giovedì 10 maggio 2007

Moby Dick

Moby Dick di John Huston (1956) Romanzo di Herman Melville, Sceneggiatura di Ray Bradbury, John Huston Con Gregory Peck, Richard Basehart, Leo Genn, James Robertson Justice, Harry Andrews, Bernard Miles, Friedrich von Ledebur, Orson Welles Musica: Philip Sainton Fotografia: Oswald Morris (116 minuti) Rating IMDb: 7.4
Giuliano
E' un film meraviglioso, nel senso vero della parola: da restare a bocca aperta. L'ho visto da bambino e non l'ho più dimenticato, come "La strada" di Fellini e "Il settimo sigillo" di Bergman, e ormai fa parte della mia vita. Mi sono stupito molto, in seguito, quando ho letto le riserve della critica sull'interpretazione di Gregory Peck. "Peck è troppo una brava persona per rendere credibile il suo Achab", dicevano - in estrema sintesi - queste critiche. Ho visto questo film almeno una decina di volte, in tempi diversi, e ho sempre trovato Peck perfetto, come tutto il cast, del resto. Gregory Peck è un ottimo Achab proprio perché è una brava persona; nel romanzo di Melville il capitano Achab non è mai descritto come un cattivo, e sarebbe sbagliato rappresentarlo così. E' un uomo che ha subito dei torti, e con il quale la vita è stata avara; da qui nascono il suo livore e la sua voglia di vendetta, che gli viene contestata dal suo secondo, il pio Starbuck:
- Vendetta! Contro un bruto senz'anima...
Ho letto molto anche di quello che hanno detto sia Huston che Ray Bradbury, sceneggiatore del film: parlano di film blasfemo, ateo, di rovesciamento delle intenzioni di Melville... E anche qui sono in disaccordo, e penso che non sempre chi fa un'opera d'arte sa quello che sta facendo, e Huston e Bradbury non fanno eccezione. Il "Moby Dick" di Huston somiglia molto al "Moby Dick" di Melville, forse più di quanto vorrebbe. E' vero, un film è per forza di cose diverso dal romanzo da cui è tratto, ed è stato quasi un obbligo tagliare, e tagliare tanto. Ma la sostanza c'è, sono resi magnificamente sia l'inizio dell'opera ("Chiamatemi Ismaele"), che l'incontro di Ismaele e Queequeg (uno dei momenti che rendono meraviglioso il libro di Melville), che il sermone prima della partenza, e soprattutto il capitolo dove Achab svela il vero motivo della caccia ( "Sul cassero", cap.36 del libro) è tradotto benissimo in immagini, come meglio non si potrebbe. E, soprattutto, si vedono le facce degli uomini di Achab, e qui il lavoro del regista, del direttore d'orchestra e concertatore, è perfetto. Guardate le facce di Starbuck, di Flask, di Ismaele, di Queequeg; guardate i marinai mentre remano, all'assalto dell'incomprensibile, sotto la guida dei tre diversi capilancia... Tutto questo c'è nel film, ed è la sintesi dei mirabili capitoli dedicati al paziente lavoro dei marinai. E questo è anche il modo di fare cinema di John Huston, che è stato - forse senza volerlo veramente - uno dei più grandi narratori del Novecento.

5 commenti:

Solimano ha detto...

Giuliano, ho provato per due volte a leggermi Moby Dick, ma non ci sono riuscito. Mi è successo altre volte, col Don Chisciotte ad esempio, che infine riuscii a leggere con piacere, era solo un mio problema di aspettative male indirizzate.
Non credo di riprovarci con Melville, i motivi per cui lo tralasciai erano l'oscurità del testo e il non sentirmi in sintonia con quello che perseguiva lo scrittore. Non si può farsi piacere tutto.
Il film non l'ho visto e mi dispiace, visto come lo racconti. Penso che lo vedrò, sono molto curioso di vadere come se la cava Gregory Peck, un attore che non ho mai molto apprezzato, mentre John Huston l'apprezzo molto. Finirà che Huston sarà il regista di cui porteremo qui più film, visti che ne ha fatti tanti...
Io ne sto preparando uno che credo ti sorprenderà.

saludos
Solimano

Giuliano ha detto...

Quello che non si dice quasi mai su Moby Dick è che, tra i suoi tanti significati, è anche un libro sul lavoro. Sul lavoro e sul suo valore, un’idea che oggi si è quasi del tutto persa. Quella del Pequod non è una ciurma qualsiasi, un assemblaggio di stereotipi come capita spesso di vedere: i marinai sembra di conoscerli uno per uno, di averli accanto ognuno col suo diverso carattere e aspetto fisico. Siamo anche noi imbarcati sul Pequod, ed è un miracolo del quale sono capaci solo pochi altri grandi narratori, per esempio Stevenson. E il miracolo si ripete sia con Melville che con Huston.
A me piacciono moltissimo i capitoli che Melville dedica al lavoro dei marinai: sono lunghissimi, numerosi, e noiosissimi per molti lettori che li saltano senza farsi problemi. Ma oso dire che è questa la vera essenza del libro, che lo rende molto simile alla nostra vita: come in Moby Dick, anche a noi capitano lunghi periodi di bonaccia, di paziente e oscuro lavoro quotidiano; e poi qualcosa si scuote, arrivano improvvise giornate piene di avvenimenti decisivi, che ci piombano addosso senza nemmeno avvertire. La narrazione di Melville è così, lenta e lunga con improvvise accelerazioni: come la vita.
E poi – ma qui si va sul personale – io ho lavorato tanti anni in mezzo alle sostanze di cui parla Melville. Certo, oggi i cosmetici non si fanno più con il grasso di balena, ma dal punto di vista chimico siamo sempre lì: nello shampoo e nel bagnoschiuma o nelle creme che comperate e usate tutti i giorni ci sono ancora le sostanze descritte nei lunghi capitoli di Moby Dick dedicati alla lavorazione del grasso di balena, però adesso hanno origine vegetale. In chimica tutti i grassi e gli oli sono classificati come “acidi”, e i loro nomi parlano chiaro: acido laurico, miristico... Derivano però quasi tutti dal cocco, e io leggendo Moby Dick tanti anni fa avevo ben presente odore, aspetto e consistenza dell’alcool cetil-stearilico: dove “stearil” sta per stearina (grasso animale) e “cetil” ha questo nome proprio in onore dei cetacei. (Ma nessuno si allarmi: sono quasi cent’anni che il grasso di balena ha smesso di interessare l’industria cosmetica e quella dei saponi). Alla separazione della parte cetilica (più liquida) dalla parte stearica (più solida) Melville dedica molte pagine, e io avrei voluto scriverci una saggio – però purtroppo come chimico non valgo molto, la mia istruzione è quella che è, e dovrò aspettare che il saggio sulla baleneria lo scriva qualche professore di chimca di quelli veri.

Solimano ha detto...

Giuliano, mi sono divertito a riguardare i titoli dei film che abbiamo inserito sinora dal punto di vista del lavoro dei protagonisti. Lavoro non in senso anagrafico, ma nel senso che nel film abbia importanza. Ho scoperto che sono pochissimi: I marinai di Moby Dick, il medico e il farmacista di Madame Bovary, l'oste e piccolo agrario di Con gli Occhi Chiusi, I Compagni (naturalmente), l'idraulico di Cuori al Verde, l'industriale di Il Gusto degli Altri (ma anche gli altri personaggi, è un caso quasi unico). Infine, il lavoro in Play Time, eh sì, c'entra molto!
Molto poco, come vedi, ci sarebbero da capire i motivi, ma eviterei sintesi premature: occorre anche capire le aspettative degli spettatori, probabilmente determinanti per certe scelte.

saludos
Solimano

Giuliano ha detto...

E' vero, manca "Metropolis", manca "Tempi moderni", e manca l'erede di Chaplin, Ken Loach.

Solimano ha detto...

Giuliano, anche Jour de fete di Tati è fra quelli in cui il lavoro è ben presente, non solo perché Tati fa il postino, ma anche per altri personaggi. E il lavoro è presente in tante piccole commedie all'italiana, e in molti film francesi. Però, ad esempio, manca in Fellini e in Bergman.
I western sono un caso a sé, ma va detto che inserire i lavori di campagna è una cosa ben diversa che inserire i lavori di fabbrica, anche come accettazione da parte del pubblico.

saludos
Solimano