Solimano
Ho letto prima dei diciotto anni tutte le Storie inglesi di Shakespeare cronologicamente, non come composizione da parte dello scrittore, ma in ordine di successione dei re inglesi. Quindi lessi per primo il Giovanni, che con le altre c’entra poco - si svolge molto prima - poi il Riccardo II, l’Enrico IV, l’Enrico V, l’Enrico VI, il Riccardo III e l’Enrico VIII. Non feci così per scelta culturale, ma perché mi sembrò l’unica possibilità: storie erano e come tali andavano lette, con curiosità di sapere come andavano a finire. Non credo di aver fatto male, è bello leggere Shakespeare con la golosità con cui si legge un libro giallo. Le due parti dell’Enrico IV mi piacquero più di tutto il resto, fra cui non apprezzai l’Enrico V e l’Enrico VIII. E’ una scelta che tuttora condivido, e l’Enrico IV è l’opera di Shakespeare che amo più di tutte, anche se non l’ho mai vista rappresentata né in teatro né al cinema. Dopo questa lettura frenetica, fatta sui libretti della prima BUR, volevo saperne di più, e non è sempre un bene, perché è meglio il ragazzo ingenuo che ha voglia di leggere che il critico in erba che cerca di farsi piacere quello che non gli piace, solo perché i professori glielo hanno detto. Mi fecero passare il gusto dei continui colpi di scena dell’Enrico VI, e degli intrighi seduttivi di Riccardo III; cercarono, soprattutto, di farmi piacere l’Enrico V, ma non ci fu niente da fare, continua a non piacermi anche oggi.
Mi toccò sorbirmi il film che ne fece Laurence Olivier, tutti a dire che bello che bello, e non potevo dire di no, stavolta, ma la riserva mentale c’era. L’ho rivisto l’altra sera, dopo averne sentito parlare in questi giorni, e finalmente ne ho una idea precisa, che non credo cambierò. Non mi piace, né in Shakespeare né in Olivier, l’esaltazione nazionalistica e la rappresentazione adulatoria del re, specchio di tutte le perfezioni. Mi dà poi molto fastidio la nostalgia del gruppo basso, personaggi così brillanti nell’Enrico IV, come la Quickly, Pistol e Bardolph, divenuti ora sospirosi, tristi e litigiosi. Non c’è Falstaff, questo è il guaio più grosso, ma si sente anche l’assenza di Doll Tearsheet, la prostituta sentimentale.
Vengo ad Olivier. Ha molte idee storicamente geniali, poi adottate da tutti: l’uso dei colori, delle controscene, dei salti temporali e spaziali: dal Globe al mare, a Honfleur, alle campagne di Azincourt, ai castelli dei francesi sconfitti. E ne potrei aggiungere altre, ma la mia sarebbe una visione da erudito con un fondo di noia. Anche la recitazione, non solo per il doppiaggio, ha l’aria di un museo del bel dire. Finalmente mi accorsi di quale era la cosa che poteva prendermi, e che mi prese: quel film è una magnifica pittura, fedelissima in tutto, delle ultime e più felici glorie del feudalesimo prima dei cannoni e della prospettiva rigorosa - non di quella intuitiva. E’ il mondo dell’Autunno del Medioevo di Huizinga, è il paradiso dell’arte di corte, del gotico internazionale. Qualche saccente parlò di Paolo Uccello, magari anche fra i consiglieri di Olivier. Non c’entra Paolo Uccello, al di là del tema delle tre battaglie di Firenze, Parigi e Londra: Paolo le dipinge più di trent’anni dopo. C’entra di più il Pisanello ridotto a sinopie del palazzo ducale di Mantova, c’entrano, soprattutto, le meravigliose miniature borgognone, prime fra tutte le très riches heures di Chantilly, miniate proprio negli anni attorno alla battaglia di Azincourt. Non credo al progresso nelle arti, quindi sono libero da ogni sprezzo verso gli antecedenti di Masaccio e del Brunelleschi, libero per mia fortuna, perché - restando qui in Lombardia - ce n’erano di grandi miniatori, come Michelino, Giovannino , Belbello. Uno dei capolavori di Gentile da Fabriano, il Polittico di Valle Romita, sta a Brera. Così, ho trascurato i dialoghi, i discorsi, perfino il corteggiamento di Kate, ma ho contemplato i costumi, i berretti, le capigliature, i gesti, i castelli, le campagne, i cavalli, i cibi sui tavoli. Per tre quarti d’ora ho visitato una magnifica mostra d’arte dei primi del ‘400, con Jan Van Eyck e Masaccio già quasi sulla porta, ma non ancora entrati. Chi glielo dice, ad Enrico V, che tutta la sua faccenda di guerra con la scusa della legge salica si è tramutata in bellezza? Chissà, ne sarebbe contento pure lui, ora che non c’è più Falstaff qualche alternativa la dovrà pur trovare.
Ho letto prima dei diciotto anni tutte le Storie inglesi di Shakespeare cronologicamente, non come composizione da parte dello scrittore, ma in ordine di successione dei re inglesi. Quindi lessi per primo il Giovanni, che con le altre c’entra poco - si svolge molto prima - poi il Riccardo II, l’Enrico IV, l’Enrico V, l’Enrico VI, il Riccardo III e l’Enrico VIII. Non feci così per scelta culturale, ma perché mi sembrò l’unica possibilità: storie erano e come tali andavano lette, con curiosità di sapere come andavano a finire. Non credo di aver fatto male, è bello leggere Shakespeare con la golosità con cui si legge un libro giallo. Le due parti dell’Enrico IV mi piacquero più di tutto il resto, fra cui non apprezzai l’Enrico V e l’Enrico VIII. E’ una scelta che tuttora condivido, e l’Enrico IV è l’opera di Shakespeare che amo più di tutte, anche se non l’ho mai vista rappresentata né in teatro né al cinema. Dopo questa lettura frenetica, fatta sui libretti della prima BUR, volevo saperne di più, e non è sempre un bene, perché è meglio il ragazzo ingenuo che ha voglia di leggere che il critico in erba che cerca di farsi piacere quello che non gli piace, solo perché i professori glielo hanno detto. Mi fecero passare il gusto dei continui colpi di scena dell’Enrico VI, e degli intrighi seduttivi di Riccardo III; cercarono, soprattutto, di farmi piacere l’Enrico V, ma non ci fu niente da fare, continua a non piacermi anche oggi.
Mi toccò sorbirmi il film che ne fece Laurence Olivier, tutti a dire che bello che bello, e non potevo dire di no, stavolta, ma la riserva mentale c’era. L’ho rivisto l’altra sera, dopo averne sentito parlare in questi giorni, e finalmente ne ho una idea precisa, che non credo cambierò. Non mi piace, né in Shakespeare né in Olivier, l’esaltazione nazionalistica e la rappresentazione adulatoria del re, specchio di tutte le perfezioni. Mi dà poi molto fastidio la nostalgia del gruppo basso, personaggi così brillanti nell’Enrico IV, come la Quickly, Pistol e Bardolph, divenuti ora sospirosi, tristi e litigiosi. Non c’è Falstaff, questo è il guaio più grosso, ma si sente anche l’assenza di Doll Tearsheet, la prostituta sentimentale.
Vengo ad Olivier. Ha molte idee storicamente geniali, poi adottate da tutti: l’uso dei colori, delle controscene, dei salti temporali e spaziali: dal Globe al mare, a Honfleur, alle campagne di Azincourt, ai castelli dei francesi sconfitti. E ne potrei aggiungere altre, ma la mia sarebbe una visione da erudito con un fondo di noia. Anche la recitazione, non solo per il doppiaggio, ha l’aria di un museo del bel dire. Finalmente mi accorsi di quale era la cosa che poteva prendermi, e che mi prese: quel film è una magnifica pittura, fedelissima in tutto, delle ultime e più felici glorie del feudalesimo prima dei cannoni e della prospettiva rigorosa - non di quella intuitiva. E’ il mondo dell’Autunno del Medioevo di Huizinga, è il paradiso dell’arte di corte, del gotico internazionale. Qualche saccente parlò di Paolo Uccello, magari anche fra i consiglieri di Olivier. Non c’entra Paolo Uccello, al di là del tema delle tre battaglie di Firenze, Parigi e Londra: Paolo le dipinge più di trent’anni dopo. C’entra di più il Pisanello ridotto a sinopie del palazzo ducale di Mantova, c’entrano, soprattutto, le meravigliose miniature borgognone, prime fra tutte le très riches heures di Chantilly, miniate proprio negli anni attorno alla battaglia di Azincourt. Non credo al progresso nelle arti, quindi sono libero da ogni sprezzo verso gli antecedenti di Masaccio e del Brunelleschi, libero per mia fortuna, perché - restando qui in Lombardia - ce n’erano di grandi miniatori, come Michelino, Giovannino , Belbello. Uno dei capolavori di Gentile da Fabriano, il Polittico di Valle Romita, sta a Brera. Così, ho trascurato i dialoghi, i discorsi, perfino il corteggiamento di Kate, ma ho contemplato i costumi, i berretti, le capigliature, i gesti, i castelli, le campagne, i cavalli, i cibi sui tavoli. Per tre quarti d’ora ho visitato una magnifica mostra d’arte dei primi del ‘400, con Jan Van Eyck e Masaccio già quasi sulla porta, ma non ancora entrati. Chi glielo dice, ad Enrico V, che tutta la sua faccenda di guerra con la scusa della legge salica si è tramutata in bellezza? Chissà, ne sarebbe contento pure lui, ora che non c’è più Falstaff qualche alternativa la dovrà pur trovare.
4 commenti:
Caro Solimano, tu scrivi che “è bello leggere Shakespeare con la golosità con cui si legge un libro giallo”, e a me è venuto subito in mente quel racconto di James Thurber sulla signora appassionata di Agatha Christie che si trova a leggere il Macbeth e ne conclude che no, non può essere stato Macbeth ad uccidere il Re...
Però hai ragione, è così che si deve fare: anche l’Edipo va letto in sequenza, perché è avvincente (“come a chi nulla sa, parla e racconta”). Capisco anche la tua antipatia per il personaggio del Re Enrico V, che ho provato anche prima che diventasse Re: non è un bel personaggio, anche Macbeth è più simpatico di lui (quantomeno, è più umano). E’ molto bella anche la tua osservazione sulle miniature medievali: non sono un esperto, ma qualcosa ho visto e capisco. (Quando le truppe arrivano davanti al Castello, e il Castello sembra davvero di cartone, mi è venuto in mente Guidoriccio, ma anche Emanuele Luzzati).
Continuo a ritenere questo film un capolavoro, soprattutto perché è una grande lezione di teatro, anche dal punto di vista storico: le sequenze iniziali del Globe spiegano cos’era il teatro elisabettiano più di tante dotte disquisizioni, e rimandano alle sequenze degli attori nel “Sogno di una notte di mezza estate” (i cartelli che indicano “bosco”, e noi dobbiamo immaginare il bosco...).
Certamente è un film vecchio, e per noi italiani è impossibile capire il gioco degli accenti locali, il gallese, lo scozzese, l’irlandese: si poteva ovviare facendo ricorso ai nostri dialetti, ma per fortuna la direzione del doppiaggio è stata molto sobria. Anzi, è difficile da capire all’inizio, ma la voce di Olivier è quella di Gino Cervi: anche questo fa parte del piacere di rivedere e riascoltare l’Enrico V di Olivier, che – se non fossimo al corrente della data di nascita del cinema – si potrebbe benissimo immaginare come girato ai tempi di Donizetti; e forse è proprio questo che voleva fare Olivier, ed è così che è ancora visto Shakespeare da molti, non come contemporaneo di Cervantes e Monteverdi ma come un autore dell’Ottocento.
PS: Nell’Enrico V di Shakespeare il vecchio Falstaff non c’è proprio: si dà solo la notizia della sua morte. Quantomeno, Olivier è stato così gentile da farcelo rivedere un’ultima volta...
Il film non l' ho visto ma quanto verrei vederlo, ora, dopo aver letto questo affascinante post di Solimano ed il commento, altrettanto interessante, di giuliano.
Grazie, Solimano e grazie, giuliano!
Giuliano, il racconto di Thurber a suo tempo l'ho letto, la signora non solo concludeva che non poteva essere stato Macbeth l'assassino, ma individuava il vero colpevole!
Se guardi attentamente lo sfondo della immagine che ho messo, dopo averla cliccata, vedi il paesaggio proprio come nelle miniature borgognone di inizio '400, quindi abbastanza dopo rispetto al Simone Martini dell'affresco di Guidoriccio, a parte che c'è attualmente una grande discussione se l'affresco sia suo o fatto successivamente.
Un esempio di paesaggio del genere è non lontano da casa tua: a Castiglione Olona, negli affreschi di Masolino che sono attorno al 1435, ma Masolino dipinge lì come se Masaccio non ci fosse ancora stato.
Hai ragione, anche nell'Enrico IV il principe Henry non è gradevole, col suo "Non ti conosco vecchio" rivolto a Falstaff appena diventa re.
Non sapevo che il doppiaggio l'avesse fatto Gino Cervi, adesso che ci penso, mi sembrava proprio una voce nota...
saludos
Solimano
Inserisco parte dello scritto di Emanuela Martini su Cineforum 296 7/8 del 1991:
"Quando diresse e interpretò nel 1944 la versione cinematografica dell'Enrico V di Shakespeare, Laurence Olivier, trentaseienne, era già uno dei grandi riconosciuti della scena inglese. Aveva già fatto coppia con John Gielgud, nel 1935 in Giulietta e Romeo, alternandosi con lui nei ruoli di Romeo e Mercuzio, ed era entrato nel 1937 all'Old Vic (la "home of Shakespeare"), interpretando, tra gli altri, AmIeto, Macbeth, Coriolano. (...) Olivier fece nel '44 Enrico V, per superare al cinema il momento più cupo e disfattista della guerra, portando un esercito rozzo a sconfiggere in suolo francese un'armata attrezzata. Il film fu incoraggiato e promosso dal governo britannico, nonostante i costi, alti per il tempo di guerra (400.000 sterline, procurate da Rank e da Filippo Del Giudice che, con la sua Two Cities Films, aveva già prodotto In Which We Serve di Coward e Lean). Gli esterni furono girati nell'Eire, nella tenuta di Powerscourt, libera da pali telegrafici e altri segni di industrializzazione; il governo irlandese mise a disposizione 500 uomini della Guardia Civile e un veterinario del posto trovò 200 cavalli e cavalieri, che impersonarono la cavalleria francese. Il lavoro di Robert Krasker sul Technicolor fu laborioso, ma sortì risultati di brillante suggestione cromatica, come quello di Roger Furse sui costumi, ispirati, come le scenografie, a miniature e calendari dell'epoca. Le fonti di ispirazione per il climax del film, la battaglia di Agincourt, erano invece, esplicitamente, la “Battaglia di San Romano” di Paolo Uccello e la battaglia dell'Aleksandr Nevskij di Eisenstein. Quanto alle celeberrime frecce, non furono mai fotografate in volo, ma disegnate e rielaborate otticamente da Day Pop, uno dei geni degli effetti speciali della scuderia di Korda.
Ma il lavoro più ostico (e pericoloso) era quello della sceneggiatura, adattata dallo stesso Olivier insieme al critico Alan Dent, riducendo a 1500 le 3000 righe del testo originale, fino a ottenere un film che, senza tradire “hollywoodianarnente” Shakespeare, ne rispettasse anche la popolarità originaria. (...) Il risultato di "miniatura vivente" è ancora oggi quasi unico, e il film si colloca (senza avere nulla del teatro fotografato) su una sottile linea di confine tra cinema e teatro: certo, non ha l'istintivo movimento cinematografico delle riduzioni shakespeariane dì Orson Welles, ma un'abilità profonda a seguire il flusso e le rotture narrative di Shakespeare in quel tanto che esse già contengono di profondamente cinematografico.
(...)"
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