(da "Cinema")
(...)
Il corso Garibaldi procurava al Cinema Garibaldi l’afflusso più lauto: tortuoso e cosparso di gusci d’aràchidi, di mozziconi di sigarette appiattiti, di scaracchi d’ogni consistenza e colore, c’era il ricordo delle castagne, quel delle arance, per i camminatori degli oscuri cammini luminoso e giocondo segno del Sud: c’era il presentimento dei cocomeri patriottardi. Bucce da marciapede, care ai chirurghi. Una folla, solita a deprecare la pessima organizzazione del mondo, lo percorreva trionfalmente, dimenticando a sprazzi i metodi di cura suggeriti dagli specialisti: come per attimi si dimentica un eterno mal di denti.
Sicché, per tutto quel pomeriggio, il Cinema aveva allentato i suoi cordoni di velluto verde trangugiando frotte di stupende ragazze, alcune però con le gambe leggermente arcuate, e un po’ troppo grasse: fra le gambe delle quali sgattaiolarono tutti gli undicenni del quartiere.
Queste ragazze della domenica, insomma, mi parevano talora un po’ ridicole. Però qualcuna mi piaceva. Sono talora piuttosto gonfie che floride, le più dimesse hanno gonfi portamonete un poco sdruciti: ambiscono sopra ogni cosa di recare una borsetta da passeggio e un cappello, sicché passino inosservate, come una signora qualunque che tutti si volgano ad ammirare. Col gran caldo le borsette finiscono per tinger loro le mani, le quali appaiono alcuna volta un po’ rosse e screpolate, a meno che non siano strette dai guanti.
Sono i guanti un ingegnoso dispositivo inteso a facilitare varî atti del cerimoniale contemporaneo, come la consultazione dell’orario delle Ferrovie dello Stato o la raccolta dei ventini, quando, preso il resto, se ne seminano per terra tre o quattro, suscitando negli astanti vivo interessamento.
Per solito le ragazze in discorso scompaiono dalla circolazione verso le sette: ma il Cinema è un vortice folle, inghiotte anche i più massicci artiglieri.
Il fatto è che due erano assai graziosamente adorne di fenomenali perle, le quali non parevano destare alcuna cupidigia nei cavallereschi marioli che le attorniavano.
Gli undicenni e i da meno pagavano mezzo biglietto o una frazione qualunque, per esempio cinque centesimi d’ingresso, secondo la disponibilità del momento. Il distributore faceva un suo rapido conto, qual’era il massimo che poteva venir fuori da quelle tasche, di quei calzoni. E puntava sull’imponibile. Alcuni di quei calzoni non conoscevano nemmeno le mani riparatrici della mamma e il conto non poteva andar tanto in là.
Spigliati e franchi, e senza lo sguardo implorante del cucciolo che sta per leccarsi i baffi, pretendevano fior di biglietti i giovanotti: piantavan sul banco un tondo fermo, magari un biglietto, e non per ischerzo. E, invece di implorare, condannavano: nella vita non bisogna incantarsi. «Del resto, se fa affari, il Garibaldi, è per noi».
Vestivano dei completi marron o bleu: alcuni dal caldo s’eran però tolta la giacca: le bretelle si rivelavano allora un po’ vecchie e sudate: erano affette da complicazioni ortopediche di spaghi e legamenti, tra i quali e i bottoni superstiti della cintura intercedevano rapporti piuttosto complessi. Entravano rumorosamente, inciampando in qualche imprevisto del Garibaldi, sì che di necessità dovevan finire addosso allo sciame gaietto: («oh! ma dico!»): e le lor mani robuste davano indicazione d’una «settimana» saldamente incastonata nel fenomenalismo economico, le di cui leggi sono, è vero, un po’ dure d’orecchio; e non disdicevole neppure alle esigenze del divenire morale: i di cui canoni, sempre larghi di vedute e soccorrevoli con ogni campana quando si tratta di incanalarci verso le molteplici ricevitorie del bene, si piantano però poi policemen a gambe larghe davanti quella poca minestra, esigendo, uno sguardo fregativo, il vizzo scontrino: lo leviamo con il pianto nell’anima e con un tremendo appetito in corpo e c’è scritto:
«Vale per minestre una».
E abbiamo fatto una fatica da cavallo!
Alcuni giovani erano ancor più eleganti, ancor più disinvolti: scarpe a vernice, piega diritta del pantalone, una mollezza elegante non disgiunta da virile trascuranza per ogni aspetto del mondo che fosse estrinseco al problema fondamentale.
I loro proventi erano sicuramente più lauti: adocchiavano certe belle, sogguardandole in tralice: recidendo con lo sguardo d’un attimo la continuità dell’ora festosa: e quasi recando nella trama ingenua dell’allegrezza la sensazione di un al di là vero e diverso costituente la vita. Le occhiate ràpide sudice e vili destavano l’ammirazione dei minori, che pensavano, divenuti serî ad un tratto: «Questi sì, che sono già uomini».
…
Improvvisamente la sindrome tipica delle frenòsi collettive si manifestò nel magma. Impazzirono tutti. Non furono più che degli accamaònna e orcoìo, fra gomitate e strappi paurosi. Dal foderame de’ panni emergevano volti tumefatti, nel mentre particolari oggetti di rifinimento si allontanavano dal proprio insieme come sciarpe o mezze giacche o qualche ombrello restìo che, tenuto disperatamente da cinque dita e da un pezzo di braccio male incastratosi fra gli omeri di due sconosciuti, seguiva il proprietario un po’ da lontano. Invocazioni disperate dei gracili, degli erniosi, dei denutriti, e così degli asfittici, gelavano i cuori sensitivi. E poi tutto si confuse in un violento torrente il quale, dopo intoppi e gorghi d’ogni maniera, proruppe rigurgitando nella diabolica sala, così come dai valichi retici usò dilagare verso melme padane la paurosa gente, nomine Unni.
…
Nella tenebra liberatrice in cui piombammo ad un tratto ogni urto fu attenuato e il boato delle passioni umane vaniva.
I silenti sogni entrarono così nella sala.
Sicché, per tutto quel pomeriggio, il Cinema aveva allentato i suoi cordoni di velluto verde trangugiando frotte di stupende ragazze, alcune però con le gambe leggermente arcuate, e un po’ troppo grasse: fra le gambe delle quali sgattaiolarono tutti gli undicenni del quartiere.
Queste ragazze della domenica, insomma, mi parevano talora un po’ ridicole. Però qualcuna mi piaceva. Sono talora piuttosto gonfie che floride, le più dimesse hanno gonfi portamonete un poco sdruciti: ambiscono sopra ogni cosa di recare una borsetta da passeggio e un cappello, sicché passino inosservate, come una signora qualunque che tutti si volgano ad ammirare. Col gran caldo le borsette finiscono per tinger loro le mani, le quali appaiono alcuna volta un po’ rosse e screpolate, a meno che non siano strette dai guanti.
Sono i guanti un ingegnoso dispositivo inteso a facilitare varî atti del cerimoniale contemporaneo, come la consultazione dell’orario delle Ferrovie dello Stato o la raccolta dei ventini, quando, preso il resto, se ne seminano per terra tre o quattro, suscitando negli astanti vivo interessamento.
Per solito le ragazze in discorso scompaiono dalla circolazione verso le sette: ma il Cinema è un vortice folle, inghiotte anche i più massicci artiglieri.
Il fatto è che due erano assai graziosamente adorne di fenomenali perle, le quali non parevano destare alcuna cupidigia nei cavallereschi marioli che le attorniavano.
Gli undicenni e i da meno pagavano mezzo biglietto o una frazione qualunque, per esempio cinque centesimi d’ingresso, secondo la disponibilità del momento. Il distributore faceva un suo rapido conto, qual’era il massimo che poteva venir fuori da quelle tasche, di quei calzoni. E puntava sull’imponibile. Alcuni di quei calzoni non conoscevano nemmeno le mani riparatrici della mamma e il conto non poteva andar tanto in là.
Spigliati e franchi, e senza lo sguardo implorante del cucciolo che sta per leccarsi i baffi, pretendevano fior di biglietti i giovanotti: piantavan sul banco un tondo fermo, magari un biglietto, e non per ischerzo. E, invece di implorare, condannavano: nella vita non bisogna incantarsi. «Del resto, se fa affari, il Garibaldi, è per noi».
Vestivano dei completi marron o bleu: alcuni dal caldo s’eran però tolta la giacca: le bretelle si rivelavano allora un po’ vecchie e sudate: erano affette da complicazioni ortopediche di spaghi e legamenti, tra i quali e i bottoni superstiti della cintura intercedevano rapporti piuttosto complessi. Entravano rumorosamente, inciampando in qualche imprevisto del Garibaldi, sì che di necessità dovevan finire addosso allo sciame gaietto: («oh! ma dico!»): e le lor mani robuste davano indicazione d’una «settimana» saldamente incastonata nel fenomenalismo economico, le di cui leggi sono, è vero, un po’ dure d’orecchio; e non disdicevole neppure alle esigenze del divenire morale: i di cui canoni, sempre larghi di vedute e soccorrevoli con ogni campana quando si tratta di incanalarci verso le molteplici ricevitorie del bene, si piantano però poi policemen a gambe larghe davanti quella poca minestra, esigendo, uno sguardo fregativo, il vizzo scontrino: lo leviamo con il pianto nell’anima e con un tremendo appetito in corpo e c’è scritto:
«Vale per minestre una».
E abbiamo fatto una fatica da cavallo!
Alcuni giovani erano ancor più eleganti, ancor più disinvolti: scarpe a vernice, piega diritta del pantalone, una mollezza elegante non disgiunta da virile trascuranza per ogni aspetto del mondo che fosse estrinseco al problema fondamentale.
I loro proventi erano sicuramente più lauti: adocchiavano certe belle, sogguardandole in tralice: recidendo con lo sguardo d’un attimo la continuità dell’ora festosa: e quasi recando nella trama ingenua dell’allegrezza la sensazione di un al di là vero e diverso costituente la vita. Le occhiate ràpide sudice e vili destavano l’ammirazione dei minori, che pensavano, divenuti serî ad un tratto: «Questi sì, che sono già uomini».
…
Improvvisamente la sindrome tipica delle frenòsi collettive si manifestò nel magma. Impazzirono tutti. Non furono più che degli accamaònna e orcoìo, fra gomitate e strappi paurosi. Dal foderame de’ panni emergevano volti tumefatti, nel mentre particolari oggetti di rifinimento si allontanavano dal proprio insieme come sciarpe o mezze giacche o qualche ombrello restìo che, tenuto disperatamente da cinque dita e da un pezzo di braccio male incastratosi fra gli omeri di due sconosciuti, seguiva il proprietario un po’ da lontano. Invocazioni disperate dei gracili, degli erniosi, dei denutriti, e così degli asfittici, gelavano i cuori sensitivi. E poi tutto si confuse in un violento torrente il quale, dopo intoppi e gorghi d’ogni maniera, proruppe rigurgitando nella diabolica sala, così come dai valichi retici usò dilagare verso melme padane la paurosa gente, nomine Unni.
…
Nella tenebra liberatrice in cui piombammo ad un tratto ogni urto fu attenuato e il boato delle passioni umane vaniva.
I silenti sogni entrarono così nella sala.
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P.S. Nell'immagine, con Gadda c'è Pietro Germi, al tempo in cui girava "Un maledetto imbroglio" tratto dal "Pasticciaccio" di Gadda.
P.S. Nell'immagine, con Gadda c'è Pietro Germi, al tempo in cui girava "Un maledetto imbroglio" tratto dal "Pasticciaccio" di Gadda.
3 commenti:
Ci siamo! Con Pietro Germi si apre un mondo di ricordi che non finisce mai per l'atmosfera, l'ambientazione, i suoni e, persino, per gli odori di una Italia che ho sentito come mia. Non so se possodefinire nostra quella Italia problematica, contraddittoria, ipocrita ma non ancora segnata dal consumismo.
Leggere Gadda è sempre un piacere. Peccato soltanto che il racconto finisca con l'inizio del film...
Di germi ce ne sono dei film buoni, compreso Signori e Signore, che a Treviso sono ancora indignati, perché quelle storie boccaccesche erano tutte vere: sapevano i nomi e i cognomi, ma nessuno ne parlava in pubblico: un film nel film.
Però, per gustarsi Un maledetto imbroglio occorre non ricordare che deriva dal Pasticciaccio.
saludos
Solimano
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