del 1968 si tuffa in mare da uno scoglio senza tenere in considerazione la risacca. Il colpo contro il fondale gli provoca la frattura della settima vertebra cervicale.

Per trenta anni convive con la propria tetraplegia sognando di raggiungere la libertà attraverso la morte.

"Gli altri tetraplegici non si offendano – dice Ramón - per la mia decisione, ma io non giudico chi vuole vivere e vorrei che loro non giudicassero me".

Nel corso di questi anni, servendosi di una bacchetta di legno mossa con la bocca, scrive una serie di poesie che saranno raccolte e pubblicate nel libro "Lettere dall'inferno" ("Cartas desde el infierno"). Fra queste la poesia "Los Ensueños", le cui righe iniziali danno il titolo al lavoro di Amenábar, sarà recitata mentre scorrono gli ultimi fotogrammi del film.

La richiesta di eutanasia di Ramón Sampedro arriva sino al Tribunale dei Diritti Umani di Strasburgo senza essere accolta. Ciononostante Sampedro rivendica il proprio diritto ad una morte degna e, nel gennaio del 1998, di nascosto e probabilmente aiutato da una mano amica, realizza il suo proposito.

Per trent’anni ha dovuto convivere con l'impossibilità di fare anche solo un passo. La libertà relegata al sogno, il sogno di un salto e di un volo veloce e radente, sopra i boschi e le montagne. Un volo fino al mare, quel mare che tanto aveva amato che va a confondersi col cielo e poi scendere leggero tra le braccia di Julia, la donna di cui è innamorato e l'avvocatessa che lo aiuta a combattere la sua battaglia.
A Ramon però, dopo quasi trenta lunghissimi anni, essere libero di sognare soltanto non è più sufficiente a giustificare la sofferenza della sua vita, e scrivere poesie stringendo i denti quella sofferenza la lenisce appena.

Amenabar non vuole dimostrare nessuna tesi, non sta prendendo posizione sull'eutanasia, sta raccontando mondi, uno dentro un uomo, uno intorno a lui, ed altri in giro per la storia.

Il film non vuole parlare dei tetraplegici in generale, ma di Ramón Sampedro. Non è la storia della lotta dell'uomo contro la morte, ma della lotta di un uomo contro la vita. Una vita che, secondo il protagonista, è priva di dignità. Ma altri uomini, altre donne possono scegliere diversamente come si racconta nel film Lo scafandro e la farfalla di cui ho già parlato, e come racconta nel suo bellissimo blog La Principessa sul pisello in cui potete vedere un suo video e leggere una lettera scritta a La Stampa.

Ramón Sampedro non sopporta la dipendenza: “Quando uno dipende dagli altri per tutto, perde la sua intimità”, dice con tristezza. E la realtà pesa come un macigno, quando giunge Manuela (la cognata che si prende cura di lui) ogni tre ore a cambiare la posizione di un corpo che nemmeno volendo sente più suo.

Ramon Sampedro (Javier Bardem) “La vita per me in questo stato… la vita così non è vita. Chi sono io per giudicare chi vuole vivere? Per questo chiedo che non giudichino né me né chi mi aiuterà a morire” – “Credi che qualcuno ti aiuterà?” – “Dipenderà da quelli che conducono il gioco e dalla loro paura. Non ci vuole tanto, la morte c’è sempre stata, alla fine tocca a tutti. Se fa parte di noi perché si scandalizzano tanto perché io dico che mi va di morire, come fosse qualcosa di contagioso”.
Ramon Sampedro è un uomo ricco di umorismo, creatività, pieno di vita, ma questo non gli impedisce di avere nella mente un unico obbiettivo: morire. Splendida è la prova dell’attore Javier Bardem che sa tessere sul suo volto la tela di questi sentimenti contrastanti, alternando momenti di composta commozione e sofferenza ad esplosioni di gioia compiaciuta.
"Quando non c'è via di scampo, si impara a piangere con il sorriso sul volto"

Non è quindi sull'aspetto politico sociale sul quale Amenabar vuole porre l'accento. Il regista cileno punta ad illustrare il lato umano di chi ha deciso di farla finita, ma anche di chi gli vive accanto, di chi, impossibilitato anche a prepararsi un letale composto è sempre più deciso a darsi una morte dignitosa.
Amenabar muove la macchina con ampie e veloci riprese aree a riprendere i campi ed il mare della Galizia, quel mare dentro al quale Ramon vuole con tutto sé stesso ritornare.

Amenábar è bravissimo proprio nell'uso del primo piano, che evidenzia la grande capacità comunicativa del suo attore-personaggio: il volto di Ramón-Bardem ci trasporta allora in una zona al di fuori dello spazio e del tempo e prepara il passo ai suoi momenti onirici. Spesso infatti al primo piano di Ramón seguono lunghi e vertiginosi piani-sequenza aerei che proiettano il personaggio fuori dalla sua camera domestica, in una zona inconscia in cui gli elementi del passato si alternano con quelli di un impossibile presente sognato (ed agognato).

Sono proprio le immagini a generare quelle riflessioni, quei sentimenti che non trovano solo nelle parole espressione. Ecco allora che è nel mare in quell’immensa distesa di azzurro che si riconcilia quella spaccatura tra vita e morte; è il volo che plana su paesaggi della memoria che capiamo quanta sia la nostalgia di vita del protagonista.

Nel film il protagonista guarda spesso la finestra della sua stanza; unico sguardo sul mondo, confine invalicabile se non attraverso il sogno.

Ramon incontrerà persone che si opporranno al suo proposito (l'ostinato fratello), persone che lo seguiranno silenziosamente (la cognata, il nipote, il padre), persone che lo ameranno senza restituire l'amara sensazione della commiserazione. Solo tra queste ultime Ramon capirà chi lo potrà aiutare fino alla fine.

Le musiche, composte dallo stesso regista e i brani lirici che, con le loro note riescono a far librare nell'aria Ramón, a farlo volare oltre i monti, poco sopra gli alberi, per arrivare al mare, il "luogo che gli ha dato la vita e gliel'ha tolta".

La visione della morte di Sampedro – dice in un’intervista Alejandro Amenábar - non è una visione drammatica: la morte è una fine ma fa parte del processo della vita, quindi non gli toglie il senso, la vita continua ad essere meravigliosa. Questa dicotomia tra la vita e la morte è fondamentale nel film, e proprio questa naturalizzazione della morte è quanto ho voluto spiegare nel film.
Ramon sarebbe contentissimo che si aprisse questo dibattito sull'eutanasia, io in realtà elaboro il film a partire dalla riflessione piuttosto che dalla rivendicazione, anche se il concetto di Sampedro è sempre presente: lui insiste sulla propria libertà personale."

“Vorrei evitare un mio giudizio personale sulla questione (per evitare di incappare in soliti temi religiosi e via dicendo), ma non mi riesce: di fronte a tanta sofferenza (quando si è capaci di intendere e volere) si ha il diritto (ed il dovere) di cambiare la sorte. Nessuno ha potere sulla nostra vita, se non noi stessi. Come si può vivere una vita che non si riesce (né si vuole) ad accettare?”

Questa è la domanda a cui i nostri politici e la chiesa dovrebbero rispondere. Con quale diritto decidere della vita degli altri? Chi ha gambe, braccia che funzionino può decidere per se stesso, chi non le ha no...

'Vivere è un diritto, non un obbligo', questa la frase-chiave del film, questo un messaggio forte su cui riflettere. Nessuno dovrebbe avere la presunzione di imporre il proprio modo di vivere e di morire agli altri.

Mar adentro, mar adentro,
y en la ingravidez del fondo
donde se cumplen los sueños,
se juntan dos voluntades
para cumplir un deseo.

Un beso enciende la vida
con un relámpago y un trueno,
y en una metamorfosis
mi cuerpo no es ya mi cuerpo;
es como penetrar al centro del universo:

El abrazo más pueril,
y el más puro de los besos,
hasta vernos reducidos
en un único deseo:

Tu mirada y mi mirada
como un eco repitiendo, sin palabras:
más adentro, más adentro,
hasta el más allá del todo
por la sangre y por los huesos.

Pero me despierto siempre
y siempre quiero estar muerto
para seguir con mi boca
enredada en tus cabellos.

Mare dentro, Mare dentro, senza peso nel fondo, dove si avvera il sogno: due volontà che fanno vero un desiderio nell'incontro. Un bacio accende la vita con il fragore luminoso di una saetta, il mio corpo cambiato non è più il mio corpo, è come penetrare al centro dell'universo: l'abbraccio più infantile, e il più puro dei baci fino a vederci trasformati in un unico desiderio. Il tuo sguardo, il mio sguardo, come un'eco che va ripetendo, senza parole: più dentro, più dentro, fino al di là del tutto, attraverso il sangue e il midollo. Però sempre mi sveglio, mentre sempre io voglio essere morto, perché io con la mia bocca resti sempre impigliato dentro la rete dei tuoi capelli.


7 commenti:

Anonimo ha detto...

Davvero straordinario questo post.
Complimenti.
Il film è davvero emozionante, ne ho un ricordo molto vivido e sereno.
Ciao.

Giuliano ha detto...

Il confine tra un handicappato e una persona normale è davvero minimo, e preferiamo non pensarci.
Ma questo è un ragionamento comune, ed è anche giusto non pensarci se no non andremmo avanti.
Quello che mi spaventa è la superficialità, la facilità con la quale si trinciano giudizi...

Anonimo ha detto...

Grazie a voi, qui mi sento sempre molto valorizzata... Lo dico con molta sincerità.
Caro Giuliano, a me il confine di cui parli è stato sempre nella mia vita un luogo che mi è piaciuto esplorare e starci a volte proprio dentro... Si scoprono mondi che davvero, al di là della retorica, ti regalano uno sguardo sul mondo diverso e molto più vero. A volte tocchi il dolore nella sua manifestazione più cruda, ma che esiste e non serve a nulla volgere lo sguardo altrove, a volte scopri che i confini ce li mettiamo noi, che tracciamo delle linee arbitrarie...Ma il discorso è lungo e complesso. Un abbraccio a tutti, e grazie. Giulia

Solimano ha detto...

L'esperienza del dolore non ce l'hanno tutti, per fortuna, perché il dolore fa molto male, e generalmente dura parecchio.
Ma ha uno strano vantaggio, l'aver sperimentato il dolore: che non si dà più ascolto alle sirene della tristezza, che è sofferenza autoprodotta, pseudo-dolore.
Quindi si vive meglio, perché a certe cose non si dà più nessun peso, mentre con i falsi dolori si può andare avanti per mesi, anni. Perché fanno comodo, sono un alibi per non cambiare, quando invece si dovrebbe.

grazie Giulia e saludos
Solimano

Anonimo ha detto...

Film delicato e violento al tempo stesso, magistralmente recitato e diretto.
Bel blog complimenti.

Solimano ha detto...

Silvia grazie, sei molto gentile. Confido che tu torni a trovarci, credo che di film che ti interessino tu possa trovarne, magari usando Google interno al blog (in alto a sinistra).

saludos
Solimano

Anonimo ha detto...

Guarda sto girando in largo e in lungo dentro al vostro blog e sono rapita. Vorrei che il sonno non mi cogliesse per leggere all'infinito. Mi piace molto leggere di cinema così. Siete davvero molto bravi.