Le Mépris di Jean-Luc Godard (1963) Romanzo di Alberto Moravia, Sceneggiatura di Jean-Luc Godard Con Brigitte Bardot, Michel Piccoli, Jack Palance, Giorgia Moll, Fritz Lang Musica: Georges Delerue, Piero Piccioni (versione italiana) Fotografia: Raoul Coutard (103 minuti 82 in Italia) Rating IMDb: 7.7
Solimano
La premessa è che il disprezzo fa parte a pieno titolo dell’armamentario dei sentimenti e che talvolta è certamente utile provarlo – se naturale, non forzato. Permette, in situazioni che potrebbero essere di incertezza, di azzittirsi e di stare tranquillamente lontani dalla persona disprezzata. Già vedo le reazioni dei buoni, che in genere sono buoni solo di autodisprezzarsi permettendo agli altri di infierire: aria, aria, il mondo è grande - talvolta anche bello. Già questa premessa giustificherebbe la visione del film di Godard, ma i pregi non finiscono qui.
“Un vulgaire et joli roman de gare”, così Godard riguardo il romanzo di Moravia da cui trasse il film “Le mépris”, che fece molto chiasso prima e dopo, a causa del fenomeno Godard ma soprattutto del fenomeno Bardot. Chi può, se lo guardi nella edizione in francese, quella italiana fu massacrata dal produttore Ponti: accorciò il film, tagliando la bellissima scena d’amore con cui inizia, sostituì le musiche d’archi di Delerue col jazz di Piero Piccioni inserito a capocchia, rinunciò alla presa diretta nelle tre lingue: francese, inglese, italiano per un doppiaggio ingiustificato, alterò perfino il finale. “Il disprezzo” è un film che spiazza, così vuole Godard, non l’immedesimazione nella storia, vuole che guardiamo standone fuori. Ma lui dentro c’è, eccome; le sue parole cattive contro il romanzo sono sospette perché, come il protagonista Paul Javal (Michel Piccoli), è diviso fra denaro, politica, voglia di successo, voglia di dire cose vere, fra le abituali menzogne. Paul Javal ha un rapporto traballante con Camille (Brigitte Bardot), la dattilografa ventottenne che ha sposato. Riesce durante il film ad essere disprezzato da lei, anche dal produttore Prokosch (Jack Palance) che corteggia Camille, forse anche da Fritz Lang che fa la parte di se stesso, regista gentile. Tutti proviamo ripugnanza per Paul, perché un po’ della vigliaccheria e della morale pedante di Paul c’è in ognuno di noi. E’ l’intellettuale che vorrebbe essere coerente senza rinunciare alla opportunità del grande assegno, e che strumentalizza anche la moglie, se del caso. Stanno facendo un film sull’Odissea, e Paul, assunto come sceneggiatore, vorrebbe Omero con un po' di psicoanalisi qua e là. Poi ha la sua da dire su tutto, in genere giusta, ma la moglie non riesce a tenersela, Camille tornerà a Roma con Prokosch in auto, e morranno entrambi schiantandosi contro un camion a rimorchio. Fritz Lang finisce il film, fedele alla natura, al cielo, al mare ed alla classicità di Omero. E Paul, che farà, adesso? Ci sarà certamente posto per uno come lui, intelligente, cinico, avido di successo e di soldi, eppure voglioso di una coerenza di facciata a cui si imporrà di credere. Come lui ce ne sono tanti, a tutti i livelli, il tema del marito che desidera essere tradito non è così strano: è un modo per riuscire a farsi lasciare senza dovere darsi da fare. E’ bello vedere nel film come Paul esiti, perché continua ad essere innamorato di Camille (ma non lo vorrebbe). Quindi la pulsione lo spinge a fare in modo che Camille resti sola con Prokosch; per Paul il bacio che riesce a spiare è una amara liberazione. La richiesta non espressa che Paul fa a Camille è “Tradiscimi” e la risposta di lei, anch’essa non detta, è “Non vorrei, ma se ci tieni lo farò, disprezzandoti”.
Il tema di un amore che finisce male è un grande tema, non vulgaire et joli, e nel film è espresso benissimo malgrado l’inespressività totale della Bardot, salvo nei dieci minuti iniziali di rapporto - corpi e parole - con Paul e salvo quando si stende al sole nuda, coperta però sul didietro da un libro aperto: idea gaglioffa ma simbolo forte. Jack Palance porta in giro simpaticamente la sua mole un po’ da pugile suonato, sembra che non sappia neppure quello che sta succedendo sul set: cita spesso la Bibbia in modo azzeccato, è l'antenato del gangster nero di Pulp Fiction. Fritz Lang è saggio e tranquillo, palesemente rispettato da Godard, fin troppo, serviva un regista un po’ più carogna. Michel Piccoli è bravissimo nel meritare il disprezzo di tutti, noi compresi. Il quinto personaggio è una italiana piccola e indaffarata, la segretaria di Prokosch, di cui probabilmente è una delle amanti. Nel film si chiama Francesca Vanini - omaggio a Rossellini - ma è Giorgia Moll. Ecco, nel film in cui c’è il fenomeno Bardot (fenomeno vero, nel suo genere), sembra la minuta Giorgia l’unica donna frequentabile, sarebbe andata benissimo per la parte di Nausicaa nel film che Lang stava girando sull’Odissea e che nell’edizione francese riuscirà a finire, nonostante la morte del produttore. Recita anche Godard: fa la parte dell’aiuto regista un po’ imbranato. Fritz Lang, saggiamente, invece della Bibbia cita Bertold Brecht: “Tutte le mattine vado al mercato a vendere le mie bugie”.
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1 commento:
Inserisco una recensione di Romano Zanarini, uscita su "Vent'anni di cinema d'essai" Grafis, Bologna, 1989:
"Nella copiosa produzione godardiana Il disprezzo occupa un posto singolare. È infatti l’unico film tra quelli realizzati fino ad oggi dal regista francese che trae spunto da un romanzo di una certa consistenza. Godard è infatti abituato a lavorare su canovacci provvisori, su materiali occasionali che vanno dalla novella “thrilling”, all’inchiesta sociologica pubblicata da “Nouvel Observateur”, al fatto di cronaca. L’importante – per Godard – è insomma partire da un’idea di fondo che va sviluppata in termini cinematografici. Ma nemmeno di fronte al romanzo omonimo di Moravia, Godard ha giustamente ritenuto opportuno cambiare metodo di lavoro. Se, infatti, i personaggi e gli avvenimenti del romanzo trovano grosso modo una collocazione analoga nel film, lo stile di Godard sgombera il terreno dall’equivoco di una presunta “fedeltà” al lavoro di Moravia. Per altro il giudizio di Godard sul romanzo non è affatto benevolo: “un vulgaire et joli roman de gare” e ciò che interessa al regista è quindi, ancora una volta, il dato di partenza. Convinto com’è che filmare è atto creativo immediatamente diverso dallo scrivere, Godard non si affanna ad insistere in un’analisi di sentimenti. Il disprezzo provato da Camilla per il marito è utilizzato dal regista per creare un clima equivoco intorno ad un discorso sul cinema, su chi lo fa fuori e dentro il film. Non a caso in una sequenza appare un manifesto del celebratissimo Viaggio in Italia di Rossellini. Il disprezzo è anch’esso un “viaggio in Italia” di un autore cinematografico alla ricerca di una definizione più precisa, più avanzata del suo stile. Abbandonata definitivamente la tendenza del realismo cinematografico presente in A bout de souffle, Godard è ancora alla ricerca dell’elemento pamphletistico che caratterizzerà La chinoise, rafforza il gusto della citazione (Rossellini, Lang, Lumière ad esempio) per caricare il film in direzione provocatoria, amplifica la scenografia per coinvolgervi direttamente i personaggi (la lunga sequenza nella casa romana tra Paul e Camilla), trae spunto da un film in lavorazione (L’Odissea di Lang) per attribuire al Disprezzo una dimensione di work in progress. Dimensione esatta, come hanno dimostrato i produttori. I quali – ed in particolare Carlo Ponti – hanno proseguito l’opera di Godard quando il regista la riteneva compiuta. Tanto che l’edizione italiana di Le mépris – la stessa che malauguratamente circola anche nella attuale riedizione – non viene riconosciuta da Godard In un’intervista concessa alla rivista “Filmcritica” (nn. 139/140, novembre/dicembre 1963) il regista esemplificava le manomissioni operate da Ponti sull’edizione italiana: il dialogo in presa diretta è stato sostituito dal doppiaggio che non tiene conto del fatto che ogni personaggio parla la sua lingua originale rendendo necessario l’intervento della traduttrice; il montaggio ha eliminato numerosi piani ed ha invertito le due scene finali incidendo sul “significato” stesso del film; il colore è stato alterato; la musica volutamente classicheggiante di Delerue è stata sostituita da quella di Piccioni, il quale l’ha naturalmente inserita dove e come gli pareva senza l’opinione di Godard. A questo punto sorge il dubbio se sia opportuno parlare di un film di Godard (Le mépris), quando ne abbiamo visto sostanzialmente un altro (Il disprezzo). Ma il guaio è che anche noi, come spettatori, siamo stati “abituati” a sottostare alle regole del gioco imposte da un produttore qualsiasi".
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