West Side Story di Jerome Robbins, Robert Wise (1961) Da "Romeo and Juliet" di William Shakespeare Sceneggiatura di Arthur Laurens, Jerome Robbins, Ernest Lehman Con Natalie Wood, Richard Beymer, Russ Tamblyn, Rita Moreno, George Chakiris, Simon Oakland, Ned Glass, William Bramley Musica: Leonard Bernstein Lyrics: Stephen Sondheim Fotografia: Daniel L. Fapp (152 minuti) Rating IMDb: 7.7
Solimano
Sì, all’origine c’è il “Romeo and Juliet”, ma con due differenze non da poco. La prima è che Juliet non muore. La seconda, per me più importante, è che manca Mercutio. La morte di Juliet avrebbe reso la tragedia musicale insostenibile, la presenza di Mercutio avrebbe inserito un punto di vista “dal di fuori”, che avrebbe reso difficile il pieno coinvolgimento degli spettatori. In West Side Story ci sono momenti non riusciti, scelte sbagliate, qualche lungaggine, sono anche passati quarantacinque anni, ma quando è bello, cioè spesso, non ce n’è per nessuno. Basta ricordare i titoli finali, i nomi di Wise e di Robbins, di Chakiris e di Tamblyn scritti a mo’ di graffiti sulle palizzate e sui muri di quella zona degradata di New York, ma di idee geniali il film trabocca, nei momenti di stanchezza si può prendere fiato, affascinati come siamo da tanta bellezza in azione. Bellezza tragica e attuale, il conflitto fra etnie è un tema odierno a cui non sappiamo che soluzione dare. Come i giovani senza futuro, che cercano la solidarietà dello stare insieme (e contro altri giovani) come identità nel presente. C’è il tema dei poteri costituiti, prepotenti e schierati, c’è persino il tema omosessuale, appena accennato, nel gestore della palestra dove ballano e nella ragazzetta-maschiaccio che cerca di infilarsi nella banda, c’è addirittura la prostituzione di madri o sorelle - insulto massimo perché vero - c'è infine il tentato stupro di gruppo. Le bande sono maschili, quando si viene al dunque le ragazze sono escluse, fossero pure la morosa o la sorella. Le presenze indimenticabili - danza e recitazione - sono quelle di Gorge Chakiris (Bernardo) e di Rita Moreno (Anita) che giustamente ebbero l’Oscar come migliori attori non protagonisti. Natalie Wood (Maria) aveva ventitré anni, ma aveva già fatto “Gioventù bruciata” e “Splendore nell’erba”; qui non può essere al centro, né come danza né come voce (nel canto è doppiata). Così per Richard Beymer (Tony), ma sono distinzioni che il film assorbe come una spugna, a partire dal folgorante inizio, con Manhattan vista dall’alto, poi si scende sino al campo di basket in cui si svolgono i riti provocatori fra i Jets - gli americani poveri - e gli Sharks - i portoricani.
Sono stupito dalla forza e dalla costanza di Jerome Robbins, che continuò a credere per anni a questo progetto. Iniziò a pensarci nel 1949, ma si trattava di convincere Bernstein, che in fondo era d’accordo, ma preso da continue priorità diverse. Finché, nel 1957, ci fu il grande successo del musical di Laurents in teatro, passo avanti notevole, perché le musiche di Bernstein e le parole di Sondheim furono essenziali, ancor oggi il musical viene rappresentato in giro per il mondo. Ma fu mirabile passare al cinema in quel modo, fra case fatiscenti, scale antincendi, cantine, palestre, sottovia, campetti di basket fra le street 68 e 118, che oggi non esistono più, e proprio lì ballarono, tutto vero. Al cinema un musical con finale tragico, con la lotta fra due bande di emarginati, era un rischio grosso, per cui i produttori imposero la presenza rassicurante del regista Wise, uno adatto alla Julie Andrews di allora. Credo che si spartissero le parti, e che Robbins riuscisse a portare all’interno della danza il massimo possibile della tragedia che si stava svolgendo: sono balli di azione non perché si muovono, ma perché succedono le cose. Ci possono essere dubbi e perplessità quando parlano, ma se danzano cantando, tutto diventa chiaro come il sole. Solo che il sole non c’è, per i Jets e gli Sharks. E allora il sole diventano loro, il sole ce l’hanno dentro, compreso il fatto che è anche un sole nero. Nel finale, con la morte di Tony, la tragedia raggiunge il suo acme e si placa nella pietà comune, come in Shakespeare, ma andrei anche più indietro, come succede nell’Iliade, con Priamo che chiede il corpo del figlio Ettore ed Achille che glielo dà. Esiste nell’uomo anche una pulsione alla pietà – pulsione, non pensiero. Giunti ad un certo grado di violenza tragica, la natura impone che non ce la si faccia più e che la pietà si impadronisca finalmente degli animi e dei corpi. I poeti, da sempre, l’hanno capito, le loro antiche storie non sono sogni consolatori, né credo che oggi questa pulsione sia smarrita, malgrado tanti segni in contrario. Il finale di West Side Story non cede al sentimentalismo: c’è qualcosa di alto e di severo nel trasporto del corpo di Tony fatto, finalmente insieme, dai Jets e dagli Sharks, senza che ci sia bisogno di alcun accordo: fanno così perché a quel punto la loro natura profonda glielo impone. E gli adulti, compresi i poliziotti, per una volta almeno manifestano rispetto.
sabato 12 maggio 2007
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3 commenti:
Due parole su Leonard Bernstein, uno dei più grandi direttori d'orchestra della seconda metà del Novecento. Ha scritto molta bella musica, ma io preferisco ricordarlo sul podio, alla Scala, a dirigere Stravinskij e Cherubini.
E poi ci sono i filmati USA dei primi anni della tv, dove un Bernstein giovane e bellissimo spiega la grande musica.
(come autore, non so se è un difetto soltanto mio ma lo confondo sempre con Gershwin: ogni volta devo stare attento, perché Summertime è in "Porgy and Bess", di Gershwin e non di Bernstein...)
Giuliano, la musica di Bernstein per West Side Story è bellissima, anche se credo che nel film quello che ha dato di più sia stato Jerome Robbins, con la tragedia fatta danza restando tragedia. Ci sono stati altri musical con musica molto bella, ma l'unicità di West Side Story è nella coreografia.
Bernstein ha sempre voluto e cercato il successo per la sua musica grande, che ho provato ad ascoltare e non amo. Ma Bernstein è stato un notevole direttore di orchestra e soprattutto un grandissimo operatore culturale, figure del genere sono mancate in Italia e putroppo ne vediamo le conseguenze: allargare il pubblico aumentandone la competenza è sempre stato un mestiere spregiato in Italia, in cui non si è mai cercata l'inclusività, ma l'esclusività dei felici pochi. La conseguenza inevitabile e meritata è stata l'assenza di creatività proprio da parte dei felici pochi, un bel circolo vizioso da cui siamo tutt'altro che fuori.
Avercene, di Leonard Bernstein.
saludos
Solimano
Giuliano e Solimano, so che non ci crederete ma io, per anni, non avendo visto il film e non conoscendo ancora bene come adesso (!!!!) l'inglese, ho creduto che WEST SIDE STORY fosse un film WESTERN....
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